Ogni tanto, mi capita di riflettere sul mondo, sul mio mondo: mi guardo in giro ed esploro, più con gli occhi della nostalgia, se devo essere sincero, che con quelli dell’entomologo, la mia strada, il mio quartiere, la mia città. Probabilmente, uno, invecchiando, tende a rimpiangere le cose dei suoi anni giovanili, semplicemente perché non vuole accettare l’idea della decrepitezza e della morte. Oppure, più semplicemente, tutto ciò che è legato alla giovinezza, quando si è vecchi, appare bello: in un certo senso, vi è una sorta di eclissi della memoria eidetica, per cui i brufoli, le vergogne e i fiaschi vengono cancellati e restano solo le glorie, vere o presunte. Sarà anche così, però, quando percorro le mie strade di sempre, incontro i miei conoscenti di sempre, saluto, sorrido, proseguo, non posso fare a meno di notare, un crescente deficit di felicità: leggo nelle cose e nelle persone una preoccupante carenza di gioia e di serenità. A forza di ripetere che viviamo tempi cupi, questa cupezza pare esserci calata sul cuore: sembriamo quegli uomini dell’alto Medioevo, che si raccoglievano in minuscoli villaggi, circondati dalla foresta e minacciati dai lupi, dai Goti e dalle pestilenze.
Eppure, abbiamo un disperato bisogno di tranquillità e di momenti felici: ognuno di noi persegue una sua piccola felicità individuale e ne ha un assoluto diritto. Cose da poco: semplici, minime, legittime soddisfazioni quotidiane, che ci permettono di guardare al domani con meno patemi e con meno annoiata stanchezza. La ragione di queste mie considerazioni è determinata dall’osservazione del crescente successo che riscuotono i festeggiamenti di mezza Quaresima e, in particolare, la sfilata dei carri allegorici e il “rasgamento della Egia”. E’ una festa semplice, addirittura elementare, da un punto di vista simbolico: un modo tradizionale e un tantino goliardicamente pagano di buttarsi alle spalle l’inverno e di mettere alla berlina o esorcizzare i problemi, grandi e piccoli, della nostra comunità. E la gente partecipa in massa: non so dire se per autentica adesione o, semplicemente, per passare qualche ora diversa dal solito. Fatto sta che, ogni anno, le strade sono più piene: la festa è più sentita, più pubblicizzata e, mercè gli strumenti della tecnologia, documentata. E, dunque, io ne concludo che si senta il bisogno di essere un pochino più felici: magari con sistemi rudimentali, mangiando una frittella o guardando semplici allegorie e leggerissime satire di cartapesta. Perché la gente mi pare stufa di star male: stufa di aver paura, di essere costretta alla tetraggine da una serietà obbligatoria, da un malinteso senso di responsabilità, dall’idea malsana e controproducente che solo ciò che è utile, corretto, consapevole, possa essere piacevole, appagante, realizzante.
L’homo seriosus, di prodiana memoria è diventato un modello troppo ingombrante e greve: e, lasciatemelo dire, ha anche un tantino rotto le balle. Dopo le orge di raziocinio e di rigore, gli esseri umani cercano sempre un’evasione nei verdi pascoli dell’irrazionale, del faceto o dell’eroico. E c’è perfino un faceto eroismo in certe epopee bergamasche d’antan: da Francesco Nullo a Nino Calvi, i nostri eroi facevano spesso un discreto casino. Si divertivano, insomma: non erano busti di marmo che andavano a spasso. Certo, oggi chiunque si senta investito di una briciola d’autorità o di un minimo di potere, va in giro impettito con un’espressione da “su di dosso” da fare disamorare Cupido: ma credo dipenda proprio da quell’equivochetto di cui sopra. Dal confondere la serietà con la tristezza. Vorrei che ritrovassimo il buon vecchio spirito di una volta: sebbene assediati, minacciati, avvelenati. Moriremmo lo stesso, giacché morire bisogna, ma almeno moriremmo dopo aver vissuto, e un pochino contenti, un filo più sorridenti di quanto non siamo, adesso, ancora vivi. La morte ci ha da trovà vivi, si dice a Livorno. Insomma, il mio vuole essere solo un invito a tornare un pochino a divertirsi, godendo anche di qualche scemata, se è una scemata divertente. E vuole anche essere una lode al mio caro, vecchio Ducato di Piazza Pontida, che, almeno per un paio di giorni all’anno, riempie le piazze di Bergamaschi che fanno i Bergamaschi. E che, senza troppe cerimonie e senza metterla giù tanto dura, fa quello che gli intellettuali con alloro e tocco vorrebbero fare, ma non ne sono quasi mai capaci: castigat ridendo mores. Corregge i costumi con un sorriso.