Mamma di Serina, papà di Zogno, si definisce un “montanaro”, anche se le scelte di studio, vita e lavoro lo hanno ben presto portato in giro per il mondo. Vittorio Rinaldi, 51 anni, antropologo, docente universitario, residenza (tra un viaggio e l’altro) a Ponteranica, è un esperto nel campo della lotta alla povertà, nello studio delle carestie e dei fattori di crisi e resilienza delle società contadine contemporanee, temi ai quali ha dedicato anche il volume “Anatomia della Fame”. È stato impegnato in programmi di aiuto allo sviluppo e cooperazione internazionale realizzati in vari Paesi – tra cui Nicaragua, Filippine, Somalia, Vietnam e Perù – ed è dirigente di associazioni e cooperative sociali che in Italia si occupano del reinserimento di soggetti svantaggiati. Oggi è anche il presidente di Altromercato, la maggiore organizzazione del commercio equo e solidale in Italia, di cui era già vicepresidente.
Ha passato lunghi periodi all’estero in contesti di forte difficoltà economica e sociale. Che cosa l’ha spinta e cosa ha “imparato” da queste esperienze?
«Mi ha condotto la curiosità di conoscere il modo di vivere di altre genti e come stava cambiando il pianeta, così ho colto alcune opportunità che mi si sono presentate. Nelle scelte giovanili hanno influito anche la mia cultura cattolica e i valori del mondo missionario, poi la direzione è un po’ cambiata. Tra le cose principali che ho imparato, soprattutto in riferimento al ruolo che oggi ho di presidente di Altromercato, è che più che impostare relazioni semplicemente sul concetto del dono o dell’assistenza è importante la valorizzazione del rapporto attraverso il lavoro, stabilire accordi di impegno reciproco, che è poi la filosofia del commercio equo: non si regala niente ma riconoscendo un compenso maggiore ai lavoratori si dà valore e dignità a ciò fanno. Mentre l’approccio assistenziale può creare dipendenza e disabituare all’assunzione di responsabilità».
Il Consorzio Altromercato compie quest’anno 25 anni, cos’è cambiato dagli esordi a oggi?
«La grande differenza, oltre alla crescita dei volumi delle vendite, è che 25 anni fa bisognava spiegare il senso dell’operazione, oggi “commercio equo” è un termine entrato del linguaggio comune e nella consapevolezza delle persone, il che è di certo una bella conquista. Nel frattempo è però radicalmente cambiato il mondo. E se prima l’importatore era l’Europa e i produttori da aiutare quelli dei Paesi del terzo mondo, oggi produttori deboli e poveri sono anche i nostri vicini di casa. La sfida per i prossimi anni di Altromercato è proprio questa, stringere rapporti anche con i produttori agricoli del nostro Paese».
C’è già qualche iniziativa in questa direzione?
«Abbiamo creato il marchio Solidale Italiano con il quale vengono commercializzati i prodotti delle terre confiscate alla mafia e quelli realizzati nelle carceri, ma si tratta ancora di operazioni limitate. L’obiettivo è un intervento di maggiore portata nei confronti dell’agricoltura “sofferente”, penso ad esempio a quella degli Appennini, delle Valli alpine abbandonate e naturalmente del Sud».
Avete avuto modo di verificare gli effetti del commercio equo sui produttori e i territori in cui si realizza?
«Più che dati complessivi, sono stati approfonditi singoli casi. Ebbene, da questi risulta che. più che il prezzo equo, ha un impatto importante l’assistenza tecnica fornita, perché rafforza le capacità di organizzarsi, amministrarsi, vendere, dando così l’opportunità di muoversi anche su altri mercati, ad esempio quello locale».
Quali possibilità ha oggi il consumatore di sapere con certezza se un prodotto rispetta i diritti dei lavoratori e dell’ambiente?
«I sistemi sono due. Altromercato attua un controllo diretto sui propri fornitori con persone in loco, esistono poi società di certificazione che non si occupano dell’importazione, ma verificano il rispetto dei criteri del commercio equo da parte dei produttori ed anche queste hanno un buon grado di credibilità. Al di fuori di queste due strade non ci sono certezze. È vero che l’attenzione alla responsabilità sociale è cresciuta da parte di tutti, aziende comprese, resta però difficile conoscere effettivamente cosa c’è dietro un prodotto».
Quali tra i prodotti che portiamo comunemente in tavola nascondono un grave sfruttamento?
«La filiera tradizionale del cioccolato che parte dal cacao dell’Africa e le banane del Centro America. Sono situazioni inimmaginabili, dove è impossibile trovare una qualsiasi forma di tutela dei lavoratori».
La crisi ha colpito anche le vendite “eque e solidali”?
«Decisamente, i problemi del portafoglio si fanno sentire su tutto il commercio ed il nostro settore non è stato immune. Possiamo parlare complessivamente di un calo di oltre il 10% nell’ultimo anno. Stiamo però pensando, compatibilmente con le risorse disponibili, ad un rilancio della rete dei punti vendita, con l’apertura di nuovi spazi e il miglioramento di quelli esistenti attraverso una diversa impostazione».
Cosa pensa del chilometro zero? È un criterio sufficiente per la scelta?
«È un’utile provocazione per riflettere sull’importanza delle produzioni locali e della stagionalità, anche se letteralmente è un concetto impraticabile, perché se dovessimo consumare solo ciò che cresce nell’arco di un chilometro moriremmo tutti di fame. E poi non è detto che un prodotto vicino sia per forza buono e giusto, anche se l’attenzione a quanto “viaggia”, ripeto, è importante».
I vostri non sono proprio prodotti vicini…
«Oggi quasi tutte le merci vengono da lontano, non si può fare diversamente, nessun Paese produce tutto ciò di cui ha bisogno».
C’è un prodotto che può essere preso a simbolo della filosofia di Altromercato?
«Direi la quinoa (un pianta della famiglia degli spinaci, i cui semi si utilizzano in alternativa ai cereali ndr.), il cui valore è stato sottolineato anche dall’Onu che ha dichiarato il 2013 Anno internazionale della quinoa. È un alimento buono e dalle importanti proprietà nutrizionali ed è prodotto da popolazioni molto povere sulle Ande, a 4mila metri di altitudine. In più è qualcosa che prima non c’era nei nostri mercati, che abbiamo contribuito a diffondere. Il commercio equo è anche l’occasione per incontrare una diversa cultura alimentare, sperimentare nuovi piatti e aprire gli orizzonti».
La sostenibilità del cibo sarà al centro dell’Expo…
«La scelta di questo tema è senz’altro positiva e interessante. È un invito aperto a riflettere sul fatto che il cibo non sarà più qualcosa di scontato e a buon mercato, come tutti oggi siamo abituati a pensare. Già ora le tensioni sono molto forti, dal 2005, ad esempio, i prezzi su scala mondiale stanno aumentando e fenomeni speculativi, sviluppo dei biocarburanti e land grabbing (ossia l’acquisizione di vaste estensioni agricole in Paesi in via di sviluppo da parte di altri Stati o grandi compagnie) non faranno che portare ulteriori aumenti nei prossimi decenni. Expo è perciò una buona occasione per portare alla luce questi aspetti. Non a caso, da parte nostra, organizzeremo proprio a Milano nel 2015 la Settimana mondiale del commercio equo, riunendo le diverse organizzazioni che se ne occupano».
Ha un suggerimento da dare a chi è perennemente indeciso sui regali di Natale?
«Un oggetto di artigianato. Gli artigiani sono i produttori più poveri di tutto il mondo e con la crisi il genere ha subito un crollo netto, molto più dell’alimentare».