Guida all’etichetta alimentare: Impariamo a leggere cosa mangiamo

Guida all’etichetta alimentare: Impariamo a leggere cosa mangiamo

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Formaggio, passata di pomodoro, burro, pasta, yogurt… la lista della spesa è pronta, ma una volta al supermercato la scelta diventa più complicata di quanto si pensasse. Perché? Quando leggiamo le etichette dei prodotti che intendiamo comprare ci troviamo di fronte a una giungla di informazioni e sigle come DOP, IGP, STG. Quanto sono importanti questi acronimi che al primo colpo d’occhio non significano molto? Per quale motivo alcuni ingredienti vengono scritti prima degli altri? A cosa deve stare attento il consumatore? Tutto ciò e molto di più si è raccontato al convegno di Venerdì 19 ottobre “Come si legge un’etichetta alimentare e come riconoscere i marchi di qualità volontari, DOP e IGP” organizzato dalla Camera di Commercio di Bergamo, in collaborazione con Unioncamere Lombardia e Coldiretti Bergamo, nell’ambito degli eventi programmati per l’iniziativa “Agricultura e Diritto al Cibo” coordinata dal Comune di Bergamo, in collaborazione con il Bio-Distretto.

“Fare la spesa è un gesto quotidiano ed è molto importante per il nostro stile di vita e la nostra salute. In base a quello che mangiamo facciamo una scelta, quindi tutte le informazioni che vengono riportare sulle etichette sono importanti sia per avere un consumatore informato che per scegliere alimenti di qualità”, ha sottolineato la referente di igiene e sicurezza alimenti di Coldiretti Bergamo, dott.ssa Serena Milesi che è stata una delle due relatrici del convegno.

Ma cosa rappresenta l’etichetta alimentare? Secondo la dott.ssa Milesi si tratta di una vera e propria carta d’identità del prodotto dove viene scritta l’origine dell’alimento stesso, ma anche le altre caratteristiche, come i valori nutrizionali, il modo in qui è stato lavorato se, ad esempio, si tratta di un alimento biologico o un vino eccellente del territorio. Con l’entrata a vigore del regolamento 1169/2011 del Parlamento Europeo l’etichetta è stata resa più trasparente per il consumatore con tutti gli elementi del prodotto obbligatoriamente scritti sulla confezione. Inoltre, vige l’obbligo di evidenziare con carattere distinguibile la presenza di allergeni, in modo tale che a colpo d’occhio il consumatore li vede subito.

Oltre alle sostanze che possono provocare reazioni alle persone allergiche, il consumatore deve prestare attenzione anche a una serie di altre caratteristiche: “Sicuramente, -nota Milesi-, all’origine della materia prima dell’alimento. Dopo, all’elenco degli ingredienti che è scritto in ordine decrescente di quantità. Se, ad esempio, si tratta di un dolce e al primo posto c’è lo zucchero, significa che è di maggiore quantità”.

Molto importante, però, è anche la data di scadenza dei prodotti, ma anche il termine minimo di conservazione. Come spiega Milesi, la scritta “da consumarsi entro…” determina la freschezza del prodotto, mentre il termine minimo di conservazione può essere un consiglio che ci garantisce che entro quel termine il prodotto chiuso manterrà le stesse caratteristiche all’origine. Non si tratta quindi di un elemento a livello sanitario, ma definisce le proprietà organolettiche del prodotto, quindi l’odore, il colore e il sapore che possono alterarsi nel tempo.

Contemporaneamente esistono anche i marchi di qualità che, come spiega la seconda relatrice, dott.ssa Raffaella Barbuto, consulente in proprietà industriale con specializzazione sui marchi dello Studio Torta di Milano, si dividono in volontari che sono quelli delle singole imprese e in collettivi che sono registrati da soggetti che garantiscono l’origine, la natura o la qualità di prodotti, come le camere di commercio, i consorzi, le associazioni ecc. I marchi sono dei nomi di fantasia, con dei loro loghi e colori e che possono anche contenere un nome che evoca l’origine geografica dei prodotti. Esempio di marchio collettivo è Bergamo città dei mille sapori che è di titolarità della Camera di Commercio di Bergamo e che lo concede in licenza alle imprese che rispettano il relativo regolamento.

Diverso è il discorso della distinzione tra le denominazioni geografiche, ossia DOP – Denominazione di Origine Protetta, IGP – Indicazione Geografica Protetta e STG -Specialità Tradizionale Garantita.

“Questi non sono dei marchi volontari, cioè non sono marchi di impresa, ma sono delle certificazioni di qualità europee che vengono rilasciate dopo un esame svolto dai singoli stati membri i quali tutelano determinati nomi di prodotti agricoli o alimentari fatti in un determinato luogo o anche delle particolari ricette”, spiega la dott.ssa Barbuto.

Più specificatamente il marchio DOP, che è il più severo, viene dato a quelle denominazioni di prodotti originari di un dato luogo, che hanno determinati qualità o caratteristiche derivanti essenzialmente da questo particolare ambiente geografico. Un’ulteriore requisito per ottenere una DOP è che tutte le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione si svolgano in una zona geografica ben delimitata. Per il marchio IGP invece è sufficiente che almeno una delle fasi di produzione avvenga in una zona geografica delimitata.

Per tutte le DOP, IGP e STG esiste un Disciplinare in cui vengono esattamente descritte le fasi di lavorazione, la provenienza delle materie prime e tutte le caratteristiche de che devono avare i prodotti. Il controllo viene effettuato da enti autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole.

Quali sono dunque gli obblighi delle aziende? Secondo Raffaella Barbuto tutte le aziende che descrivono tutte le fasi di produzione e gli ingredienti e che rispettano il Disciplinare, possono utilizzare il bollino della DOP o IGP: “Questa è la grossa differenza dal marchio collettivo che spesso è un nome di fantasia, con un suo particolare logo e viene registrato da una Camera di commercio oppure da un consorzio di imprese che stabilisce anche un proprio regolamento per cui solo le aziende che rispettano le regole stabilite dal titolare del marchio possono poi utilizzare il marchio. In caso contrario vengono sanzionate e la licenza dell’uso del marchio può anche essere revocata”.

Riguardo la tutela del consumatore, Barbuto aggiunge che se c’è il bollino della DOP o di IGP si definisce che un determinato prodotto proviene da un certo luogo e risponde alle caratteristiche previste dal Disciplinare approvato dal Ministero delle Politiche Agricole e dalla Commissione Europea. Invece il marchio collettivo ha dietro un ente, cioè il Titolare del marchio, che può controllare anche altre caratteristiche del prodotto e, in taluni casi, potrebbe anche dare maggiori garanzie al consumatore”.

Tutto ciò si aggiunge alla tutela contro i prodotti falsi italiani che hanno invaso il commercio estero. “Il problema maggiore sono le contraffazioni, ovvero l’uso indebito di indicazioni geografiche che non sono veritiere, oppure il cosidetto italian sounding ossia l’utilizzo (da parte di aziende straniere di solito) di denominazioni che hanno un richiamo all’italianità ma che poi italiane non sono. Per contrastare questo grave fenomeno globale è necessario che le imprese, i consorzi, i gruppi di imprese, le camere di commercio, conoscano bene quali sono tutti gli strumenti relativi ai diritti di proprietà intellettuale per poterli utilizzare tutti al meglio. Per ogni tipo di strumento, ciascun diritto ha una sua valenza, un suo uso, un suo scopo. Utilizzarli tutti quanti insieme al momento giusto permette di contrastare le contraffazioni e l’italian sounding che rovina il Made in Italy”.

Molte le testimonianze importanti del convegno, tra cui quelle di Raffaella Castagnini per Marchio Bergamo città dei 1000 sapori, Leyla Ciagà per Bergamo Green, Massimo Bosio per La stracciatella il gelato di Bergamo, Francesca Monaci per DOP Formai de Mut e Francesco Maroni per Forme: Candidatura Unesco.