Quando hai un congruo numero di primavere sulle spalle, fossero pure spallacce da alpino come le mie, il ballo sull’aia perde, di necessità, un poco del suo fascino primordiale: non dico che si diventi saggi, ma, perlomeno, non ci si abbandona a sogni di idilli agresti e di gonne a balze fruscianti nel fremere della giga e della passacaglia. Ricordo la sincera emozione con cui seguivo le vicende elettorali, quando la nebbia dorata dei diciott’anni o poco più mi rendeva cieco alla noia e alla disillusione: la ricordo come ricordo i batticuore liceali, i foruncoli o il motorino che arrancava in salita. Sostanzialmente, ero un idiota. Amavo a vanvera e, col senno di poi, a vanvera votavo. Non che oggi non sia un idiota, intendiamoci: però, perlomeno, so distinguere tra l’amore e un Frecciarossa che si avventa verso le mie terga, tra una competizione elettorale seria ed una ridicola ordalia. Lo dico perché, come molti di voi – anzi, più di molti di voi – ci ho disperatamente creduto in questa specie di stanco cerimoniale che chiamano democrazia: confondevo, lo ammetto, il concetto squisitamente politologico di democrazia con quelli, straordinariamente più umani, ma meno applicabili al reale, di giustizia, civiltà, senso della comunità.
Invece, ho capito, coll’implacabile incedere degli anni, che la democrazia è un’altra cosa: è una disgustosa alchimia, un tecnicismo, un astratto comporre tessere di un domino che non ha come scopo la vittoria del bene, ma solo la vittoria del proprio bene, fosse pure estendibile a milioni di persone. Io, oggi, ve lo confesso, odio i politici navigati: quelli che ti prendono per il gomito e, in disparte, ti parlano della politica come se fosse un argomento ieratico, da iniziati. Ti fanno capire, con questo gesto viscidamente inclusivo, che anche tu fai parte dell’eletta schiera degli illuminati, ma che gli altri, quelli che votano, sono come plastilina, sono gregge di ovini, miti ma inevitabilmente portati a seguire un cane da pastore. E, dietro a questa miseranda attività carbonara ci sono i partiti: l’istituzione centrale della democrazia e, al contempo, la più inutile delle creature della modernità. A cosa servono i partiti: ve lo siete mai chiesto? Invadono le pagine dei giornali e gli schermi televisivi, portano alla ribalta emeriti cialtroni presentandoli come inarrivabili guru, debordano giganticamente, costano cifre enormi, si intrufolano in ogni licita, in qualunque, concorso, in tutti gli appalti: a quale scopo? Cui prosunt? A se stessi, cari i miei due lettori: semplicemente a se stessi.
Ormai, i partiti esistono unicamente per mantenere la propria determinante quanto superflua presenza nella vita del Paese: sono loro la democrazia e non rappresentano il popolo sovrano, ma le corporazioni, le categorie, la curva. Quindi, perchè mai andare a votare? A che serve porsi tante domande, cercare tante risposte, se, alla fine, sulla bilancia della politica, il tuo voto vale quanto quello dei decerebrati che passano le ore in fila per comprare un cellulare, che scrivono la preferenza che gli hanno detto di scrivere, che, magari, sperano nel successo di questo o di quello per mangiarci su, per riempircisi le tasche? Ve la faccio breve: non serve a niente. Perché la democrazia ha fallito: non è affatto la miglior forma di governo possibile, è semplicemente l’unica rimasta. E, finchè non se ne troverà una nuova, che soppianti le teorie politiche nate nel XVIII secolo, ce la dobbiamo tenere. Ma non con il mio voto: non con la mia correità, please.
Questo è il mio commento ai risultati delle amministrative: chissenefrega se ha vinto Sala contro Parisi, se Roma ha votato in massa per la Raggi, se Fassino ci ha tolto il disturbo ed è rientrato nel suo loculo. Cambierà poco o nulla, perché la democrazia non è più in grado di cambiare le cose: perfino i tempi della politica si sono dilatati al punto che, tra una campagna elettorale e l’altra, l’elefantiasi delle strutture impedisce a chiunque di riuscire a completare anche solo un frammento degli ambiziosissimi programmi della vigilia. E, allora, io, trilussianamente, vi confesso che me ne strabatto: Franza o Spagna purchè se magna! Anzi, spero, nel fondo del mio vecchio cuore di rivoltoso e teppista, che, ad un certo punto, da una parte si magnerà troppo e, dall’altra, si magnerà troppo poco, perché, solo così, forse, la gente capirà che è tutta una gran presa in giro: che nessuno cambierà mai, dal di dentro, un sistema che gli ha concesso lusso e potere, autorità e fama, a prescindere da qualsivoglia merito individuale. La rivoluzione, insomma, la faranno gli affamati, gli sfruttati, i vilipesi. La gente perbene, che ha sempre subito gli insulti di una finta democrazia rappresentativa, costruita a suo esclusivo danno. E, intorno all’albero della libertà, questa volta, non ci saranno i giacobini a zampettare come baccanti: loro penderanno dai rami, insieme agli abiti lisi e stropicciati di monsieur Voltaire.