La lettera / Io, precario, mi chiedo se esiste ancora il diritto al lavoro

La lettera / Io, precario, mi chiedo se esiste ancora il diritto al lavoro

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disoccupato“Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione”; “Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro”; ”Ogni lavoratore ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla dignità umana”.

Era il 1978 e in procinto di cominciare il mio primo giorno di lavoro, mio padre mi lesse questi tre passi contenuti nella Dichiarazione dei Diritti Umani, approvata nel lontano 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite, pregandomi di tenerli sempre a mente.

Sono passati trent’anni e ieri ho fatto la stessa cosa con mio figlio: gli ho letto gli stessi passi, chiedendogli di non dimenticare mai le parole appena ascoltate; alla fine mi ha detto “non preoccuparti”.

Sarà che sono invecchiato, ma è tutta sera che penso a quel “non preoccuparti”, che non ha il sapore del “non preoccuparti, me le ricorderò”, ma piuttosto del “non preoccuparti, adesso ci sono io a prendermi cura di te”.

Io ho 55 anni e sono da tempo un dipendente precario: l’ultima impresa per la quale ho lavorato, mi ha pagato l’ultimo stipendio “intero” due anni fa, poi ha cominciato a centellinarlo, un mese si, due mesi no, poi una piccola parte, una sorta di contentino quando facevo il mio malumore. E io intanto non ho mai smesso di presentarmi in ufficio con puntualità e non c’è stato giorno in cui abbia lavorato con meno impegno o con minore responsabilità, fidandomi delle parole del titolare “mi devono entrare dei soldi, poi vi pago” o “è questione di qualche giorno, massimo di un mese e saldo i miei debiti con voi”.

Poi un giorno è cominciata la trafila della cassa integrazione: prima ordinaria, poi straordinaria, un periodo tremendo pieno di confusione, di false speranze e di tante arrabbiature. Ho chiesto aiuto ai sindacati, per essere aiutato a difendere i miei interessi e per capire come muovermi senza fare passi falsi; ho pagato la “tessera” e almeno all’inizio sono stato preso in considerazione e la mia realtà fatta di diritti violati sembrava interessare a qualcuno; anzi mi sono state fatte anche delle promesse, che mi hanno galvanizzato, ma poi tutto è lentamente scemato e chi mi diceva “non preoccuparti, che risolviamo”, ha cominciato a dire “c’è poco da fare” perché nel frattempo la mia azienda ha dichiarato fallimento.

Oggi il tutto è in mano ad un legale e ancora una volta rimango in attesa: dietro a questo fallimento ci sono un mare di debiti non pagati e molti lavoratori (dipendenti, fornitori…) che insieme alle proprie famiglie sperano di riavere quello che spetta loro. Io cerco di essere positivo, ma francamente non so se riuscirò più a ricevere i ventimila euro di stipendi arretrati e il TFR di una vita di lavoro, di sacrifici e di impegno costante. Intanto il mio ex titolare ha aperto un’altra azienda, questa volta intestata a sua suocera e ha ripreso a lavorare come se niente fosse. Io continuo a credere che ogni individuo abbia diritto al lavoro, a delle condizioni soddisfacenti per potersi esprimersi nel migliore dei modi e ad una vita dignitosa, caratterizzata dal rispetto. Ma al tempo stesso ho il sospetto che siano concetti destinati a diventare pura teoria, perché concretamente non viene fatto nulla per migliorare lo stato delle cose e per fermare chi conduce una vita a scapito degli altri, cavalcando la filosofia del “mors tua vita mea”. Non sono pentito di aver letto a mio figlio qualche passo della Dichiarazione dei Diritti Umani, perché è con certi valori che desidero affronti la vita e perché esistono dei diritti a cui ogni essere umano deve potersi appellare per la sola ragione di essere al mondo. Alcune volte mi viene da pensare che documenti come la Dichiarazione dei Diritti Umani siano solo una pantomima, una sorta di grande rappresentazione scenica per rallegrare i cuori scontenti e portare conforto alle persone tristi, ma spero di sbagliarmi. Però a mio figlio non lo dico, mi spiacerebbe vivesse con questo sospetto.

Roberto, Bergamo

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