Referendum, quei paladini del No tra maleducazione e presunzione
La personalizzazione, come il fumo per la salute, nuoce al referendum. Finora se ne è parlato per l’improvvida scelta, poi malamente rimangiata, del presidente del Consiglio di avviare la campagna elettorale sulla consultazione popolare all’insegna del “se perdo, me ne vado a casa”. E’ stato facile osservare che in questo modo Matteo Renzi ha offerto ai suoi avversari, di ogni genere e specie, una straordinaria occasione per tralasciare completamente il merito della riforma costituzionale e per dedicarsi anima e corpo ad orchestrare l’offensiva per mandare a casa premier e governo. Ed infatti, il variegato e talvolta variopinto fronte del No ha un unico collante nell’obiettivo finale: la cacciata del Ganassa di Rignano sull’Arno.
Ma anche da quest’altra parte non è che si scherzi con la personalizzazione. Ci sono personaggi che si sentono investiti del ruolo di alter ego del presidente del Consiglio e che si spendono ogni oltre limite per contrapporvisi. Generando, anche in chi magari in linea di principio condivide le loro posizioni, autentiche crisi di rigetto quando non di insopportabile fastidio. È il caso, tanto per fare il primo nome, di Marco Travaglio. Capacità e intelligenza non gli fanno certo difetto, anzi. Ha un archivio straordinario e sa sempre trovare solidi argomenti per le sue polemiche. Nulla da dire, quindi, sulla preparazione. Ma sui modi e i toni, eccome, se c’è da eccepire. Perché, per esempio, stravolgere ad arte i nomi degli interlocutori, perché fare la parodia delle posizioni altrui, perché trattare tutti come dei deficienti o dei mascalzoni o degli inetti?
Travaglio ama spesso definirsi un “figlio” (professionale) di Montanelli. Vero, nel senso che con il grande Cilindro ha iniziato la sua brillante carriera. Ma il suo Maestro aveva ben altro stile, ben altra classe diciamolo pure. Rispettava gli avversari anche quando ne pensava il peggio possibile. E li affrontava guardandoli negli occhi, non volgendo lo sguardo dall’altra parte come ha fatto il direttore del Fatto nel confronto tv con Renzi (come nel faccia a faccia con Berlusconi del 2013, dove ne uscì ridicolizzato chi voleva fare il fenomeno). Anche qualche sera fa, sempre in un confronto televisivo, il medesimo Travaglio, davvero lontanissimo dalla penna arguta che vergava corsivi sul Giornale montanelliano, si è esibito in un forsennato attacco, un po’ prepotente e maleducato, nei confronti di Graziano Delrio, persona mite e pacata, da molti ritenuto il miglior ministro dell’esecutivo renziano.
Forse converrà interrogarsi se la strategia ad alzo zero non rischi di cadere nello stesso vizio che si contesta al premier. Perché, e qui veniamo ad un altro personaggio che ha sostenuto le ragioni del No in un pubblico duello, la convinzione nelle proprie idee non legittima un senso di superiorità rispetto agli altri, e tantomeno giustifica la strafottenza. Il professor Gustavo Zagrebelsky, al di là dall’aver commesso un evidente peccato di presunzione ad accettare la sfida di Renzi, in tv ha dato mostra di non saper scendere dal piedestallo del cattedratico che si sente investito del dono dell’infallibilità. Est modus in rebus, verrebbe da dire. Il Ganassa si è divertito come un ragazzino (il che non lo assolve, intendiamoci, perché un presidente del Consiglio dovrebbe avere maggior garbo) ad infilzare il professore che non riusciva ad uscire dalla sua leziosità verbale. E alla fine, anche qualche sostenitore del No, di fronte a cotanto spettacolo, si è dovuto chiedere se per caso non si fosse sbagliato.
Poiché abbiamo davanti quasi due mesi di campagna elettorale, vogliamo augurarci che d’ora in avanti da una parte e dall’altra si riesca ad uscire dalla propaganda, dai personalismi, dalla lotta politica di bassa lega, per entrare davvero nel merito della riforma su cui saremo chiamati a votare. La posta in gioco è ben più importante del destino politico di Renzi o del successo professionale di Travaglio. Loro giocano un’altra partita. Evitiamo di farci irretire nel loro gioco.