Adapt / Conciliazione vita-lavoro, i rischi nelle nuove norme

di Agnese Moriconi*

Le novità introdotte in materia di conciliazione vita-lavoro ad opera del d.lgs. n. 80/2015 sono state accolte con favore quale espressione della sensibilità del legislatore nell’attualizzazione, in particolare, delle disposizioni contenute nel TU sulla maternità, divenute in parte obsolete rispetto alle mutate esigenze economico-sociali. Ed infatti, se ne comprende agilmente la ratio sottesa: ridurre la sempre crescente incompatibilità, soprattutto per le donne madri, tra le esigenze economiche ed organizzative personali, scaturenti dal possedere una famiglia, e gli obblighi relativi all’adempimento della prestazione lavorativa. Il fattore comune di molte delle novità introdotte (es. cumulabilità anche oltre i 5 mesi dei giorni non fruiti per parto prematuro, sospensione maternità durante il ricovero del neonato, fruizione del congedo su base oraria anche in assenza di accordi collettivi, estensione dei congedi anche ai lavoratori autonomi) è l’incremento di efficacia delle opzioni organizzative riconosciute ai genitori (anche in caso di handicap del figlio, adozione o affidamento) per far fronte ad esigenze quotidiane difficilmente conciliabili con gli obblighi che derivano dal rapporto di lavoro. È opportuno, però, riflettere su eventuali ricadute applicative di alcune delle nuove misure introdotte, pur nella consapevolezza del rischio di avanzare valutazioni “impopolari” e peraltro condividendo la necessità di ridurre il dualismo per i lavoratori tra ambito personale e lavorativo.

Conciliazione vita-lavoroAlle nuove previsioni che ampliano le soluzioni organizzative a disposizione dei lavoratori corrispondono infatti conseguenze non trascurabili in capo al datore di lavoro, che potrà trovarsi a dover fronteggiare assenze improvvise, talvolta prolungate o, diversamente, estremamente frazionate, senza avere a riguardo alcuna possibilità di contraddittorio. Un esempio di tale spostamento del punto di equilibrio è rappresentato dalla nuova disciplina del congedo “su base oraria”, di cui all’art. 32, comma 1-ter del d.lgs. n. 151/2001, modificato ad opera dell’art. 7 del d.lgs. n. 80/2015. In considerazione della prevista possibilità di fruizione di tale congedo anche in assenza di una regolamentazione di fonte collettiva o di secondo livello, il lavoratore potrà esercitare tale diritto scevro da particolari limiti e/o condizioni, eccezion fatta per un brevissimo termine di preavviso (2 giorni), anche quest’ultimo peraltro derogabile in caso di «oggettiva impossibilità». Rispetto ad un istituto che nella sostanza, soprattutto quanto a modalità di gestione, può essere considerato nuovo anche per il datore di lavoro, salta agli occhi il mancato riferimento ad eventuali e minime misure di accordo o coordinamento con quest’ultimo. E ciò tanto più in considerazione del fatto che il congedo su base oraria era già stato previsto dalla l. n. 228/2012, ma era rimasto inapplicabile proprio a causa della mancanza, nella maggioranza dei casi, di una disciplina collettiva che ne consentisse l’attuazione. Già in passato il legislatore aveva dimostrato consapevolezza rispetto alla necessità di un corretto coordinamento tra le esigenze del lavoratore e quelle del datore di lavoro, ontologicamente opposte anche su questo profilo (tra gli altri).

Ci si riferisce, ad esempio, alla disciplina dei riposi giornalieri della lavoratrice madre – ex art. 10, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, poi integralmente sostituita ad opera dell’art. 39, d.lgs. n. 151/2001 – che attribuisce a quest’ultima il diritto a due ore di riposo durante la giornata lavorativa (o un’ora in caso di giornata lavorativa di durata inferiore a sei ore). Tale fondamentale riconoscimento è stato mitigato dall’art. 10 del D.P.R. n. 1026/1971, che indica al lavoratore la necessità, in fase di richiesta e collocazione dei suddetti permessi, di «tenere conto» anche delle esigenze di servizio. Peraltro, in caso di mancato accordo, l’identificazione della soluzione organizzativa è devoluta all’Ispettorato del lavoro. Nel caso dei permessi per allattamento, quindi, nonostante la loro indubbia rilevanza sul piano della conciliazione vita-lavoro, al chiaro riconoscimento dell’obbligo a carico del datore di lavoro di garantire la soddisfazione delle esigenze familiari della propria dipendente è stata affiancata e non frustrata la necessità di addivenire ad accordi finalizzati a scongiurare pregiudizi ad entrambe le parti coinvolte.

Benché la nuova fruibilità oraria dei congedi parentali presenti, a parere di chi scrive, notevoli affinità anche applicative con la disciplina dei c.d. permessi per allattamento appena descritta, nel primo caso non è stata però prevista alcuna modalità di raccordo con le esigenze organizzative e produttive dell’impresa. È quindi prevedibile – ed anzi auspicabile – un intervento della contrattazione collettiva soprattutto nazionale, capace di raggiungere anche le imprese non sindacalizzate, che, prendendo atto del sempre crescente interesse per i lavoratori verso gli strumenti di conciliazione vita-lavoro, con conseguente possibile aumento della relativa fruizione, andasse a rimodulare le modalità di esercizio del diritto al congedo su base oraria, in funzione di una maggiore sostenibilità per le imprese. Ad ogni modo, pur in mancanza di esplicita indicazione normativa, nulla impedirebbe alle parti (datore di lavoro e lavoratore) di definire accordi proprio sulle condizioni o sui limiti generali cui i lavoratori dovrebbero attenersi in fase di collocazione dei congedi su base oraria, anche se ciò, a ben vedere, d’altra parte mal si concilierebbe con la velocità e la semplicità che dovrebbe caratterizzare l’applicazione pratica delle nuove disposizioni.

Si rileva, inoltre, come la lettura complessiva della disciplina delle misure di conciliazione vita-lavoro (ad es. nuove disposizioni sul congedo di maternità in caso di parti prematuri, congedo su base oraria, estensione della fruibilità del congedo parentale fino ai 12 anni di vita del bambino), benché queste ultime siano indubbiamente apprezzabili dal punto di vista sociale, possa risultare, soprattutto agli “occhi” delle PMI ed in un contesto sociale in cui le donne vivono ancora alcune penalizzazioni nel mondo del lavoro, organizzativamente ed economicamente onerosa, concretizzandosi in un ulteriore disincentivo all’assunzione di giovani donne. A margine dell’intervento della contrattazione (anche decentrata), che potrebbe mitigare la suddetta onerosità, sarebbe forse stato utile, inoltre, prevedere misure incentivanti, anche assimilabili alla defiscalizzazione prevista per il welfare aziendale, volte a controbilanciare la flessibilità richiesta alle imprese. In questa ottica si è probabilmente mosso il legislatore rispetto alla novità introdotta per il telelavoro, con la finalità di favorire l’implementazione di best practice di lavoro flessibile, prevedendo, in particolare, la possibilità che i telelavoratori non siano computati nel numero complessivo dei lavoratori, al fine della applicazione dei vari istituti di legge (modalità da sempre ritenuta estremamente “incentivante”).

* Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo