Quella di cui l’amena Sutrio ha da poco ospitato la terza edizione rappresenta, a giudizio di chi scrive, una tra le più riuscite ed originali manifestazioni enogastronomiche dell’intera Penisola. In essa dieci contrade della Carnia propongono annualmente, in una tenzone dall’afflato più propositivo che competitivo, altrettante declinazioni borgherecce dei cjarsons – i celebri tortelli friulani lontanamente imparentati con i nostri casoncelli. Provare a tratteggiare un profilo coerente della pietanza, nella molteplicità delle sue versioni, risulta decisamente arduo: si tratta di un raviolo dal ripieno non carneo, usualmente a base di ricotta o di patate, avviluppato in una sfoglia piuttosto grezza ottenuta impastando sole farina ed acqua.
Tra le note aromatiche della farcia prevalgono quelle della melissa, ed una quasi onnipresente tendenza dolce apportata dalla frutta – tanto fresca (pere, come nel raviolo bergamasco) che secca, candita o in confettura. Le interpretazioni più ardite si spingono sino ad azzardare l’inclusione del cioccolato fondente, del rum e del vermut. Il condimento – quello invece sì – è uguale per tutti: burro fuso ed una grattugiata di scuete fumade (ricotta affumicata). A margine del percorso gastronomico, graduato per impatto gustativo delle pietanze, è proposta una serie di abbinamenti enoici regionali che regalano gemme quali il Friulano di Robert Princic o il Sauvignon di Graziano Specogna. Gli organizzatori preavvisano che si tratta di “assaggi”, ma le dosi, in un circondario dalla proverbiale devozione a Bacco, non sono certo da avvinamento dei calici come in troppe degustazioni d’oggi.
La manifestazione, che richiama migliaia di appassionati anche d’oltreconfine, ha l’indiscutibile merito di aver contribuito a fissare le variazioni locali sul tema del cjarson preservandole da un altrimenti irrimediabile caduta nell’oblio. Un analogo sforzo andrebbe a mio avviso compiuto con riguardo al tortello bergamasco, prodigo di secolari interpretazioni paesane – se non addirittura familiari – che rischiano di svaporare schiacciate dall’inflessibilità dei disciplinari. Sogno ad occhi aperti di poter un giorno addentare, per le vie di Città Alta, un casoncello alla moda antica – quello, per intenderci, con la farcia a base di pere spadone, amaretti, mandorle e cedro candito – magari accompagnato ad un calice di Moscato di Scanzo. A quando anche a Bergamo una rassegna come quella di Sutrio?