«La democrazia ci ha reso esigenti. Forse anche troppo»

«La democrazia ci ha reso esigenti. Forse anche troppo»

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Nell’ex chiesa di Sant’Agostino ristrutturata e restituita alla città, la relazione di apertura dell’anno accademico dell’Università di Bergamo del rettore Stefano Paleari tocca nervi scoperti del Paese come la crisi demografica e la necessità di una nuova industria, la scarsa considerazione per i giovani, maltrattati e dimenticati, e la necessità di investire nel futuro, ma chiama anche ciascuno ad una nuova responsabilità.

«Il nuovo patto europeo deve portare ogni Paese – ha evidenziato -, al di là degli egoismi e delle diverse anime, a dedicare una soglia minima della ricchezza al futuro, cioè agli investimenti. Certo non si tratta di un’azione che premia. Spesso chi la decide non la celebra, talvolta nemmeno vi sopravvive. Ma non possiamo rispondere continuamente all’assillo dei sondaggi di opinione. La legittimazione popolare è essenziale, anche per politiche che non la ritroverebbero una seconda volta. La storia ci dice che è stato salvato Barabba e potremmo dire che per sola alzata di mano forse saremmo ancora tolemaici. La democrazia è responsabilità e potere di scelta, è fiducia, il contrario di webcam e streaming che sono una specie di agopuntura permanente e non l’anticamera della dovuta trasparenza».

Più che nella competizione esasperata, il rettore  individua la strada nel raggiungimento dell’aurea mediocritas di oraziana memoria, «significa “ottimale moderazione”, equilibrio, rifiuto di ogni eccesso». «Rendiamoci anche conto che oggi chiediamo davvero molto a chi ci governa e anche la mia relazione va in questa direzione. In altri termini, la democrazia ci ha reso molto esigenti, forse anche troppo. Anche qui l’equilibrio e la moderazione aiutano una società a progredire e a essere più giusta».

  • Ecco la relazione

CRESCITA E DEMOGRAFIA

paleari inaugurazione anno accademico 2015La tenuta degli attuali livelli di benessere, mai visti in precedenza, è una grande questione per i Paesi europei. Se la misura è quella del Prodotto Interno Lordo l’Europa è su valori stagnanti e, in molti Paesi, assai distanti da quelli di 10 anni fa. L’Italia non sfugge a ciò, anzi è l’avanguardia di un declino che ormai rasenta un decennio. Ogni politica non può prescindere dalla situazione di partenza e dalle tendenze, pena la ricerca di obiettivi che risultano non aderenti alla realtà.

Il nostro Paese affronta oggi due grandi questioni che sono state peraltro già fonte di preoccupazione a partire dall’Unità d’Italia e in particolare in occasione delle due Grandi Guerre: un elevato debito pubblico e una decrescita demografica.

Nel corso del 2014 sono nati 502.000 bambini, il numero minimo dall’Unità d’Italia, contro il milione degli Anni Sessanta. Ebbene, con 500 mila nascite ogni anno e un’aspettativa di vita media alla nascita di 80 anni, senza apporti esterni, il Paese passerebbe, a regime, dagli attuali 60 a 40 milioni di abitanti.

Anche a parità di PIL pro-capite, oggi su valori inferiori a quelli di 10 anni fa, perderemmo il 30% della ricchezza complessiva senza che questo automaticamente trascini con sé la riduzione dell’imponente debito pubblico. Anche se la vita media raggiungesse i 100 anni i fatti non cambierebbero; a regime, planeremmo a 50 milioni di abitanti con il 10% della popolazione di età compresa tra i 90 e i 100 anni.

Questa semplice valutazione ci induce a ricercare da un lato, forti guadagni di produttività finalizzati a elevare la ricchezza unitaria, dall’altro a integrare la popolazione con politiche per la natalità e con flussi migratori tali da incrementare il numero di abitanti e ridurne l’età media. Senza crescita della produttività e senza un governo della demografia il sentiero, purtroppo, è tracciato, con tutte le conseguenze socio politiche del caso. La questione non è quindi relativa al se, ma al come. Il non fare è come il far fare al caso e alle pressioni esterne all’Europa, come del resto è evidente negli ultimi tempi.

Con riferimento alla produttività, ormai stagnante o in regresso da anni nel nostro Paese, occorre modificare radicalmente i modelli organizzativi del lavoro, in particolare nella Pubblica Amministrazione che non è soggetta direttamente all’azione schumpeteriana delle forze di mercato. La riforma della Pubblica Amministrazione è efficace se, almeno, ci porta a fare lo stesso con meno o a fare di più con le stesse risorse; e credo che sia velleitario perseguire questo obiettivo introducendo nuove norme senza al contempo modificare l’intera l’organizzazione, le modalità di lavoro e di remunerazione e il modo con cui essa recepisce gli avanzamenti tecnologici.

La crescita della produttività beneficia, inoltre, della qualificazione delle persone; ciò è fondamentale anche per il pubblico, dove al privilegio di non essere assoggettati direttamente alle forze di mercato occorre rispondere con l’alta professionalità e l’elevata produttività. Gli assetti giuridici e amministrativi, prima ancora delle scelte politiche, portano il nostro Paese in tutt’altra direzione.

I GIOVANI

Un secondo aspetto molto correlato alla questione della crescita riguarda l’attenzione verso i giovani.

Già sono sempre meno, sia in termini assoluti che relativi; oggi sono anche spesso dimenticati e mal trattati. Basta guardare alla dinamica della spesa pubblica di questi ultimi anni e anche le prospettive degli anni a venire per accorgersi che le scelte dimenticano i bisogni delle nuove generazioni.

Negli ultimi quattro anni la spesa corrente è cresciuta in termini nominali di 22 miliardi di euro, quella per gli investimenti è, viceversa, ai minimi storici.

Disaggregando la spesa corrente per capitoli, sempre nello stesso periodo, il reddito da lavoro si è ridotto di 4 miliardi di euro, i consumi intermedi sono rimasti nominalmente costanti, il costo delle prestazioni sociali è salito di 24 miliardi di euro, di cui 14 per la sola previdenza.

Fortuna vuole che gli oneri finanziari siano al momento più contenuti che in passato, anche grazie all’integrazione monetaria e ai tassi ridotti dalle politiche della Banca Centrale Europea. Volendo poi disaggregare per funzioni, a fronte di una spesa sanitaria stabile in termini nominali abbiamo assistito al disinvestimento in istruzione e ricerca.

Quando si tagliano gli investimenti, il lavoro e l’istruzione si dà un segnale chiaro di declino e di non attenzione al futuro, si dichiara che questo non è più il Paese per i nostri giovani.

Anche un uomo come Quintino Sella, noto per il suo rigore, per le “economie fino all’osso”, nella ricerca del pareggio di bilancio, non perché ci fosse l’euro ma perché era anche all’epoca conveniente per l’Italia, ammoniva il Parlamento di difendere le “spese produttive”, infrastrutture e istruzione in primis.

LA NECESSITÀ DI UNA NUOVA INDUSTRIA

Questi ultimi anni non ci consegnano un Paese in affanno solo per tendenze demografiche. Se pensiamo alla produzione industriale, mentre gli altri Paesi dell’eurozona sono ritornati ai valori pre crisi, il nostro Paese ha perso quasi un quarto della sua capacità produttiva.

Non si vedono al momento forti e persistenti cambiamenti di trend, malgrado la “bassa marea” del calo dei prezzi delle materie prime, dell’euro meno forte e del costo del denaro ai minimi storici. Come per la pubblica amministrazione, anche il declino della produzione industriale è legato anche all’insufficiente qualificazione delle persone (gli altri Paesi dell’euro presentano tassi di scolarizzazione superiore assai più elevati dei nostri) e a un contesto, occorre dirlo, culturalmente poco favorevole al fare impresa.

Dobbiamo essere consapevoli che un Paese come il nostro privo di materie prime, non può permettersi il mantenimento degli attuali livelli di ricchezza senza il ripristino di un’adeguata capacità industriale. Perdere un quarto della produzione in meno di un decennio è un evento di così rilevante portata da non poter essere sottaciuto, né essere ricondotto alla promozione di incentivi di natura ordinaria.

Il recupero della produzione è alla base della ripresa del lavoro. Anche concettualmente, la decontribuzione previdenziale, oltre a trasferire sulla fiscalità generale il relativo onere, indebolisce ancora di più la storia previdenziale dei giovani e i conseguenti squilibri generazionali. Molto meglio un calo della tassazione sull’impresa e sul lavoro, sugli investimenti e sulle assunzioni qualificate.

Provvedimenti semplici, forti e duraturi.

Diciamo subito, tuttavia, che difficilmente recupereremo il terreno perduto nei settori ridimensionati dalla crisi. Chi è rimasto oggi in questi campi si muove su mercati di nicchia, dove il contraltare del maggiore valore è rappresentato dalle minori quantità e da una grande flessibilità. Anche nei settori tradizionali abbiamo quindi splendide realtà; ma è difficile chiedere loro di più di quello che già fanno.

I settori che oggi crescono a doppia cifra sono quelli che si nutrono per esempio dell’invecchiamento della popolazione; essi richiedono alta qualificazione, moderata fiscalità e snellezza burocratica. Su questi tre assi va costruita una politica industriale; su ciò e non sui decimali di deficit andrebbe richiesta maggiore flessibilità alle Autorità europee. Alta qualificazione significa più cultura, più tecnologia, maggiore conoscenza delle lingue. Moderata fiscalità significa minore spesa pubblica e snellezza burocratica, vuol dire cambiamento delle nostre abitudini, delle nostre pretese, del nostro modo di lavorare.

INVESTIMENTI

Abbiamo detto che il nostro Paese non sta approfittando del basso costo del denaro perpromuovere nuovi investimenti. È lecito chiedersi se abbiamo davvero bisogno di nuovi investimenti.

La situazione andrebbe analizzata nello specifico. Non è mistero, però, prendere atto che gran parte delle nostre scuole ha bisogno di interventi di messa a norma e di riqualificazione che valgono da soli quasi l’1% del PIL, che gli investimenti per passeggero aereo, tanto per fare un esempio, sono il doppio in Europa rispetto all’Italia, che investiamo un terzo di Francia e Germania in ricerca, che non investiamo in prevenzione, né contro il dissesto idrogeologico, né per la cura delle malattie croniche. Stante questa nostra originalità, possiamo solo sperare che tutti gli altri Paesi investano più del necessario.

Il nuovo patto europeo deve portare ogni Paese, al di là degli egoismi e delle diverse anime, a dedicare una soglia minima della ricchezza al futuro, cioè agli investimenti. Certo non si tratta di un’azione che premia. Spesso chi la decide non la celebra, talvolta nemmeno vi sopravvive. Ma non possiamo rispondere continuamente all’assillo dei sondaggi di opinione. La legittimazione popolare è essenziale, anche per politiche che non la ritroverebbero una seconda volta. La storia ci dice che è stato salvato Barabba e potremmo dire che per sola alzata di mano forse saremmo ancora tolemaici. La democrazia è responsabilità e potere di scelta, è fiducia, il contrario di webcam e streaming che sono una specie di agopuntura permanente e non l’anticamera della dovuta trasparenza.

ASSETTI DI GOVERNO

inaugurazione anno accademico 2015Va detto che le tendenze demografiche, gli investimenti, la produttività, l’innovazione e la crescita non sono qualcosa di predeterminato. È vero il contrario, per fortuna. A noi è data la possibilità di intervenire, di deviare il corso. Questo è il ruolo delle Istituzioni e di quello che noi intendiamo per governance, gli assetti di governo.

Ci sono mille modi per produrre ricchezza e almeno altrettanti per distribuirla. Il modo con cui distribuiamo la ricchezza prodotta condiziona, però, la produzione di ricchezza futura. In altri termini, mentre possiamo decidere la distribuzione di un dato livello di ricchezza, la sua modalità distributiva influenza la generazione di ricchezza successiva.

Una distribuzione di ricchezza non legata al merito, acriticamente egualitaria o corporativa, così come eccessi di disuguaglianza e di ingiustizia hanno un effetto negativo sulla prosperità futura di una comunità. Chi mai investirebbe per produrre ricchezza se poi la sua distribuzione non risponde al merito, al contributo che ciascuno ha dato, alla voglia di rischiare pur nei necessari equilibri di accordo sociale? Ci sono troppe ingiustizie, sia per eccesso di uguaglianza sia per eccessivo di disparità.

In molte situazioni, ad esempio, c’è troppa poca differenza tra il salario di chi lavora e il sussidio o tra salario e pensione. In certi casi non diventa più nemmeno conveniente impegnarsi nella vita e nel lavoro, soprattutto per i giovani. Nell’Università, per esempio, gli stipendi più alti sono ormai quelli dei docenti in pensione e i più bassi quelli dei giovani ricercatori.

Ho l’impressione che le scelte degli ultimi anni siano state troppo timide e troppo lente, non sufficienti per vincere l’inerzia di stratificazioni decennali e la forza delle dinamiche internazionali. Anche la prossima legge finanziaria pare costruita per rispettare “sentenze” e impegni pregressi piuttosto che per aggredire palesi disuguaglianze. Occorre dare più visibilità alla destinazione delle entrate dello Stato. Sarebbe maggiormente accettabile, anche per chi dovesse pagare dazio, un bilancio “orizzontale” dove la parte da cui si prende vede la parte a cui si destina.

DALL’ITALIA ALL’EUROPA

È indubbio che tutti questi ragionamenti vadano visti alla luce di come ci guarda l’Europa. Un termine che fino a venti anni fa era un sogno politico, dopo il Secolo delle guerre. E che oggi molti iniziano a vivere come un incubo.

Io credo che chi si aspetta la costruzione europea come un processo poco accidentato, debba guardare all’indietro a quello dell’unificazione italiana, ancora peraltro molto da compiere. Anche qui la questione non è se, ma come. Non è se si all’Europa, ma quale e in quale modo. Chi ha dubbi sul futuro dell’Europa come realtà unita abbia il coraggio, consapevole della Storia, di indicare un’alternativa e di immaginarne le future conseguenze.

UNA NUOVA EUROPA

Non basta più però difendere per inerzia l’idea di Europa. Oggi l’Europa ha bisogno di un nuovo inizio. Serve una discontinuità. Per esempio l’elezione diretta di un Presidente a cui competano le scelte politiche in materia di difesa, politica estera, monetaria ed educativa.

Le generazioni che oggi hanno meno di quarant’anni sono quelle che noi identifichiamo come “Erasmus”. Queste ragazze e questi ragazzi sono diventati maggiorenni con la nascita dei vettori low cost e con la diffusione di Internet. La cornetta telefonica è per loro un vago ricordo che presto verrà sostituito anche nelle icone dei cellulari. Molti di questi giovani sono poliglotti, senza appartenere alla nobiltà, e possono candidarsi a guidare il nostro Continente nel nuovo secolo.

Così come la forza degli Stati Uniti d’America di questi decenni è nata dal crogiolo delle differenze, che hanno trovato alimento anche dal dramma e dalle atrocità del nazismo, così oggi l’Europa può rinascere dal dramma di altre guerre e di altre povertà e svolgere un ruolo preminente per il Mondo. Un futuro più prospero per i popoli europei è nelle nostre possibilità se saremo forti nelle identità e aperti nelle sensibilità.

QUALE SOCIETÀ VOGLIAMO

Ma è altrove che ci porta questa riflessione, che non vuole e non può essere di natura solo economica. La ricerca di una nuova via per la crescita porta a mettere in discussione ciò che è stato considerato come “acquisito” da troppo tempo, ovvero l’idea di società che abbiamo.

E’ interessante questa fase della nostra storia. Dopo aver soddisfatto in gran parte i bisogni primari come l’alimentazione, l’abitare, la mobilità e una serie, così elevata da non essere avvertita, di comodità, inimmaginabili ancora oggi per gran parte dell’umanità, stiamo affrontando il futuro con pochissime categorie mentali e per lo più all’interno di modelli individuali e non collettivi. Anche chi governa una moltitudine, guarda agli individui, è abile nell’intercettarne i bisogni del momento, è astuto nel convincere che l’interesse di tutti non è altro che l’interesse individuale più votato.

Eppure, basterebbe fermarsi un attimo e chiedersi: quale società vogliamo, quale mondo? Anche la conquista del consenso, se non porta con se un’idea di società, è neve di primavera destinata a sciogliersi alle prime difficoltà.

DIRITTI COME CONQUISTA

Una vita degna in tutte le sue fasi non è necessariamente una vita colma di ricchezze, di diritti e di rivendicazioni. C’è una bella frase proprio di S. Agostino: “la felicità è desiderare ciò che già si possiede”. I diritti di cittadinanza, e più in generale tutti i diritti, non vanno visti come punto di partenza e definitivamente acquisito, ma come conquista che deriva dall’esercizio continuo dei doveri di cittadinanza, che comprendono tutti i doveri.

D’altronde, i diritti acquisiti, come tutte le conquiste, se non sono sostenibili, si traducono nell’acquisizione di fatto dei diritti altrui, quelli dei più deboli, di chi “sta fuori”, di chi non è ancora nato.

I SISTEMI EDUCATIVI

platea inaugurazione anno accademico 2015Eppure il nostro Paese ha sperimentato fin dal dopo guerra un’originalità in Europa nel dibattito sul modello di società. Oggi possiamo dire che il comunismo è stato storicamente e sommariamente “a tutti poco o niente”; facciamo in modo però che la risposta non sia “a pochi quasi tutto”. Affinché questo avvenga non è sufficiente attivarsi per correggere la tendenza in termini caritatevoli, ma occorre anche costruire le condizioni per una società più giusta.

E questo ha il suo inizio in un solido e universale sistema educativo. L’istruzione, i valori ovunque vengano acquisti sono la materia prima di una società più equilibrata e quindi più giusta. Il nostro Paese ha molta strada da fare al riguardo. La Rai ha insegnato la lingua comune agli italiani e oggi le televisioni di altri Paesi insegnano da tempo la nuova lingua franca.

CAMBIAMENTO ED EQUILIBRIO

Occorre cambiare. Ma così come i diritti e i doveri sono due facce della stessa medaglia, il cambiamento in una società complessa non è rivoluzione, ma evoluzione. E l’evoluzione è il passaggio da un equilibrio a un altro in un processo incessante e senza fine di adattamento. Non c’è reversibilità nella natura, malgrado le leggi della medesima, e così non c’è vero cambiamento senza un percorso equilibrato che lo renda irreversibile.

L’equilibrio non è in antitesi al cambiamento, non è staticità, è punto di incontro mobile di un processo evolutivo.

CAMBIAMENTO E GLOBALIZZAZIONE

Un ruolo, in questo processo di cambiamento, è certamente giocato dai processi di globalizzazione, di interazione tra parti lontane, di condivisione, di conoscenza reciproca; non solo quindi passaggio di merci. La globalizzazione può però agire per “armonizzare” il mondo, così come per “omogeneizzarlo”. Nel primo caso la globalizzazione è difesa delle identità e delle differenze intorno a valori condivisi, nel secondo è miscellanea indigesta che toglie spazio alle comunità e alle loro storie evocando periodiche forme di rigetto.

IL RUOLO DELLA SCIENZA, IL RAPPORTO FRA I SAPERI

Personalmente auspico che in questo processo di cambiamento, la nostra società sappia recuperare una posizione di leadership per l’educazione, la ricerca, la scienza, il cosiddetto “soft power”.

Educazione e ricerca, che intendo in equilibrio fra i saperi, dove si possa riconoscere la ricchezza della conoscenza umanistica come di quella scientifica, in un rapporto fra le discipline che si arricchiscono vicendevolmente.

In un dialogo fra Einstein e Chaplin, si riporta che il fisico abbia detto all’attore: “Ciò che ammiro di più della vostra arte è che è universale. Non dite una parola e il mondo intero vi capisce!”. E che la risposta di Chaplin sia stata: “È vero. Ma la vostra gloria è più grande. Il mondo vi ammira anche se nessuno vi capisce”.

LA COMPETIZIONE NEL SISTEMA EDUCATIVO

Al nostro sistema educativo, piuttosto che di trasformare la società, è stato chiesto di competere. E in molti casi si è voluto tradire l’essenza stessa della parola che significa “andare insieme”, “convergere a un medesimo obiettivo”, avere una tensione per il miglioramento. Si è intesa la competizione come “spettacolo di gladiatori”, dove vince chi non viene eliminato. Il pollice dell’Imperatore oggi è più democraticamente sostituito dal “popolo della rete” che promuove con gli “I like” e punisce con gli improperi come ai tempi dell’Antica Roma.

La competizione, come il merito sono virtù di una comunità perché inducono a migliorarla.

L’idea autentica di competizione va difesa soprattutto dai migliori. Il vincitore che elimina i vinti non potrà ripetersi. Il numero uno è tale perché esiste il secondo e il terzo. Chi sta dietro continuerà a giocare se si riconoscerà nelle regole di valutazione e se si potrà migliorare fino a insidiare chi è davanti. E chi è davanti sarà impegnato a non farsi superare. Questa è la competizione, la non omologazione, l’esaltazione delle diversità, la spinta alla qualità diffusa e al miglioramento. E concedetemi un pizzico di ironia sulle tante classifiche che giudicano scuole, università, città, sistemi sanitari, Paesi: non avete l’impressione dell’impiego di un enorme numero di classificatori nei confronti di un minor numero di classificati?

D’altro canto, a detta dei principali studiosi di pedagogia, sono le differenze in contrapposizione al conformismo gli elementi vincenti di un buon sistema educativo. Il cattivo esito di molte riforme europee degli ultimi vent’anni è forse spiegato, per dirla come Ken Robinson, dal tentativo eccessivo all’omologazione dei sistemi educativi.

LA QUALITA’ MEDIA

La competizione che migliora è quella che difende e alza la qualità media. Forse dobbiamo essere in grado di apprezzare anche il fatto che nel nostro sistema di alta educazione non si raggiungano vette a livello mondiale, ma che il livello nel suo complesso sappia difendere una buona qualità media, come riconosciuto proprio dagli altri Paesi. L’”Aurea mediocritas” di Orazio significa “ottimale moderazione”, equilibrio, rifiuto di ogni eccesso.

LA MODERAZIONE ANCHE VERSO CHI GOVERNA

Rendiamoci anche conto che oggi chiediamo davvero molto a chi ci governa e anche la mia relazione va in questa direzione. In altri termini, la democrazia ci ha reso molto esigenti, forse anche troppo.

Anche qui l’equilibrio e la moderazione aiutano una società a progredire e a essere più giusta.

CONCLUSIONE/ SALVAGUARDIA DI CIO’ CHE ABBIAMO RAGGIUNTO

Alla fine di questo percorso, che è partito dalle grandi questioni del nostro Paese, per allargare lo sguardo all’Europa, ad una nuova definizione di società, e all’esigenza di cambiamento, vorrei riaffermare il concetto di “conquista continua”, mai acquisita per sempre, come una pianta che occorre adeguatamente irrorare.

Talvolta si ha l’impressione di ritenere definitive alcune grandi conquiste dell’ultimo secolo e speriamo che l’Europa possa compiere il primo secolo di pace.

Così non è: “Armi, acciaio e malattie”, per dirla come il biologo Jared Diamond, continuano ad essere elementi da cui non si può prescindere anche per creare lo spazio per più incisive politiche di pace e di integrazione.

Per questo è davvero essenziale comprendere l’importanza della scienza, delle scienze, delle tecnologie per evitare un sicuro declino, quandanche non assoluto, certamente comparativo.

Un Paese senza grandi tensioni emotive, se non nella forma di risentimento; un Paese che non accetta di vivere con i propri mezzi, che chiede di allungare l’estate coltivando l’illusione di poter fare a meno delle formiche, un tale Paese non può nemmeno difendere ciò che la Storia gli ha consegnato.

Detenere grandi patrimoni culturali non è garanzia per evitare il declino. La Grecia e il Medio Oriente sono un monito. Non è per decreto o per editto che meglio conserveremo i nostri capolavori. In un Paese che smette di generare ricchezza ciò appare sempre più un lusso che non ci possiamo più permettere.

Sappiamo dalla storia che la correzione degli squilibri può avvenire per umana virtù o per brutale necessità. Auspichiamo che le grandi questioni possano essere affrontate evitando guerre e violenze; per questo servono istituzioni forti, affinché la legge della forza non sostituisca la forza della legge.

DEDICA

coroVoglio concludere la mia riflessione con una dedica.

Non a una o più persone; anche senza menzione, sono certo che a molti la mia dedica personale è già arrivata.

Voglio fare una dedica a una comunità. Quella delle persone che “fanno fatica”, che danno prima di ricevere, che servono prima di essere servite, non solo i più deboli ma quelli che ogni giorno si impegnano nello studio, nel lavoro, nella vita.

Il fare fatica, talvolta anche la fatica di rispettare la legge, è il migliore esercizio del dovere e l’anima di ogni organizzazione.

Le persone che fanno fatica hanno il diritto e il dovere di chiedere un’Italia e un Mondo migliori.