Una volta, quando si voleva sottolineare che, in una battaglia, si era grattato il fondo del barile, si diceva che erano accorsi a combattere perfino scritturali e cucinieri: il che faceva pensare che, in una situazione di normalità, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di additare un cuoco od uno scribacchino come esempio di sfolgorante eroismo. I tempi, però, cambiano e, oggi, si direbbe che la figura del cuoco sia alonata della stessa aura eroica che, un tempo, avvolgeva cavalieri e fanti. In realtà, ogni volta che mi capita di accendere la televisione, trovo qualche cuoco, che pontifica, che ammonisce, che strilla o che pubblicizza qualcosa: i palinsesti sono affollati di trasmissioni in cui si organizzano cene, si misurano cucinatori dilettanti, si allestiscono ristoranti o si selezionano i campioni del futuro. E, in tutto questo fervere di fornelli e di frullini, in questo lussureggiare di abbattitori e di soffritti, campeggiano, statuarie, le figure degli chef: solenni come monumenti, ieratiche come neurochirurghi ed autorevoli come feldmarescialli, impartiscono ordini circa la densità della chantilly o giudicano con occhio di sparviero il diametro delle patate julienne. E nugoli di assistenti e succedanei, trafelati e zelanti, eseguono all’istante, imitando lo scatto e la militare disciplina dei film sui marines: sì, chef, subito chef! Come se urlassero: signore, il fucile del soldato Palla di Lardo si chiama Charline, signore!
Ora, al di là del fatto che, a un vecchio alpino come me, abituato a modi assai meno americani, questa pantomima militare fa un po’ venire da ridere, mi pare che si stia un tantino esagerando con questa epopea cuochesca. Intendiamoci, quello del cuoco è un mestiere bello e difficile: in tanti anni in cui ho insegnato all’istituto alberghiero, ho visto centinaia di nostri giovani intraprendere la difficile carriera dello chef. Tanti non hanno resistito ai ritmi terribili e ai sacrifici imposti da questa professione, altri hanno raggiunto ottimi risultati, e qualcuno è anche arrivato in cima alla piramide. Molti hanno dovuto emigrare: molti hanno dovuto accettare compromessi. Di tutti, o quasi, ho il ricordo di bravi ragazzi, volonterosi ed umili: niente a che vedere con questi pomposi signori dei fornelli televisivi. Com’è possibile, perciò mi chiedo, che la gente riesca a mitizzare e a trasformare in un divo, con tutti i tic e le pretensioni tipici dei divi, uno che prepara insalate e cuoce salse? Un cuoco è un cuoco: non è un campione sportivo, un concertista, un pittore. E’ un cuoco, per la miseria: nulla di più e nulla di meno. Cosa c’è di elettrizzante in un soufflé? Che impresa degna di menzione è cucinare un buon pollo alla diavola? Vabbè, metto questa coserella nell’armadio delle millanta coserelle che non capisco dei tempi in cui vivo e vado avanti.
La faccenda televisiva, come spesso accade, è cominciata un po’ in sordina, come fenomeno marginale: una volta, invitavano Gualtiero Marchesi a raccontare un aneddoto, un’altra volta si parlava delle sparate di Vissani sulla politica o sulla caccia, e tutto finiva lì, come una curiosità da rubrica per signore. Poi, è arrivata Benedetta Parodi, che ha imperversato sullo schermo e nelle librerie, cinguettando le sue ricette salvacena o i suoi trucchetti da massaia furba. Il suo successo me lo spiego benissimo: carina, spigliata, abbastanza autoironica da non prendersi troppo sul serio, la Parodi ha simulato i problemi culinari di una casalinga qualunque, un po’ come Lando Buzzanca e Delia Scala facevano con una coppia di neosposi. Una formula che funziona sempre: il verosimile manzoniano, se rendo l’idea. Ad un certo punto, però, hanno cominciato ad apparire programmi in cui veri chef facevano i giudici di poveracci che aspiravano a diventare chef a loro volta o a gestire al meglio un ristorante: e da lì, come una cataratta, siamo stati inondati di cuochi di ogni genere e grado. Le parolacce di Ramsey sono diventate un simpatico tormentone, Cannavacciuolo si è messo a fare il maestro severo ma dal cuor d’oro e così via, di cucina in cucina, di brasato in brasato, fino alla saturazione odierna. E, poi, c’è Cracco: quello che la mena sugli ingredienti di alta fascia e fa la rèclame alle patatine.
Non so se gliel’hanno messa addosso questa toga praetexta da senatore delle scodelle, o se le palanche e la notorietà l’hanno un tantino, diciamo, infanatichito, però, quando ho visto una pubblicità in cui diceva che, quando tornava a casa, “..era semplicemente Carlo”, non ho potuto non domandarmi: perchè, quando prepari una zuppa chi pensi di essere, Leonardo da Vinci o Alessandro Magno? Ecco, al di là di questa bulimia televisiva, che mi farebbe odiare anche Mozart, se me lo rifilassero a reti unificate dodici ore al giorno, quello che proprio non mi va di queste mode del momento è l’albagia dei personaggi, la supponenza delle persone che, invece di ringraziare con umiltà il Padreterno della propria buona sorte, si atteggiano a fenomeni, in campi, tutto sommato, secondari della civiltà, come gli addominali scolpiti o le terrine di foie gras. Io credo davvero che la cucina sia un bellissimo artigianato, che fa onore al nostro Paese: ma non le cucine sotto i riflettori, in cui dei cuochi vanesi come dive del muto esibiscono il proprio ego. Io amo le cucine dove tanti bravi cuochi lavorano seriamente, senza fronzoli, a ritmi massacranti, per offrire ai clienti il frutto generoso del loro lavoro: senza bisogno di programmi tv che li incoronino campione del mese e senza le ciarle di qualche filosofo del tournedos. Altrimenti, domani, a coadiuvare i cuochi e gli scritturali nelle battaglie più disperate, dovremo chiamare i parà e i bersaglieri.