“C’era una volta l’edilizia bergamasca”; potrebbe cominciare così una storia non certo a lieto fine, per raccontare le difficoltà di un settore, fino a qualche tempo fa fiore all’occhiello del sistema economico lombardo e oggi protagonista suo malgrado di un dramma dagli effetti devastanti che, giorno dopo giorno, coinvolge imprese, artigiani e lavoratori dalla professionalità più diversificata.
I numeri parlano chiaro e soprattutto non lasciano spazio a dubbi: negli ultimi quattro anni hanno chiuso i battenti quasi 1.250 aziende, 9mila lavoratori hanno perso il proprio posto di lavoro e il numero delle imprese, dei lavoratori e delle ore lavorate è diminuito del 30 %. Ma sono dati destinati ineluttabilmente a peggiorare se si considera che già dall’inizio del 2013 il lavoro è diminuito del 14% ed è quasi raddoppiato rispetto agli ultimi mesi il ricorso all’utilizzo della cassa integrazione guadagni. È una situazione drammatica dalle pesanti ripercussioni economiche, considerato il peso rivestito da un comparto e da tutto il suo indotto, che nella nostra provincia rappresenta il 20% del Pil. Infatti oltre alle difficoltà ormai croniche delle imprese di costruzioni, si aggiungono quelle delle aziende che operano nella realizzazione di accessori e materiali edili, che pagano un effetto a cascata senza precedenti.
Ma come si è giunti a tale situazione? Se lo chiedono in molti, soprattutto i lavoratori che un lavoro non ce l’hanno più; le ragioni sono molteplici e non esiste una risposta assoluta: una costruzione massiva rispetto alle reali richieste del mercato, la scandalosa difficoltà di pagamento dei lavori commissionati dagli enti pubblici, chiamati a rispettare il famigerato patto di stabilità e il congelamento di liquidità e prestiti da parte degli istituti bancari hanno forse causato una diminuzione degli ordini, una svalutazione degli immobili, una bassa moralità nei pagamenti e gli inevitabili tagli sul personale. Sono solo ipotesi, supposizioni e teorie, perché le motivazioni sono molto più complesse e non possono essere elencate con troppo faciloneria. Magari lo fosse.
Sicuramente bisogna invertire la rotta, è necessario affrontare l’emergenza con strumenti adeguati, in grado di ricreare le condizioni giuste affinché il settore delle costruzioni torni ad essere volano di sviluppo e foriero di professionalità e di qualità; ma è necessario anche ripensare, e subito, ad una linea d’azione che supporti le migliaia di persone senza lavoro, che devono essere accolte e sostenute nel loro disagio, perché il rischio che siano dimenticate è alto.
Ci vuole un modo nuovo di fare edilizia, una strategia che punti sempre più ai concetti di recupero e di restauro del patrimonio esistente, con un’attenzione focalizzata ai temi dell’ambiente e della riqualificazione in termini energetici, statici e sismici. Ma diviene anche fondamentale analizzare gli aspetti critici del passato, per evitare gli stessi errori commessi e per definire nuove strategie: negli ultimi anni uno spasmodico e incontrollato consumo di suolo ha sdoganato decine di costruzioni e messo in secondo piano, salvo rare eccezioni, la qualità del costruito a tutto vantaggio della mera speculazione immobiliare. È una verità scomoda da ascoltare, ma si è preferito una politica di cementificazione senza troppe regole, che ha riempito i portafogli, soffocato il territorio e portato con sé una grossa mole di invenduto. Oggi nella nostra provincia si contano quasi venticinquemila vani vuoti, che non solo non sono in possesso dei requisiti (in primis quelli energetici) ma si deteriorano mese dopo mese, perdendo ulteriormente valore. E gli imprenditori edili? Attendono con trepidazione i risultati delle elezioni, con la speranza e in taluni casi la convinzione, che la situazione possa radicalmente migliorare. In verità se lo augurano tutti, ma per adesso si è certi solamente di una cosa: la crisi continua a “mordere” la bergamasca e tale situazione lascia aperti molti interrogativi sugli scenari del futuro.