“Cos'è un nome? Ciò che chiamiamo rosa, con qualsiasi altro nome avrebbe lo stesso profumo” faceva bisbigliare Sir William Shakespeare nel cuore della notte ad un Romeo innamorato. E invece per farci conquistare da un prodotto, da un marchio o da un negozio il nome conta e parecchio. Del resto se la stessa Giulietta non si fosse chiamata Capuleti le cose- forse- sarebbero andate decisamente meglio.
Beatrice Ferrari, massima esperta di brand naming, disciplina che ha il merito di aver importato in Italia dalla Francia negli anni Novanta, sottolinea come il nome giusto possa fare la differenza nel successo di una nuova marca, dalla piccola impresa alla multinazionale. Un percorso di ricerca lungo e delicato per scongiurare il rischio di incappare in oltraggi alla proprietà intellettuale – ormai all’ordine del giorno in un mondo invaso di prodotti, nomi e marchi commerciali depositati- ma soprattutto per garantire un futuro di successo ad ogni nuovo nato in casa. Un investimento necessario da affrontare con la stessa cura nella scelta del nome di un bebè perché il prodotto sarà sempre legato al brand, di cui dovrà portare con orgoglio il cognome. Tra casi di successo e nomi da dimenticare, Beatrice Ferrari non manca di fornire preziosi consigli per scegliere un nome coerente con il brand e che sappia accompagnare la fortuna di un prodotto. Non basta il battesimo perfetto per fare vendere e desiderare un brand o un prodotto, anche se può aiutare molto: un’idea vincente potrà sempre farsi strada anche con un nome sbagliato, mentre un prodotto così -così non avrà lunga vita anche se porta un nome azzeccatissimo. Inutile affidarsi a lampi di genio: scegliere nomi non è una semplice questione di creatività, è un parto a tutti gli effetti.
E’ stata la prima a fondare una società specializzata in questo ambito. Quando nasce l’idea di specializzarsi in questa disciplina?
“Sono approdata a questa disciplina per caso, dopo la laurea in semiotica conseguita a Parigi, lavorando come collaboratrice per una società specializzata in questo campo, della quale ho aperto la filiale italiana nel 1989: di fronte al bivio Londra o Milano, ho deciso di attraversare le Alpi e non la Manica. Quando sono arrivata dalla Francia all’inizio degli anni ’90 la specializzazione in questa nicchia non esisteva ancora in Italia. Pochi ci credevano, ma il mercato non mancava, anzi. Eppure ancora oggi non è entrata in modo significativo nei corsi universitari, nonostante il tema del branding sia prioritario…”
La scelta del nome è ormai entrata nel budget delle imprese anche in Italia?
“Negli anni si sono fatti passi da gigante e il “brand naming” è ormai entrato nei servizi proposti dalle agenzie di comunicazione e marketing. La presa di coscienza dell’importanza della scelta del nome è stata favorita dalla questione legale a tutela della proprietà intellettuale. Questo aspetto viene prima di tutto, perché si può lavorare su un nome brutto e impronunciabile purché sia ben protetto a livello legale. Poi è altrettanto importante verificare che il nome scelto non abbia connotazioni negative oltre i confini nazionali”.
Il brand naming è appannaggio solo dei grandi gruppi o anche delle piccole imprese italiane?
“Sono tantissime le pmi che investono nello studio di un nome e nell’analisi di un marchio. Sono imprese che operano prevalentemente nel settore dell’abbigliamento e pelletteria e in campo alimentare, da sempre i settori di primo piano per l’export e orgoglio del Made in Italy. La nostra identità va custodita e venduta nel migliore dei modi”.
Quanto conta la scelta del nome per il successo di un prodotto?
“Basti la controprova: quale danno può arrecare al brand il lancio di un prodotto con il nome sbagliato? La verità è che il nome giusto non salverà mai un prodotto sbagliato, mentre un nome non pronunciabile o sbagliato dato ad un prodotto che funziona. Il nome giusto ottimizza e valorizza il brand. E’ sempre importante distinguere tra il nome e la marca, un aspetto delicato perché il nome diventa la marca”.
Se il nome è sbagliato si può correre ai ripari?
“La storia del brand è piena di casi di re-naming. La Volkswagen, ad esempio, ebbe difficoltà nel lanciare la sua “Jetta” (da jet) in Italia dove il nome richiamava senza grande appeal sia“gettare” che “jettatura”. Le vendite andarono decisamente meglio grazie ad un’operazione di re-naming, con il nome “Vento”. E ancora, la Mitsubishi” Pajero” nel mercato spagnolo si chiama “Montero2 per ovviare così alla gaffe linguistica e a porre fine ad un’imbarazzante allusione sessuale. Allo stesso modo la Fiat “Ritmo” ha cambiato il suo nome nel mercato anglosassone perché in inglese il termine richiamava il ciclo mestruale. E’ evidente che nomi sbagliati limitano le vendite e un’analisi linguistica è fondamentale per portare il prodotto nel mercato internazionale”.
Come si arriva alla scelta del nome giusto? Quanto contano creatività, linguistica, semiotica, marketing, aspetti legali?
“Sono tutti aspetti fondamentali, ma il limite è sempre la disponibilità di un nome sul mercato. la metodologia da seguire è il Naming D.e.s.c: si definisce la questione, in primis cosa si intende comunicare con un nome. A differenza del packaging, il nome accompagna il prodotto in tutta la sua vita”.
Un esempio di nome sbagliato?
“Perlana: grande successo per i prodotti e la marca nonostante il nome sia limitante e poco lungimirante , visto che non sono solo “per- lana”. Una scelta dispendiosa perché l’evoluzione del prodotto ha comportato investimenti per comunicare che il nome non significava solo “per-lana”. Il nome invece di supportare il brand ha bisogno in casi come questo di essere supportato e per ovviare al problema si lavora sui concetti, associando a marchio e prodotti “benessere”, “delicatezza” e “morbidezza”.
Tornando alla nascita del nome, dopo la D. di Definizione, si inizia con la E. di Elaborazione creativa?
“Sì, la fase creativa avviene solo dopo un primo studio approfondito; la creatività non basta da sola altrimenti è fine a se stessa. Ma in questo passaggio l’elaborazione creativa non ha limiti, specialmente quantitativi”.
Quanti nomi nascono nella tempesta di idee?
“Tantissimi. Per un lavoro molto piccolo si arrivano a formulare tranquillamente mille nomi e più”.
Scegliere diventa difficile….
“L’attività di selezione, la terza fase ‘S’ del Naming D.e.s.c., arriva almeno dopo un il giorno successivo dalla fase creativa. La selezione è un’attività convergente, mentre quella creativa è divergente, per questo, a differenza di quanto si creda, non si può selezionare mentre si crea, ma bisogna lasciare riposare le idee nel cassetto. Il processo di selezione è ad imbuto, da una rosa ampia si scelgono pochi nomi, effettuando poi dei controlli sui consumatori, analizzando tutte le ricorrenze simili da un punto di vista giuridico… Siamo quindi arrivati alla ‘C’ del Naming D.e.s.c., il Controllo”.
I nomi sono delle creature, a quale è particolarmente affezionata la “mamma” di Yaris, Moramor Horwarth, Bacardi Bay, Espressamente Illy, giusto per citarne alcune?
“A tutti, ovviamente, ma tengo a citare l’operazione di re-naming di Polimeri Europa effettuata per Eni insieme all’agenzia InArea di Roma per superare i limiti che il nome portava con sé. La scelta, dopo un lungo studio, è stata di “Versalis”, un nome che evoca “versatilità”, “movimento”, “flessibilità”, ma anche “direzione”. Allo stesso tempo Eni-Versalis richiama “universalità”, “globalità” e infonde sicurezza”.
Esiste una tendenza o una moda nel brand naming come avviene per i nomi dei bambini?
“Ce ne sono sempre. Il nuovo millennio si è aperto con le “X” per X-perience e via dicendo. Una scelta scontata e super inflazionata, che per anni ha stancato e stufato…”