La percezione del male, in altre epoche, meno frenetiche ed imprecise, assumeva contorni universali: perfino un contadino analfabeta era in grado di percepire la vastità della minaccia di una vittoria del male sul bene. Chiamava diavolo il male e Dio il bene, ma la sostanza era che qualunque male era male e qualunque bene era bene. Oggi, noi, figli e nipoti del relativismo trasformato in rèclame, divoratori di immediatezza culturale, rispetto a quel povero contadino siamo dei trogloditi: anzi, siamo, letteralmente, la società dei porci di cui parlava Platone nella Politéia, opulenti e ciechi. Non siamo in grado di percepire l’interezza delle cose: ne cogliamo solo la minima incidenza che esse hanno sulla nostra vita, senza avanzare di un passo. Per questo, la nostra visione, chiamiamola così, etica dell’esistenza è, in realtà, solo un monumentale egoismo, una cecità pressoché assoluta. Non siamo neppure in grado di comprendere le possibili conseguenze di eventi che non ci riguardino in prima persona, ma che preludano a future e, magari, ben più drammatiche, implicazioni.
Vediamo di spiegarci. Se uccidere un uomo è male, allora tutti gli uomini uccisi sono vittime di questo male. Se uccidere un animale è male, allora tutti gli animali uccisi sono vittime di questo male. Questo, perlomeno, sul versante etico. Perché l’etica non è la politica: non conosce la subdola via del compromesso. Né è capace di stilare graduatorie: non ha liste d’attesa ed ingressi vip. Perciò, se uccidono degli innocenti a Bruxelles o a Lahore, tanto per rimanere nell’ambito della cronaca, l’etica pretenderebbe eguale cordoglio ed eguale indignazione: l’empatia, la vicinanza culturale, l’impressione momentanea non riguardano l’etica, ma l’estetica. Ci sono morti più pittoreschi e morti più impegnativi, morti più celebrabili con gessetti e candeline, e morti dai contorni sfumati, indistinti: estetica, appunto. Morti più bellini di altri, in definitiva. Così è quasi sempre: le nostre menti atrofizzate non riescono più a concepire il male, ma solo un male, preciso, puntuale, definito e momentaneo. Possiamo commuoverci solo a determinate condizioni: e sono condizioni miserande.
Facciamo un altro esempio, anche questo di stretta attualità: suoi social network, a Pasqua, si sprecano gli accorati appelli a non mangiare gli agnellini di latte. L’agnellino è candido, rappresenta un simbolo di innocenza che il cristianesimo ha reso universale, cerca la tetta della mamma: lo prendono, lo scuoiano e lo imbandiscono in tavola, debitamente insaporito e cotto. E’ una barbarie. Ma è una barbarie che ci arriva in casa: che ci raggiunge come un pugno nello stomaco. E noi, società porciforme, versiamo la nostra catartica lacrimuccia: non importano i cuccioli di scrofa o di vacca che, ogni giorno dell’anno, subiscono lo stesso destino. Quelli non sono candidi, non sono simboli, e le tette delle loro mamme non sono cercate col medesimo tenerissimo desiderio. E neppure pensiamo ai cuccioli di donna che muoiono a migliaia, ogni giorno, per la sete, la fame, le malattie: mica possiamo pensare a tutto, d’altronde. Gli agnellini sono chic e poco impegnativi. D’altronde, in qualche modo, anche il caviale beluga è fatto coi piccoli dello storione: chi si commuoverebbe per una strage di uova di storione? E poi il caviale è così appropriato, sotto le feste: non si sbaglia mai a servirlo!
Ecco, la società del porcile funziona proprio così: si commuove, ma quel tanto che basta. Partecipa, manifesta, veglia incandelata, ma poi: avanti, alò, chi more more…Perché la nostra non è etica, ma solo un’immemore, disattenta, autoassolutoria correttezza formale. E’ come quel segno di croce fatto alla svelta, quel cenno soltanto di genuflessione, quando si entra o si esce da una chiesa: giusto per dire che siamo ancora in grado di distinguere tra una chiesa ed una salumeria. Ma la devozione con cui guatiamo ingordamente i prosciutti, spesso, indica un’estasi mistica ben superiore. Dunque, la nostra miserabile ipocrisia andrebbe dichiarata: anzi, cancellata. Diciamolo bello chiaro, senza cercare di sgravarci la coscienza con ragionamenti artefatti: a noi degli altri non importa proprio nulla. Piangiamo le vittime di Bruxelles o di Parigi, perché non li percepiamo come altri: perché sappiamo che avrebbe potuto toccare a noi, per i medesimi motivi, per la scelta più o meno casuale di qualche assassino. Perché è verissimo che “Je suis Bruxelles”, ma non nel senso mieloso e retorico che anima questi tormentoni: perché è proprio così che ci sentiamo. E non siamo Lahore, non siamo Lagos, non siamo la Siria: ma questo non lo scriviamo su internet o su qualche maglietta griffata. Preferiamo glissare e lasciarlo tra le righe: non sarebbe elegante dire che dei bambini cristiani del Pakistan ci importa meno che degli agnellini pasquali.