Bergamo carnivora, quando il pesce era solo cibo da dame

Bergamo carnivora, quando il pesce era solo cibo da dame

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Bloch Pieter_AertsenIl grande medievalista Fernand Braudel l’ha marchiata come l’età dell’Europa carnivora. Ed invero i due secoli intercorsi tra la metà del trecento e quella del cinquecento rappresentano per i partigiani dell’alimentazione vegetariana uno dei picchi storici di oscurantismo. Autorevoli studi attestano infatti che durante tale lasso di tempo i consumi annui pro capite di carne, pur con ampi scarti su base di ceto, fluttuassero dai 30/40kg delle regioni mediterranee sino al quintale abbondante delle lande del nord. Livelli considerevolmente superiori a quelli di ogni altra epoca trascorsa, e ragguardevoli anche se raffrontati agli 80kg dei nostri giorni – specie allorché si tenga conto che il rigido regime di magro allora vigente un giorno su tre oggi è solo uno sbiadito ricordo.

Per uno dei beffardi paradossi che sovente determinano il corso delle vicende umane, le radici di così protratte condizioni di opulenza alimentare – un “periodo di vita individuale felice”, sempre secondo Braudel – affondano in una delle più tragiche calamità della storia. Fu infatti la spaventosa epidemia di peste nera che tra il 1347 ed il 1353 falcidiò il continente, spazzando via oltre un terzo della popolazione europea, a gettare le basi della susseguente fase di prosperità. Alle prese con un mondo di punto in bianco spopolato, i sopravvissuti al contagio si ritrovarono in dote risorse nutrizionali ampiamente eccedenti i loro fabbisogni. Ed il crollo della domanda di cereali determinato dalla profonda recessione demografica indusse i proprietari terrieri a riconvertire in maggese buona parte degli arativi, liberando così vasti appezzamenti per il pascolo. Nei nuovi prati stabili dell’area padana iniziò dunque a prender piede l’allevamento bovino, sino a quel momento sostanzialmente negletto. Non è pertanto casuale che, a margine di un’abbondanza di carni senza precedenti, giusto in quegli anni vedessero la luce gli storici caci vaccini di pianura, tra i quali avevano distinzione il Parmesano ed il Lodigiano.

Le arti culinarie presero celermente atto del mutato quadro di disponibilità alimentari. Se i ricettari del duecento e del trecento facevano per molte preparazioni generico riferimento alla carne, senza curarsi di precisare da quale bestia questa dovesse provenire, a partire dal XV secolo la letteratura gastronomica iniziò a dedicare specifica attenzione alle peculiarità delle singole specie e dei diversi tagli. Nell’inarrestabile crescendo di popolarità delle proteine animali, le classi più altolocate finirono addirittura per lasciarsi contagiare dal popolaresco trasporto per il quinto quarto. Sulle tavole nobiliari fecero così comparsa eccentriche portate di frattaglie, con punte di audacia quali bulbi oculari d’agnello e palato bovino, che nelle epoche pregresse erano inderogabilmente riservate al consumo plebeo.

Da più di un indizio si desume che in questo impeto continentale di frenesia carnivora Bergamo fosse seconda solo a pochi altri centri. Tra i plurimi riscontri spicca l’ordinanza emanata nel 1562 dal vescovo Federico Cornaro il quale, per prevenire le inottemperanze al regime quaresimale di magro, decretò che nel periodo intercorrente tra il mercoledì delle ceneri ed il sabato santo non più di tre beccai in città fossero autorizzati a tener aperta bottega. Per venir serviti i compratori dovevano peraltro essere muniti di una speciale autorizzazione, rilasciata dalle autorità ecclesiastiche solo dietro presentazione di adeguata documentazione medica. L’articolazione del disposto e la severità delle pene (scomunica, ammenda e punizioni corporali) la dicono lunga su quanto ricorrenti dovessero essere presso i nostri avi le trasgressioni all’astinenza precettiva dalle carni.

Non meno emblematica è la lista delle imbandigioni per lo sposalizio di due rampolli della borghesia mercantile bergamasca – Girolamo Rota e Dorotea Alessandri – celebrato nel febbraio del 1523. Il banchetto nuziale si apri con un servizio di credenza – ai nostri giorni un buffet freddo – assai più succinto di quello che un’occasione di tale importanza avrebbe di norma comportato. Vennero infatti serviti solamente zenzero candito, pignoccate con saponea (confetti allo zenzero), cavi di latte – antenati del mascarpone – e torta bianca (un timballo a base di formaggio fresco). Un così stringato preambolo era apparentemente inteso a non guastare l’appetito per la pantagruelica sarabanda di carni che di lì a poco avrebbe avuto corso, aperta da quaglie e pernici assieme a piccioni lessi ed allo spiedo. E poi fagiani, pavoni, anatre ed oche nella loro livrea – i volatili, secondo l’uso del tempo, erano scuoiati, arrostiti ed infine ricomposti nel loro piumaggio in modo da serbare sembianze da vivi. Quindi capponi bolliti, arrosto ed in limonia – un intingolo medievale a base di succo di agrumi e latte di mandorle. Ed ancora, inframmezzati da un imprecisato pasticcio che sarebbe comunque azzardato congetturare vegetariano, arrosti di lepri e di conigli a propria volta rivestiti del loro manto, seguiti da petto di vitello in salsa.

Approssimandosi ormai l’epilogo del banchetto, gli impavidi cucinieri dovettero pensare che nulla più convenientemente di un’ultima tornata di arrosti potesse accomodare lo stomaco dei commensali. Ecco dunque che dagli spiedi vennero recati sulle mense porchette, capretti e lombi di vitello. Per soprammercato anche le portate deputate a guidare il disimpegno dall’abbuffata si trovarono impresso l’onnipresente marchio della carne: furono infatti servite gelatine di manzo, di vitello e di cappone. E finalmente Dio volle che giungesse il liberatorio turno di torte, pere cotte, confetti e marzapani.

Superfluo rimarcare che in seno alla ciclopica lista delle vivande del pesce non comparisse neppure l’ombra, ancorché nei convivi più formali dell’epoca quest’ultimo fosse di norma alternato agli altri cibi. In realtà in calce al resoconto si fa incidentale cenno a carpioni ed anguille, temoli e trote, persici e bose. Per singolare combinazione i manicaretti ittici rimasero tuttavia esclusivo privilegio delle dame, tenute quel dì all’osservanza del regime di magro cadendo l’indomani la tutt’altro che imperdibile festività di Sant’Agata.

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