C’era una volta il popolo. Non la plebe, intendiamoci, il popolo: quello che, ad un certo punto della storia dell’umanità, ha smesso di essere il popolo incazzato per diventare il popolo sovrano. Il popolo, credetemi, è un sovrano assoluto: verga le proprie carte col motto del gran Luigi car tel est nôtre plaisir, governa arbitrariamente, secondo istinti e pulsioni difficili da decifrare. Dopo essere stato rabbonito o imbonito, dopo averlo vezzeggiato, minacciato, spaventato, finalmente, decide: non decidono gli architetti o i ciabattini, i medici o le infermiere, ma tutto il popolo, tutti quanti. Questo sistema viene definito ‘democrazia’, per analogia con la parola greca δημοκρατία, che, però, non voleva affatto dire governo del popolo, sibbene del δῆμος, che, ad Atene, significava, a un dipresso, “quartiere”: insomma, un sistema elettorale a base distrettuale. Tanto è vero che, nella culla della democrazia, votava una percentuale risibile della popolazione: immigrati, mezzi stranieri, donne, schiavi e così via se la potevano solo sognare, la nostra democrazia.
Ciò detto, ad un certo punto del difficile ed accidentato percorso verso l’emancipazione dei popoli, una serie di intellettuali, ovviamente tutti borghesi e privilegiati, si è inventata un nuovo modo di intendere l’esercizio del potere: la democrazia moderna, appunto. Di fatto, questa democrazia consisteva nel fare il bene del popolo: dato, però, che il popolo, anche allora, era un tantino ondivago e non proprio erudito in materia di diritto pubblico, si riteneva che lasciargli fare sarebbe stato alquanto catastrofico. Così, questi signori incipriati optarono per quella che definirei la bisnonna della visione democratica d’oggidì: la democrazia per interposta persona. Un sovrano, un principe, un politico, sinceramente innamorati del popolo, ma coscienti del fatto che il popolo è come un bambino un po’ duretto, decidevano, come bravi tutori, per il suo meglio: interpretavano, per così dire, quelle esigenze che il popolo ha, ma non sa di avere, perché è un tantino sempliciotto. Nacque, così, il dispotismo illuminato, sotto l’impresa voltairiana: tout pour le peuple; rien par le peuple. Mica scemo, Voltaire: la botte piena e la moglie ubriaca. D’altronde, è ancora quello cui si attribuisce quella scemenza sul difendere fino alla morte l’idea di chi non la pensa come te: un furbo del genere non avrebbe mai detto una simile idiozia e, infatti, non la disse mai. Sono pillole di educazione alla cittadinanza che vi regalo volentieri.
Ma torniamo alla nostra democrazia. Più o meno alla fine del XIX secolo, questa idea di libertà e di parità si arricchì di un nuovo suggestivo elemento: i partiti popolari. Fino a quel momento, i partiti esprimevano gli interessi di ristrette cerchie di maggiorenti: i rentiers, gli industriali, la casta militare e così via. Da quel momento, alcuni partiti ricorsero alle piazze: al popolo senza distinzione. Naturalmente, il loro primo obiettivo fu quello di ottenere il suffragio universale, in modo che tutti potessero votare e, sperabilmente, votare per chi aveva dato loro questa possibilità. Per la cronaca, i primi ad applicarlo furono i Finlandesi, nel 1907: ma non mi ringraziate, è solo educazione alla cittadinanza, nulla più. Fin da subito, sull’idea di democrazia ci fu qualche, chiamiamolo così, dissapore: il congresso di Erfurt del 1891 sancì la nascita della socialdemocrazia, ossia la via riformista alla democrazia sociale, ma fruttò al padre di quella bella trovata l’epiteto di “traditore”, di cui lo felicitò quel futuro paladino della libertà e del diritto che rispondeva al nome di Vladimir Il’ič Ul’janov, che molti di voi conoscono con il soprannome di Lenin.
Insomma, erano appena nati e già si prendevano a sberle: quella di Lenin, magari, era solo una provocazione, di quelle che smentisci il giorno dopo, dicendo che non ti avevano capito, però ebbe una certa fortuna, nel corso del Novecento. D’altronde, quando gli toccò, Lenin risolse la questione del suffragio a modo suo, abolendolo semplicemente, perché dove c’è il governo perfetto, non c’è nessun bisogno di domandare al popolo se è felice: lo è di default. Ed arriviamo quasi ai nostri giorni: sorvolo sul Sessantotto, con la sua idea libertaria che sembra la voglia di un sedicenne di avere le chiavi di casa per tornare la sera tardi, perché quella non fu nemmeno un’ idea, ma una tensione pelvica. Parliamo, piuttosto di chi, da qualche decennio, detiene i rotoli sacri della legge: dei gran sacerdoti della democrazia. Tutta brava gente: di quella che applica con una certa pervicacia la regola del “bù per me, mia bù per te”, che sarebbe la versione attuale del “io so io e voi nun siete un cazzo!”, che molti attribuiscono al celebre film Il marchese del Grillo: ma io che mi sono autoimposto di educarvi alla cittadinanza, vi svelerò trattarsi di un sonetto del Belli ritoccato.
Vi dirò, concludendo la breve lezioncina, che questi signori non si sono, in definitiva, spostati granché dalle posizioni dei loro padri politici putativi. Tra i più noti paladini di questa innovativa visione del popolo con la museruola troviamo, nell’ordine, uno che parla di libertà ed applaudì l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, uno che cita nazismo e fascismo riferendoli al Paese che ha perso 382.600 soldati per liberarcene e, infine, uno che si lamenta per l’ignoranza di un popolo cui ha regalato per quasi trent’anni perle come “L’isola dei famosi”, contribuendo in maniera determinante a farne una plebe affamata di spazzatura. Così, cari i miei involontari allievi di questo succinto corso di educazione alla cittadinanza, la mia domanda finale è: perché mai, dati i presupposti, dovremmo pensare che chi non la pensa come i sopraddetti debba pensarla sbagliata? La storia sembrerebbe dirci l’esatto contrario. Ma, forse, la storia è solo un dettaglio, in democrazia.