Attenti, perché c’è anche una dittatura della memoria
Oggi mi piacerebbe parlarvi di memoria. Di come funziona la memoria, intendo. Per uno storico, la memoria è qualcosa di diverso da quel complesso insieme di processi elettrochimici che ci porta a fare riemergere dal nostro magazzino cerebrale frammenti del passato. Diciamo che, in un certo qual modo, per me la memoria è come per il salumiere la pancetta coppata: non voglio insinuare di possedere una memoria tesa e senza cotenna, però, oltre ad essere un fatto personale, per quelli come me, la memoria è anche un lavoro. Lo so che non suona tanto bene: viviamo in un’epoca in cui l’apparenza è tutto e, pertanto, anche la memoria si riveste di panni splendidi e viene raccontata con formidabili ricorsi alla retorica più raffinata. Solo che, sotto il vestito, molto spesso, non c’è nulla: la memoria manca, e rimane soltanto l’abito, indossato da un manichino privo di vita. Perché la storia, che della memoria rappresenta, per così dire, un distillato di libera vendita, o la si racconta tutta e la si racconta meglio che si può, oppure è meglio non raccontarla per niente.
Insomma, per farla breve, una storia raccontata male è un lavoro male eseguito, per un professionista della storia: affondare le unghie in una spugna, graffiare una lavagna, produrre un suono sgradevole. Prendere un microfono e rivolgersi ad una platea per tenere una lezione di storia non è esattamente come cantare una canzoncina o recitare una filastrocca: si suppone che la gente si aspetti da te almeno due cose, ossia la scientificità e l’onestà intellettuale. Intendo dire che queste due prerogative vengono, solitamente ritenute prerequisiti dal pubblico: il presupposto che ti muove ad assistere ad una conferenza storica è che, in quella sede non ti raccontino grossolane stupidaggini o panzane sesquipedali. Invece, purtroppo, molto spesso, per una ragione o per l’altra, vi sono dei relatori che raccontano un mucchio di sciocchezze. Alcuni per semplice incapacità: non tutti gli imbianchini maneggiano lo stucco veneziano con la dovuta abilità e non tutti gli storici lo fanno con la storia. Altri per patente malafede: perché sponsorizzati da qualche ideologia, da qualche partito di dementi, da qualche mainstream culturale.
Il problema della memoria, in quei casi, si riduce ad un’elementare questione commerciale: se un imbianchino ti rovina gli stucchi di casa, non lo paghi, lo paghi di meno oppure, in casi estremi, lo citi per danni. Se uno storico ti inculca nella testa idee sbagliate, criminalmente sbagliate intendo, idee che fanno di te una persona peggiore, non c’è modo di rivalersi: dirò di più, non c’è, spesso, modo di accorgersene. E la memoria, tanto individuale quanto collettiva, va a farsi benedire: i processi mnesici sono materia plastica. A differenza di quel che si può pensare, la memoria è influenzabile: iniettando all’interno di un sistema di memorie un virus, questo sistema può mutare, adeguarsi, modificare perfino i propri presupposti culturali. Vi sembra complicato? In realtà è semplicissimo: se io sento ripetere per anni lo stesso concetto storico, del tutto sbagliato e che utilizzi parole chiave semanticamente sbagliate, un po’ alla volta modificherò la mia memoria, adeguandola ai parametri che mi sono stati inculcati. Esiste, perciò, una guerra delle parole, che riguarda, specialmente, quelle che esprimono i concetti più alti, complessi ed importanti della nostra vita civile: chi riesce ad appropriarsi di determinati campi semantici avrà vinto la battaglia della memoria. Sarà la sua memoria a diventare la memoria di tutti.
Parole come “pace”, “democrazia”, “Olocausto”, “libertà”, non sono più vox media: non sono più, nella nostra memoria, riferibili indistintamente a qualunque consorzio umano, ma sono diventate appannaggio di una parte, di una metà della mela. E, quel che è peggio, all’interno di questa già di per sé deprimente lotta per il predominio linguistico, si è sviluppata una specie di manicheismo: chiunque contraddica parole e concetti di questa memoria indotta si colloca a mezzo tra la lesa maestà e l’iconoclastia. C’è, in definitiva, una dittatura della memoria, miei cari lettori: delicata, sotterranea, strisciante, ma pur sempre dittatura. Non si può possedere una memoria, tanto individuale quanto nazionale, che non risponda a certi parametri culturali, semantici, politici. E non esiste confronto tra i ricordi: non si dice condivisione, che sarebbe oggettivamente impossibile, ma neppure rispetto, in questo valzer di correttezze formali, per la memoria altrui. Capirete che, anche ammesso che la memoria dominante fosse la più vera, la più giusta, la più, per così dire, memorabile, si tratterebbe, comunque, di vessazione o di manipolazione della storia: se, poi, come sempre accade nelle vicende umane, questa memoria è incompleta, perfettibile, talvolta del tutto mendace, ci troviamo di fronte ad una violenza inaccettabile. E, a questo punto, non lo storico, ma l’uomo deve domandarsi: perché la accettiamo?