Roberto Zappa è a capo di Sematic, azienda di famiglia leader in Italia nella produzione di componentistica per gli ascensori
Parafrasando: la vita non è fatta solo “a” e “di” scale. C’è chi scende e c’è chi sale anche con gli ascensori.
Che cosa sale e che cosa scende?
Roberto Zappa, a capo di Sematic, l’azienda di famiglia creata dal papà e gestita dal terzetto di fratelli ( con lui ci sono anche Paolo e Marco), leader in Italia nella produzione di componentistica per gli ascensori (155 milioni la previsione di fatturato per il 2015, 360 dipendenti nella sede di Osio) ci pensa su un attimo.
“Che cosa sta precipitando? Vedo in caduta certi valori e, mentre lo dico, mi sento un po’ vecchio. Il rispetto per le persone, l’entusiasmo, la gioia di fare le cose, la condivisione. Il panorama è questo; sono più le cose che sono scese che quelle che sono salite”.
Qualcosa di positivo ci sarà…
“A livello personale e professionale la maturazione mi ha portato a raggiungere degli obiettivi che non mi sarei mai immaginato. A cominciare da quello della famiglia”.
Ha realizzato i sogni che aveva da ragazzo?
“L’ambiente dell’officina mi è sempre piaciuto, fin da quando avevo 15 anni e il papà mi portava con lui”.
Come è nata Sematic?
“Nasce nell’hinterland milanese con mio papà che produceva porte metalliche e che nel milanese c’è rimasto fino ai periodi caldi degli anni ’70. Quando sono cominciati a volare cubetti di porfido nelle contestazioni, papà è stato risoluto: "Devo andare a lavorare in un posto dove sia possibile farlo". Ha trovato un capannone di una cartiera dismessa qui ad Osio, l’ha rilevato e ha spostato a Bergamo la produzione. Qui siamo cresciuti, come azienda, così come ha voluto mio padre, con tranquillità”.
Ritornando ai suoi albori lavorativi in officina…
“Non venivo retribuito, ma imparavo a fare le cose, ad essere meccanico. Mi piaceva creare da una semplice lamiera un pezzo funzionale”.
Quindi lei è un creativo-inventore…
“Caspiterina (ride, ndr). Ho un bello spessore di brevetti e una passione per l’aspetto normativo del settore che ho coltivato con diversi incarichi internazionali negli organi di rappresentanza”.
Parliamo di ascensori, allora. Nel boom edilizio andavano via come il pane…
“In Italia, nei tempi d’oro, si producevano 24 mila impianti l’anno. Oggi è un sogno”.
Sotto il profilo normativo come stiamo messi?
“Non abbiamo problemi burocratici, perché il nostro regolamento prevede e permette l’installazione dell’ascensore, la sua messa in funzione e il collaudo in tempi brevi o direttamente da aziende che hanno un certificato di qualità totale. Mi sono stupito quando, qualche giorno fa, ho letto che in alcune palazzine dell’Aler si lamentava da oltre un mese la mancanza di collaudo degli ascensori. E’ impossibile. Il collaudo può essere fatto subito, nel giro di 24 ore dall’installazione, se poi l’azienda è in regime di qualità totale, il collaudo viene rilasciato immediatamente”.
Forse di così immediato non ci sono i pagamenti…
“Ahimè, purtroppo è così. Nessuno paga più, la difficoltà di cui soffrono un po’ tutti”.
Oltre l’Italia, ci sono Paesi dove il mercato edilizio, è in espansione…
“Il nostro comparto, ricompreso in una metalmeccanica dove si possono trovare componentistiche e prodotti tra i più disparati, è molto legato all’edilizia. In Europa ci sono oltre cinque milioni di impianti installati e noi per il 96% del nostro fatturato abbiamo sempre fatto riferimento all’export. In Italia, stiamo crescendo ora, tenendo presente che, quando si è trattato di attivarsi concretamente con la normativa di ammodernamento degli impianti, l’Italia si è messa di traverso. Il risultato è che più della metà del parco ascensori installati nel nostro Paese ha un età compresa tra i 30 e 40 anni. L’ascensore è una macchina che va in verticale e come tutte le macchine, prima o poi si rompe”.
Quindi non basta fare manutenzione…
“Per usare un eufemismo automobilistico sarebbe come percorre un'autostrada con una Balilla a cui si è fatto manutenzione. La macchina tecnicamente è a posto, ma resta pur sempre una Balilla con i suoi anni. Se mi viene addosso un tir e devo frenare, che cosa succede? La macchina si schianta perché manca di elettronica. Ci sono un sacco di impianti vecchi e stravecchi che fortunatamente tengono ancora, e la casistica degli incidenti si mantiene fortunatamente molto bassa, ma il giorno in cui dovessero cominciare, chi li ferma più?”
A proposito: nell’immaginario ascensoristico, le paure sono due: rimanerci chiusi dentro, la prima, e l’altra l’ascensore che precipita…
“Questo in teoria non può succedere, mentre restare chiusi, beh quello è un inconveniente più frequente”.
In alcuni palazzi si vedono ancora ascensori antipanico a vetri…
“Sono delle opere d’arte, basta pagare e si può far tutto. Come ho detto, stiamo crescendo adesso in Italia perché anche quando si parla di ascensori, si punta alla qualità”.
Il costo medio di un ascensore quale è?
“Siamo arrivati anche alla disperazione, 12-14 mila euro. Il valore di un impianto decente che possa durare intorno ai 20 anni è del doppio. Il problema è che l’ascensore non viene venduto al condomino, ma al costruttore che punta a pagarlo poco. Questo si traduce in “pacchi” commerciali ed imprenditoriali, solenni”.
Qualche anno fa, la cronaca bergamasca registrò un caso drammatico, quello dell’imprenditore morto nel tentativo di uscire da un ascensore bloccato…
“Le norme attuali prevedono che gli impianti abbiano dei sistemi di comunicazione direzionale. Gli impianti prima del 1998 non li hanno, come nel caso specifico di cui stiamo parlando. Sarebbe bastato un sistema di comunicazione, con l’operatore che rassicura e tranquillizza sui tempi di intervento”.
A lei è mai capitato di restare intrappolato?
“No”.
Ma nel caso?
“La cosa peggiore è quella di tentare un autosalvataggio, con l’apertura delle porte di cabina, che a partire dal 2017 non sarà possibile più effettuare. Saltare fuori da un ascensore è pericolosissimo per due motivi: si sposta la massa all’interno della cabina e l’impianto si muove, mentre l’altro guaio è che, con la cabina più alta rispetto al piano, il salto di atterraggio può comportare la caduta nella tromba delle scale”.
La responsabilità di un’azienda come la sua, qualche sonno glielo turba?
“Si è sempre in tensione, c’è sempre qualcosa che non funziona, qualcosa da sistemare”.
Il complimento più bello che le hanno rivolto?
“Qualche giorno fa: trattare con te – mi hanno detto – è un piacere perché sei una persona seria. Pensando al momento che viviamo, mi sono sentito orgoglioso di quello che faccio”.
Qual è la prima cosa che pensa al mattino appena sveglio?
“Speriamo anche oggi di avere abbastanza lavoro per tutti”.
L’ultima, la sera?
“Spesso arrivo a casa stanco, ma soddisfatto. Se guardo indietro guardo quello che ho fatto e sono contento, se guardo avanti intravedo degli obiettivi da raggiungere che ugualmente mi danno la carica per andare avanti. Se riesco a trasmettere ai miei dipendenti questo entusiasmo, allora possiamo guardare al futuro con fiducia”.
Lei che rapporto ha con i suoi dipendenti?
“Ho avuto un problema quando rilevammo un’unità produttiva negli Stati Uniti. Prendemmo una commessa molto importante e ne parlai a loro. Per tutta risposta, considerando che il lavoro era assicurato per due, tre anni a venire, questi rallentarono la produzione. Mi arrabbiai moltissimo e dovetti licenziare alcuni di quegli operai. Dire a qualcuno: non sei più necessario, è stata la mia sofferenza più grande. Una cultura americana, molto diversa dalla nostra. Anche dal punto di vista sindacale. Il concetto di attaccamento al lavoro è una cosa che fa parte del Dna italiano”.
Lei è da pochi mesi presidente del Guppo metalmeccanici di Confindustria…
“È faticoso ma il gruppo che si sta creando è pieno di entusiasmo e di voglia di fare. In Italia paghiamo anni di apatia e anche l’ambiente confindustriale è parecchio salottiero. Il vento sta cambiando, bisogna cominciare a metterci del proprio. Basta con i circolini. Chi se ne va, però, non ha compreso il senso dell’associazionismo, oggi più che mai occorre partecipare, mettere in circolo idee ed impegno. Non ha senso restare ognuno a casa propria. Occorre fare “massa”, non guardando alle dinamiche interne, ma in prospettiva, nei confronti di altre realtà. Una massa che serve all’Italia. In questo senso, i tedeschi ci hanno insegnato la via. Al contrario degli italiani che, quando arrivano a Bruxelles, sono bravissimi”.
A fare cosa?
“A dire ciascuno una cosa diversa, chi dice a, b o c. Così l’opinione dell’Italia nessuno sa mai quale sia”.