La politica si nutre di uno striminzito vocabolario: qualche slogan da quattro soldi, due o tre ipotiposi che evochino, a seconda, serenità o rabbia, e un mazzetto di concetti buoni per tutte le stagioni. Salvini, oggi, usa un linguaggio “aderenziale”: gli hanno spiegato che enumerare le cose, contando sulla punta delle dita, fa molto pragmatico (e anche un tantino sensale di bestiame, il che non guasta), e lui conta, anche quando non c’è nulla da contare. Renzi e tutta la sua congrega, giù giù, fino agli assessori comunali, applica sistematicamente l’otomercanzia, ossia il fare orecchie da mercante quando gli si sottopone una questione: il loro vocabolario si fonda su termini anfibolici, mimetici, insomma insaponati al punto da essere inafferrabili. Vero è, però, che i preoccupanti scricchiolii della cadrega hanno indotto perfino i più mielosi ed imbelli a mettersi l’elmetto e scendere in battaglia: Marino, che è uno cui potresti fregare l’automobile mentre la sta guidando, ha riscoperto gli slogan grevi dell’antifascismo militante, mentre Renzi sintetizza le sottili differenze ideologiche tra PD e Lega paragonandole a quelle che separano gli uomini dalle bestie. Ma sono saldi di fine stagione: vedrete che le omelie ritorneranno, insieme alle rondini, a primavera. Ogni politica ha le sue parolette magiche: ogni politico ha un suo sistema, ed uno soltanto, per affrontare quella partita di briscola chiamata, che è l’amministrazione dell’Italia. Poi, c’è la gente. Alla gente non importa nulla delle parole che usi, se, alla fine, non combini una cippa.
Che tu sia un disutile che declama martelliani o che tace come un ghiozzo, per il popolo non cambia nulla: è la disutilità il dato sensibile, se rendo l’idea. Così, la gente ascolta e guarda: e, quasi mai, ciò che ci dicono le nostre orecchie coincide con ciò che ci mostrano i nostri occhi. Prendiamo, ad esempio, il problema dei problemi: il federalismo. Oggi, i più improbabili tiratori a campare hanno riscoperto le autonomie, mentre di federalismo non parla più nessuno: ieri, sembrava il pensiero dominante di tutti quanti. Cosa voglia dire federalismo si può scoprire in due modi diversi: il primo, che è il meno efficace e il più complicato, è quello di prendere un dizionario e cercarsi il lemma. Il secondo, enormemente più semplice ed istruttivo, consiste nel prendere l’automobile e andare a farsi un giretto. Percorrete la Valsugana, per esempio: a Caldonazzo, seguite le indicazioni per gli altipiani e godetevi serenamente il bel panorama. Ad un certo punto, la vostra attenzione sarà attirata da due diversi e contemporanei fenomeni: il primo sarà la comparsa di un cartello, che vi comunica che state lasciando il Trentino per entrare in Veneto; il secondo sarà un progressivo aumento del rollio e del beccheggio della vostra vettura. Perché, incredibile ma vero, un metro dopo il cartello confinario, cominceranno le buche: la strada sarà una specie di groviera.
Ripetete l’operazione a Ponte Caffaro, in Vallagarina, nel Primiero: il fenomeno si ripeterà con spaventosa esattezza. Ecco, questa è l’autonomia: questo sarebbe il federalismo, se a qualcuno venisse in mente di federarci. Di là, una strada liscia come un biliardo: di qui, un percorso di guerra. Ovviamente, il dato si potrebbe estendere a quasi tutti gli aspetti della vita pubblica: dai marciapiedi ai gerani sui balconi, dai finanziamenti per chi ristruttura agli investimenti nell’istruzione. Se si trattasse di fare un paragone tra Sudtirolesi e Siciliani, capirei qualche remora di ordine antropologico: regioni autonome, stessi vantaggi, due mondi contrapposti. Merano e Messina si somigliano come Lucerna e Katmandu. Ma qui stiamo parlando di una società del tutto affine: di popolazioni provenienti da una cultura affatto identica. La differenza sta nei soldi: nell’autonomia, appunto. Quell’autonomia che crea una sperequazione talmente clamorosa da saltare all’occhio, appena, in macchina, varchi quella linea immaginaria che separa la PAT dalla provincia di Belluno, di Verona o di Brescia.
E, dunque? Dunque, credo che, se la Lombardia o il Veneto godessero degli stessi privilegi di autonomia del Trentino, le strade venete e lombarde sarebbero come quelle trentine: non ci vedo grosse difficoltà. E i gerani, i marciapiedi, le scuole e le ristrutturazioni andrebbero di pari passo. Le regioni autonome, a mio modesto parere, sono un’ingiustizia intollerabile: non perché sia contrario all’autonomia, quanto perché sono favorevole all’autonomia di tutti e non solo di qualche privilegiato: id est il federalismo. Così, per me, che politico non sono, la parola ‘federalismo’ significa, essenzialmente, strade senza buche, e via discorrendo: non mi importa nulla di fanfaluche identitarie, di celthia, di padania o di brembania. Tanto, ormai, siamo una pasta e fagioli globale: che identità dovremmo difendere? Io parlo di privilegi, che, una volta estesi anche a noialtri, figli della serva, cesserebbero di essere tali. E si convertirebbero in denaro sonante. Quando Cappelluzzo propose un referendum per rendere Bergamo provincia autonoma, noi versavamo allo Stato, ogni anno, 1.900 miliardi di lire, e ce ne tornavano 90: provate a fare un paio di conticini. Con 1 miliardo di euro all’anno, immagino che qualche buca si potrebbe riempire: perfino se la si riempisse di banconote…