Il ministro Franceschini è, probabilmente, una bravissima persona. Certo, visto così, non dà l’idea di essere un’aquila o un pozzo di scienza e, dovendogli affidare un ministero, forse forse sarebbe andato meglio quello delle riforme, che, data l’assoluta mancanza di riforme, è un’assoluta sinecura. Però, lui, da bravo soldatino, ha cercato di aggiornarsi, di rendersi degno dell’alto incarico: si è fatto crescere una barba da filosofo, che, nell’ambiente della politica, che è tutto apparenza e niente sostanza, a un dipresso vale quanto una laurea in filosofia; e, adesso, si sente pronto per l’arduo compito di radere al suolo Pompei.
Tanto, deve aver pensato, in Italia di cultura non si parla mai, quindi, anche se combino qualche bischerata, non se ne accorgerà nessuno! Non immaginava, il malcapitato, che proprio lui avrebbe creato lo scoop destinato a portare la cultura sulle prime pagine dei giornali. La notizia è che sono stati nominati i direttori di venti musei italiani. Anzi, la notizia è che, di questi venti, sette sono stranieri. In realtà, non è una gran notizia: però, siccome qui da noi, ormai, la tifoseria si divide tra internazional-europeisti, che accusano di misoneismo gli avversari, e identitar-nazionalisti, a loro volta pronti a dare dell’antitaliano al nemico, anche una non notizia può trasformarsi nel solito circo equestre. E così è, puntualmente, accaduto.
Da una parte, ci sono dei fessi che pensano che faccia straordinariamente figo affidare ad uno straniero l’amministrazione del nostro Paese: gente che parla di governance, di startup e di jobs act, come se si trovasse a Petaluma o a Nantucket, anziché sul Sentierone. Dall’altra parte, ci sono quelli che hanno scoperto il patriottismo quando gli è arrivato il primo stipendio da parlamentare: gente che non sa nemmeno cosa sia uno studio severo, un lavoro indefesso, ma che farnetica, ugualmente, di studio e di lavoro, facendo leva sull’orgoglio nazionale di un popolo di bruti, che si risveglia solo ogni quattro anni, per i mondiali di calcio. Insomma, una bella gara tra gonzi. E, in mezzo, c’è lo ieratico Franceschini, con la sua barbetta da Cacciari, la sua faccia da Cacciari, le sue giacchette da Cacciari: se avesse anche il quadro neurologico di Cacciari, saremmo a cavallo: purtroppo, invece, i neuroni sono quelli di Franceschini, e ci dobbiamo un tantino accontentare. Si vede che, di fronte alla vexatissima quaestio delle nomine dei direttori dei musei (ossia, di una delle pochissime istituzioni culturali italiane che portino a casa quattro palanche), il povero ministro ha deciso di usare il sistema della brava madre di famiglia: un colpo al cerchio e uno alla botte. Su venti, sette saranno, si fa per dire, raccomandati, enfants du pays, direttori di museo scelti “alla bergamasca”, per intenderci. Altri sei (venti, ahimè, non è divisibile per tre) saranno gente che sta in coda da trent’anni e, infine, sette li prendiamo all’estero, dove, com’è noto, non si ruba, non si bara e, soprattutto, si fa lo storico dell’arte studiando la storia dell’arte. Dunque, i giochi sono fatti.
In realtà, l’idea di andarsi a prendere i direttori all’estero è derivata semplicemente dal football, che è l’unica realtà culturale che i nostri governanti devono avere in qualche modo presente: i giocatori più forti (Franceschini direbbe ‘top players’) me li vado a cercare a Londra, Parigi o Madrid, quando non in Gambia o in Argentina. Una volta, la cosa pareva funzionare: costavano meno e giocavano meglio. Oggi, nove volte su dieci, ti porti a casa un brocco clamoroso, pagandolo come il fuoco, ma tant’è. Se funziona per un centrocampista, deve aver pensato il filosofico Franceschini, perché non dovrebbe funzionare con i musei? Certo, si potrebbe obiettare che, forse forse, un po’ di sano patriottismo ogni tanto non guasterebbe; oppure che in Italia ci sono centinaia di bravissimi storici dell’arte costretti a fare i supplenti liceali o a inventarsi lavoretti per campare. Ma diamola per buona, questa bubbola dei direttori stranieri: ammettiamo che il pensiero debole, per una volta, sia forte. Ebbene, io vorrei un prefetto prussiano: avete presente quei granatieri pomerani alti due metri e cattivissimi, dallo sguardo d’acciaio? Io lo vorrei così, il mio prefetto. E vorrei un sindaco parigino: che trasformasse il lungomorla nella spiaggia dei bergamaschi. Il Donizetti lo affiderei ad un viennese, così, se a Vienna si strimpella a Capodanno, noi faremmo il concerto di metà Quaresima, con tanto di rasgamento della ecia e Marcia di Gioppino finale: e tutti a battere le mani ritmicamente. Alla viabilità ci metterei Indurain: alla cultura qualche Guggenheim, anche se, in mancanza di meglio, basterebbe qualcuno che distinguesse i centenari dai settantennali. Insomma, anche a me piacerebbe prendere l’eccellenza dall’estero e metterla qui: e, forse, sarebbe anche efficace, come sistema. Ma non sarebbe giusto, perché gli Italiani dovrebbero imparare, una buona volta, a coltivare il proprio orto, se vogliono mangiare le proprie verdure. Investire nei giovani, anziché negli stranieri. Perché non basta una barba, purtroppo, per fare un filosofo: mentre per fare un ministro, a quanto pare, sì.