Quindi siamo ancora in deflazione, in Italia come nel resto dell’Europa. Abituati per anni a un andamento iperinflazionistico, ovvero a prezzi che salgono in maniera eccessiva, fino a non molto tempo fa, prima dell’era dell’euro, eravamo contenti anche solo per un rallentamento della crescita. Adesso che i prezzi scendono, seppure nella media statistica, perché al calo di alcuni prodotti corrisponde un aumento su altri, seppure inferiore, cresce la preoccupazione e non perché non siamo mai contenti. Un po’ di inflazione è fisiologica, come avere una temperatura a 37 gradi. Se si alza, c’è la febbre e l’inflazione, ma se è troppo bassa si rischia ugualmente di andare in coma. In genere c’è un sistema di autoregolazione. Una riduzione dei prezzi si traduce in una maggiore capacità di spesa: con la stessa moneta si possono comprare più beni. Questo dovrebbe alimentare i consumi e la domanda e quindi riequilibrare la situazione riportando a una salita dei prezzi come è normale che sia in un’economia in salute. Invece questo non sta succedendo.
Ma non è l’unica anomalia. Di regola la deflazione per un Paese come l’Italia dovrebbe creare un doppio problema. La riduzione dei prezzi viene naturalmente collegata a un problema di decrescita, con minore domanda e quindi minore produzione che portano a una riduzione del Pil (anche se in realtà gli ultimi dati mostrano in Italia la prima crescita da tre anni). Inoltre mentre l’inflazione porta a una riduzione del valore reale del debito, la deflazione lo aumenta. Con un aumento del numeratore e una riduzione del denominatore si moltiplicano gli effetti negativi su un rapporto debito-Pil già pesante, andando in controtendenza con gli obiettivi del governo che sperava in un’operazione in senso contrario, con un aumento del Pil e un’inflazione contenuta, in grado di erodere il valore reale del debito senza però provocare un aumento del costo degli interessi. Il fatto che esista un’anomalia come la deflazione unita alla crescita fa pensare che possa essere pericoloso intervenire per cercare di riaccendere artificialmente l’inflazione, perché così richiede la politica monetaria, senza sapere cosa l’ha causata.
Sul calo dei prezzi incide infatti in maniera pesante il precipitoso crollo delle quotazioni del petrolio e in generale delle materie prime. Rispetto a un anno fa il prezzo del greggio si è dimezzato (un po’ meno se il calcolo lo si fa in dollari) passando dai 60 dollari al barile di gennaio 2015 ai meno di 30 di un anno dopo. Se si considera l’impatto che il petrolio ha non solo sui trasporti, ma anche sull’energia e sulla produzione manifatturiera, si può capire che una precipitosa caduta di questo genere può spegnere l’impulso al rialzo dei prezzi alimentato da una crescita comunque debole. Ma tra un anno, anche a parità di crescita del Pil, il confronto dei prezzi sarà fatto con il petrolio a 30 dollari al barile di questi giorni. A quel punto, se le quotazioni si saranno stabilizzate, tutti gli effetti positivi in termini di riduzione saranno annullati. Se invece, come appare probabile, le quotazioni del greggio dovessero risalire, il confronto con un gennaio 2016 a prezzi più bassi porterebbe automaticamente a restituire l’inflazione nascosta l’anno scorso. E probabilmente ci troveremo a preoccuparci di un’inflazione da spegnere.