Una domanda che ricorre di questi tempi e che, talvolta, assume i toni tra il lamentoso e il disperato è: come ci si difende dal terrorismo? Dal terrorismo non ci si difende, gentilissimi lettori: o, perlomeno, non ci si difende come comunemente è inteso questo concetto. Non esiste un sistema antiterroristico abbastanza esteso ed efficace, non ci sono contromisure sufficientemente sicure, nessuna forma di intelligence è tanto evoluta da dare ragionevoli garanzie di successo. Dal terrorismo non ci si difende con la prevenzione a breve termine: il meccanismo stesso dell’operazione terroristica si basa sulla sua imprevedibilità. Perché il terrorismo, in un certo senso, funziona come il diabete o la distrofia: sappiamo che si tratta di malattie che non guariscono, ma di cui possiamo diminuire, fino quasi ad annullarli, i sintomi. Nel caso del terrorismo, i sintomi e la malattia coincidono: e, come per le malattie, un’arma molto efficace per combatterlo sono la profilassi e lo stile di vita, mentre, per i sintomi, possediamo cure che possono ridurne tanto l’incidenza quanto le conseguenze. La causa e l’effetto, per così dire.
Non illudiamoci: il terrorismo è un’arma della modernità, e, finché si manterranno vivi i suoi presupposti, sociali, politici, religiosi, esso continuerà ad esistere. E’ l’arma del debole contro il forte, del povero contro il ricco: dalle bombe dei nichilisti ottocenteschi fino ai kamikaze in nome di Allah, il terrorismo è una guerra asimmetrica, non tanto nelle modalità quanto nei belligeranti. Non voglio arrivare a dire che, finché ci sarà una minoranza che sfrutta senza scrupoli una maggioranza, il terrorismo continuerà a prosperare, ma, per certo, è in quel contesto che esso si è sempre sviluppato, se escludiamo i bombardieri del commodoro Harris ed i loro più recenti succedanei statunitensi. Ma con questo tipo di ragionamenti storico-politici, rischiamo di perderci: vorrei, invece, limitarmi ad indicare alcuni possibili palliativi al terrore, posto che, come ho detto, di cure vere e proprie non ce n’è.
Innanzi tutto, parliamo dell’eventualità di un attacco terroristico, postulando che esso non avvenga in un sito davvero inaspettato, ma contro un bersaglio, diciamo così, più prevedibile, come una stazione, una manifestazione, un luogo d’incontro. La prima arma di difesa non sono le forze dell’ordine, che sono poche, spesso male armate e non addestrate alla bisogna e che, comunque, non possono certamente coprire l’intero spettro dei possibili bersagli: la prima arma siamo noi. Il nostro panico, la nostra incapacità reattiva, il nostro disordine sono un amplificatore degli effetti di un attacco terrorista. Dobbiamo imparare ad essere più ordinati, composti, il più possibile adeguati al difficilissimo compito di affrontare un’esperienza così terribile.
I morti di Parigi, in larga parte, si sono fatti ammazzare come agnelli sacrificali: l’attentatore sul “Thalys” Amsterdam-Parigi, disarmato da quattro comuni cittadini, avrebbe potuto fare una strage. Invece, l’hanno bloccato. Alcuni di questi cittadini erano militari: avevano, se non un addestramento specifico, una certa forma mentis. Ecco, dobbiamo sviluppare questa forma mentis: non girare armati fino ai denti, ma sapere affrontare un pericolo con un po’ più di decisione. Non è mica facile, lo so, ma questo può salvare molte vite. Così come abituarsi a muoversi meno caoticamente, a pazientare, a fare la fila. Di più, come singoli e pacifici cittadini, non possiamo fare.
Invece, a livello profilattico, si può fare molto: lavorare sia sui musulmani per nulla aggressivi, che sono la maggioranza, sia nelle attività di infiltrazione ed intelligence. Perché il terrorismo si batte soltanto con armi non convenzionali: isolando, ad esempio, i buoni dai cattivi. Le brigate rosse furono sconfitte quando la sinistra le isolò: furono i comunisti buoni a sconfiggere quelli cattivi, se mi è concesso. Così deve avvenire per questi integralisti: da una parte, ridurre il loro bacino di arruolamento, dall’altra aumentare la reciproca conoscenza, il dialogo, la comprensione tra le loro possibili vittime. Che, vi ricordo, sono in larga misura musulmane. E questo vuol dire, insieme, controllare e fidarsi, reprimere ed integrare. Insomma, distinguere il grano dal loglio, il che è precisamente ciò che le politiche d’accoglienza e di integrazione praticate dall’Italia hanno evitato accuratamente di fare. Certo, aumentare dotazione ed organico delle forze di polizia serve: ma il terrorista sceglie un bersaglio anche in base al grado di sorveglianza che vi può trovare.
Semmai, bisogna cercare di penetrare il sistema: di infiltrare finti affiliati, di selezionare informatori, di individuare i vivai del terrorismo. E, a più lungo respiro, si deve lavorare su altri presupposti: eliminare, ad esempio, le ragioni profonde per cui un giovane europeo possa avvertire il fascino di certi radicalismi, restituendogli dei valori forti ed un’identità comune. Lo so, sono tante cose insieme, e ci vorrebbe molto più spazio di questa mia rubrichetta. Una cosa, però, vorrei vi fosse chiara del mio pensiero: non è bombardando civili innocenti che si salveranno altri civili innocenti. Qui non occorrono muscoli, quanto neuroni.