Già fruttano più niente che poco, quando addirittura non sono un costo. Ma in prospettiva non daranno nemmeno più certezza i soldi nelle casseforti bancarie. Potranno scomparire da un giorno all’altro e non per furti, ma per la stessa ragione per cui negli anni Venti, o anche in tempi più recenti, in altri Paesi, c’erano le file davanti alle banche per ritirare i soldi prima che l’istituto andasse in bancarotta con tutto quello che c’era dentro, risparmi compresi.. E’ la dura legge del “bail in”, che si potrebbe tradurre con garanzia dall’interno, ma sa tanto di fregatura, conseguenza di un principio sulla carta condivisibile, ma dagli effetti imprevedibili. Per evitare che i cocci di un fallimento bancario se li debba accollare lo Stato (“bail out”, garanzia dall’esterno), secondo la regola del “guadagni ai privati e costi al pubblico”, le perdite resteranno, come in una normale società, in capo ai creditori. Il problema però è che creditore della banca è anche chi deposita i soldi in un conto corrente dato che formalmente è come se li prestasse all’istituto.
In Austria la sorpresa del “bail in” la scopriranno a breve, dato che è il primo paese dell’Unione europea ad adottare la legislazione approvata dall’Ecofin il 26 giugno di due anni fa. L’Austria è particolarmente sensibile al tema, considerato il crac di Hypo Alpe Adria, nazionalizzata nel 2009 spendendo in sei anni cinque miliardi e mezzo dei contribuenti per risolvere la situazione. Ma adesso che la “bad bank” Heta, nata intorno al credito problematico di Hypo Alpe Adria, ha fatto emergere perdite per 8,7 miliardi di euro lo Stato austriaco ha deciso di non ripetere l’esperienza. Secondo le norme europee a pagare il conto saranno chiamati quindi azionisti e sottoscrittori di obbligazioni, che presumibilmente perderanno tutto il capitale investito, ma poi anche gli altri creditori e i correntisti, partendo dalle grandi aziende per poi passare alle piccole medie imprese e quindi ai correntisti individuali.
E in effetti appare più logico che paghino i creditori, investitori in bond e correntisti compresi, piuttosto che i contribuenti. Ma è difficile da digerire che un tranquillo correntista che già deve pagare, nella pratica, per il servizio fornito dalla banca di tenergli il conto – strada tra l’altro inevitabile considerati, almeno in Italia, i crescenti obblighi di tracciabilità -, venga anche obbligato a rischiare di perdere tutto se l’istituto si è messo a sua insaputa a fare speculazioni scellerate e sbagliate.
In Italia dove già la inviolabilità del conto corrente è stata dissacrata con il prelievo forzoso del 6 per mille operato dal governo Amato nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1992, lo Stato continua a garantire i depositi bancari con un tetto a centomila euro. Finora non c’è stato però bisogno di intervenire in maniera così drastica. I salvataggi bancari sono stati sempre risolti con una gestione all’interno del sistema degli istituti di credito, al massimo con l’utilizzo, ad esempio, per Tercas, di un fondo interbancario di tutela dei depositi che adesso anche in altri Paesi, Austria compresa, stanno introducendo.
Ma in Italia i crediti in sofferenza, ovvero i prestiti bancari d altissimo rischio di non restituzione, si avvicinano ormai ai 190 miliardi, circa il 10% del totale degli impieghi (quasi quattro volte il livello del 2007, prima della crisi subprime). Se si aggiungono i crediti deteriorati (che includono anche incagli e ritardi ) si superano i 350 miliardi. Insomma, nonostante le ricapitalizzazioni chieste dall’Europa, c’è il rischio che neanche il Fondo interbancario possa bastare. Proprio mentre il rischio di finire nelle disgrazie di qualche istituto scellerato si estende ben oltre i 16 istituti commissariati dalla Banca d’Italia, si profila l’arrivo del ”bail in” anche in Italia. E allora nella scelta della banca non basterà fare attenzioni alle condizioni offerte o alla comodità dello sportello fuori casa, ma si dovrà tenere d’occhio prima di tutto la solidità della banca.