Roberto Maroni non deve sottostimare la pur modesta intelligenza di noi poveri tapini. E’ lecito, anche se nient’affatto scontato, che il presidente della Regione voglia difendere il suo vice (nonché assessore alla Sanità fino ad agosto) Mario Mantovani, trasferito a San Vittore con pesanti accuse, dalla corruzione alla turbativa d’asta, ma gli argomenti che utilizza dovrebbe sceglierli meglio. Nell’immediatezza dell’arresto, colui che a colpi di scopa tolse la Lega dalle mani di Umberto Bossi, ha osservato che buona parte delle accuse rivolte all’esponente di Forza Italia non riguardavano “il suo ruolo istituzionale”. Come se uno potesse essere contemporaneamente un imprenditore corrotto e corruttore e uno specchiato amministratore pubblico. Ma con il passare delle ore è apparso evidente che i “magheggi” di Mantovani avvenivano in buona parte in forza dell’incarico rivestito al Pirellone. E quindi l’argomento è caduto. Così, Maroni si è lanciato in una difesa ancora più avventurosa. “Nella vicenda Mantovani non c’è un euro di tangenti» ha scritto su Twitter, del tutto incurante che le mazzette non s’usano più da lunga pezza, essendo state sostituite (come peraltro prevede il codice penale che parla non a caso di “denaro o altra utilità, anche di natura non patrimoniale”) da scambi di favori in diverse declinazioni. Quel che Antonio Di Pietro ha icasticamente definito “ingegnerizzazione della tangente”.
Tutte le accuse, naturalmente, vanno dimostrate, ma il tenero Maroni non può non provare un minimo di imbarazzo nel leggere con quale disinvoltura uno dei suoi principali collaboratori ha utilizzato i suoi molteplici ruoli (assessore, senatore, sottosegretario, sindaco) per una gestione del potere a fini di tornaconto personale che fa impallidire i ras di Mani Pulite. Adesso che Mantovani è finito nella melma è facile per molti tratteggiarne la figura come una sorta di “faraone”, compresi taluni cronisti che alle spregiudicatezze del forzaitaliota non hanno mai fatto nemmeno il solletico e che ora sfoderano articolesse al curaro. Eppure, il male ha radici antiche e anche il presidente della Regione ne deve rispondere, politicamente parlando. Perché era evidente a tutti che c’era un conflitto d’interessi gigantesco nell’affidare la delega alla sanità (che in Lombardia significa l’80 per cento delle spese correnti) ad una figura che contemporaneamente, da patron di case di cura e di centri di assistenza con un fatturato annuo di decine di milioni di euro, incassa soldi dalla Regione. Dicevano i nostri vecchi che chi va al mulino s’infarina… Non sarà il caso di Mantovani, certo, ma un minimo di cautela e di attenzione, al di là degli equilibri di coalizione, non avrebbe guastato.
Così come il moralizzatore Maroni s’è guardato dal modificare quel meccanismo che fa dipendere le nomine dei direttori generali delle Asl e delle Aziende ospedaliere dai voleri dell’assessore (e tutt’al più dello stesso presidente). Il contenuto di taluni sms e di certe telefonate tra Mantovani e alcuni dirigenti mostra senza alcun bisogno di commento come la doverosa cortina di distacco tra i diversi ruoli è stata più e più volte spazzata via. Passare dalla familiarità al servilismo (sempre ben retribuito, naturalmente) fino allo scambio di utilità è un giochetto che può comprendere anche il candido presidente della Regione rimasto senza scope di ricambio.
Alla luce di tutto ciò, parlare di giustizia ad orologeria, di complotti, di tentativo di nascondere gli scandali romani significa semplicemente rinchiudersi in un fortino, nella speranza che il temporale passi e tutto possa scorrere come prima. Pia illusione, i conti alla fine dovrà farli anche Maroni e la sua mancanza di coraggio, pena capitale per chi fa politica, gli costerà cara. Certo più degli strilli e delle agitazioni delle minoranze che ora cercano di prendersi la rivincita dopo la sonora sconfitta di due anni fa. Bisogna conservare un minimo di memoria. La Regione a guida formigoniana crollò, proprio per mano della Lega, tra gli scandali. Il centrodestra in Lombardia toccò il punto più basso. C’erano tutte le condizioni per conquistare il Pirellone. A condizione di schierare un candidato all’altezza. Ma i vertici del Pd, a partire dall’allora segretario regionale Maurizio Martina con la testa già rivolta a Roma (dove adesso sta facendo molto bene), decisero di suicidarsi affidandosi al tenero Umberto Ambrosoli. Una figura tanto perbene quanto priva di carisma e di personalità. E così Maroni ha vinto la partita. Oggi che se ne criticano giustamente le scelte occorre avere l’onestà intellettuale di ricordare che scelte più adeguate e lungimiranti avrebbero potuto togliere la terra sotto i piedi, senza aspettare ancora una volta l’intervento della magistratura, a chi ha usato e usa il Pirellone per i propri comodi.