Ubi, perché non ha più senso guardare al passato

ubi-banca1.jpgSe la vogliamo buttare sul piano calcistico, se si vuole capire quanto conta la storia e la tradizione in un’impresa, si può guardare a quanto è successo alla Roma A.S. – per inciso una società quotata in Borsa – dove “il capitano” per eccellenza, Francesco Totti, 27 anni in giallorosso, è stato accantonato di punto in bianco. La bandiera e la dedizione sono infatti belle cose, ma l’importante è che la squadra vinca. Per avvicinarsi a Bergamo, qualcosa di simile è avvenuto con un altro capitano, Cristiano Doni, che non aveva certo l’attaccamento alla maglia di Totti: c’è voluto un po’ di tempo perché i tifosi più accaniti riuscissero a metabolizzare una situazione ben più grave di un giocatore giudicato sul viale del tramonto, ma alla fine il capitano è stato scaricato, e poi, tanto per esagerare e con poco rispetto di quella storia che dovrebbe essere riconosciuta nel bene e nel male, condannato  a una sorta di “damnatio memoriae”, perché l’importante era che andasse avanti l’Atalanta.

Se questi discorsi sulla storia passata valgono in una squadra di calcio, a maggiore ragione valgono in una banca, soprattutto se società per azioni. Già spesso si tende a confondere gli istituti di credito con gli istituti di beneficenza e i veri proprietari (gli azionisti) con altri portatori di interessi più o meno concreti. In Ubi sembra che sia anche dimenticato che le regole sono cambiate, che il capitolo cooperativa si è chiuso e non si può gestire un’azienda continuando a guardare all’indietro, recriminando su cosa è stato e cosa sarebbe potuto essere. Invece la componente “orobica” di Ubi, per indicare, semplificando, i  soci di provenienza Bpu, alla retorica della “banca bergamasca” non vuole rinunciare, anche se i numeri in questo momento dicono che non c’è più. Forse non è chiaro il funzionamento di una società per azioni a chi continua a sostenere che il gruppo è patrimonio dei bergamaschi (quali?) perché la Banca Popolare di Bergamo è la banca più produttiva ed efficiente del gruppo. Un sillogismo non distante dall’esigere che nel Consiglio dell’ Abb o della Schneider Electric devono esserci rappresentanti bergamaschi perché la loro filiale in provincia va molto bene: potranno anche entrare nel board, ma solo se i proprietari saranno d’accordo. Lo stesso vale alla Popolare di Bergamo, un gioiellino che va molto bene, ma che  è controllata al 100% da Ubi Banca, dove i bergamaschi sono riusciti finora ad esprimere solo un patto di sindacato presentatosi (in attesa di aggiornamenti) con una quota del 2,27% del capitale. E dato che in un’assemblea di una Spa vince chi ha un’azione più degli altri (come quando Ubi era una cooperativa vinceva chi presenta un socio più degli altri), se si dovesse tenere in questo momento, con le attuali posizioni conosciute,  il controllo non è dei bergamaschi ma della cordata di anima bresciana (ex Banca Lombarda) che rappresenta l’11,95% del capitale e quindi decide sia in Ubi, sia indirettamente nella Popolare di Bergamo.

Con il Patto dei Mille, come al momento sua unica proposta, di fatto Bergamo ha reso palesemente visibile la sua posizione di inferiorità. Se corre da sola sarà con ogni probabilità messa fuori gioco anche dalla lista che dovrebbero presentare i fondi, mentre se troverà un’alleanza con il patto bresciano, probabilmente estesa anche alla Fondazione Caricuneo (ex azionista Lombarda che ora corre da solo), che ha pure una quota superiore al 2%, riuscirà ad esprimere qualche consigliere, con ogni probabilità anche uno dei due presidenti, ma di fatto sarà presente in Ubi più da ospite, che da padrone, grazie alla buona disposizione, in virtù di relazioni consolidate, degli alleati bresciani che, se volessero, potrebbero avere tutto. Questa situazione, in ogni caso, non si è creata tanto per colpa della Spa, quanto perché Bergamo non è riuscita ad esprimere una formula che permetta di unire la forza dispersa dei tanti ex soci della Popolare, azionariato diffuso e frammentato, e per aver pensato che si potesse continuare a contare senza tirare fuori i soldi e acquistare azioni.

Ma il fatto che venga superata una divisione geografica ormai antistorica, dopo ormai quasi nove anni dalla fusione e della nascita del terzo-quarto gruppo bancario – e si intende non provinciale, ma nazionale -, leader non solo a Bergamo ma anche su altre piazze,- dovrebbe essere nel gioco delle cose. Si può pensare che alla maggior parte dei clienti e degli azionisti, sempre di più non bergamaschi, importi ben poco dove siano nati i consiglieri e siano legittimamente più interessati ad avere una banca sana ed efficiente e  soprattutto, in questi tempi da panico di bail-in, di non avere brutte sorprese. Che spesso arrivano proprio dai conterranei, come hanno scoperto a loro spese gli obbligazionisti di Banca Etruria e Banca Marche, quando la conoscenza, l’amicizia e i favori reciproci portano a perdita di professionalità. Pensare che una gestione sia migliore solo perché i Consigli siano composti da bergamaschi o da bresciani (con l’avvertenza che in ogni caso il consigliere delegato Victor Massiah è nato in Libia) è ingenuo, mentre se la questione riguarda solo interessi di potere o di poltrone sarebbe meglio chiudere subito, con un po’ di preoccupazione,  il discorso. Per aiutare a valutare con orizzonti più grandi si potrebbe piuttosto pensare di chiudere definitivamente con il passato, realizzando anche sinergie e risparmi, e procedere alla realizzazione di una banca unica: forse ragionando solo come Ubi, Unione di Banche Italiane, l’aspetto del campanile provinciale inizierebbe veramente a contare meno e si guarderebbe a questioni più importanti.

 

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