Aziende familiari,
attenti alle “trappole” 

Le imprese familiari sono ancora il modello più tipico non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Nel nostro Paese, oltre l’80% delle società di capitali fa capo a una famiglia, percentuale che sale ancora nelle medie e piccole imprese. Secondo l’osservatorio Aidaf-Bocconi le imprese familiari (in questo caso medie e grandi), hanno mantenuto maggiore redditività e crescita, minor dipendenza da capitali terzi, fatto salire il numero dei dipendenti in misura maggiore rispetto alle altre, evidenziando pure una minore discontinuità negli assetti proprietari.
“Grazie alle loro peculiarità hanno resistito bene alla crisi – ha spiegato agli imprenditori di Confindustria Bergamo Daniela Montemerlo, che si occupa di imprese familiari dal 1990 ed è consulente di aziende familiari e di famiglie imprenditoriali in Italia e all'estero, nonché docente di strategia delle aziende familiari all'Università SDA Bocconi e consigliere d'amministrazione del Banco Popolare dopo aver ricoperto analogo incarico nel Credito Bergamasco – puntando sulla prospettiva temporale di lungo termine con cui la proprietà opera e investe, sull’impegno della proprietà in una molteplicità di ruoli, sul radicamento nel territorio e sull’impegno sociale”.
Ora però “la ripartenza” impone idee chiare e mente lucida per evitare le trappole in cui generalmente le imprese familiari possono cadere, soprattutto perché in questi ambiti la psicologia diventa protagonista e non è così facile distinguere i legami affettivi dalle valutazioni sull’assetto patrimoniale e sul miglior assetto del management.
“Il caso classico – ha sottolineato la studiosa – è rappresentato dall’inserimento nei ruoli chiave di figli e parenti non adatti, facendo così male sia alla società che a questi giovani”.
Fra le trappole evidenziate c’è l’indisciplina che non fa riconoscere bene la distinzione fra azienda e famiglia e non fa applicare le giuste logiche meritocratiche; l’inerzia rende invece lenti nell’attuare soluzioni perché si vanno a toccare questioni delicate. C’è poi la tendenza a dare per scontato che le relazioni di parentela implichino coesione e fiducia tra soci familiari e quindi a trascurare la comunicazione sia tra diverse generazioni, sia all’interno di una stessa generazione, pianificando, se necessario, il cambiamento, sempre tenendo il timone sulla meritocrazia. Infine l’azienda familiare rischia di sentirsi “unica” e limita il confronto con altre imprese e famiglia. “In questo ambito – ha sottolineato la studiosa – le associazioni imprenditoriali sono una palestra fondamentale”.
Si aggiunge anche un pizzico di maschilismo, in via di superamento, che tende a mettere da parte la discendenza femminile per semplificare le successioni, rinunciando però a priori a risorse che potrebbero rivelarsi molto preziose.
Serve dunque una struttura, anche semplice, per governare i rapporti con la famiglia, ma è fondamentale mantenere la forza della visione strategica e dell’intuizione dei fondatori, attualizzandola e allargandola a più ambiti. “E’ quanto hanno fatto le imprese di successo giunta alle terza o quarta generazione – ha sottolineato la studiosa – molto presenti anche sul territorio bergamasco”.
Aspetto decisivo anche la condivisione della visione strategica con una squadra di talenti che in questo modo si sente in tutto e per tutto parte dell’azienda. 

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