Dall’Ape all’anticipo del Tfr, quando a vincere è la propaganda

tfr-busta-pagaNel rispetto delle minoranze è corretto anche dare conto di provvedimenti governativi che interessano a pochi. Ma quando i mass media dedicano spazio eccessivo a normative che a un primo sguardo distratto possono sembrare interessanti, ma che poi sono di limitata utilità generale, è legittimo pensare che non ci sia stato un esame critico di quanto veniva proposto, ma si faccia solo a grancassa promozionale. E’ avvenuto ad esempio con la possibilità di ottenere l’anticipo del Tfr. Il provvedimento non era in sé malvagio, ma non era nemmeno eccezionale, per via di una struttura tecnica fragile. Da aprile 2015, in pratica, viene data ai lavoratori dipendenti la possibilità di chiedere il pagamento in busta paga del Trattamento di fine rapporto, che di regola viene versato appunto al termine del contratto di lavoro. Secondo un’elaborazione della Fondazione consulenti del lavoro di alcuni mesi fa su oltre un milione di retribuzioni esaminate solo 567 dipendenti avevano chiesto l’anticipo. All’incirca lo 0,05%. Il provvedimento, insomma, è risultato interessante per alcuni – bene che abbiano potuto approfittarne -, ma presentarlo come un successo politico è fuori luogo. Anche perché nella relazione tecnica della legge di stabilità il governo aveva ipotizzato che, a regime, la norma potesse interessare circa il 40% dei lavoratori destinatari dall’operazione, dimostrando scarsa consapevolezza di quello che serve ai loro elettori. E il bersaglio è stato assolutamente non centrato per una semplice ragione: c’era un’eccessiva penalizzazione fiscale, tanto che si poteva sospettare, in maniera maligna, che l’obiettivo fosse più quello di far incassare l’Erario che i lavoratori.  Il prelievo sull’anticipo è infatti a tassazione ordinaria, rispetto a quella separata prevista sul Tfr, e quindi è conveniente solo per le fasce più basse di reddito. Morale: chi poteva farne a meno, lo ha fatto.

Un probabile bis del caso si prospetta con l’ “anticipo pensionistico”: prevede la possibilità di andare in pensione fino a tre anni prima rispetto alla data ora fissata a 66,7 anni, quindi a 63,7 anni ricevendo un prestito da restituire poi in 20 rate. Le assicurazioni dovranno garantire i rimborsi alle banche in caso di decesso. Nei tre anni di anticipo in pratica, si inizia a spendere la pensione che si maturerà solo tre anni dopo. E dalla “vera” pensione che scatterà comunque ai 66,7 anni si inizierà a rimborsare quando è stato incassato in precedenza. Quello che viene chiamato pomposamente “anticipo pensionistico” o in maniera simpaticamente ammiccante “Ape” in pratica è un prestito bancario, che qualcuno deve pagare, così come dovrà pagare la necessaria assicurazione, clausola in caso di morte. Se a pagare è il dipendente, si troverà quindi con un anticipo di tre anni, di importo inferiore a quello della reale pensione e in seguito pensioni ridotte fino a quando non verrà rimborsato l’anticipo percepito (e relativi interessi). Se lo Stato interverrà a pagare gli interessi di fatto sarà un beneficio per banche e assicurazioni. Se invece sarà l’azienda a pagare, allora è probabile che la possibilità sarà concessa solo quando c’è l’interesse a fare uscire qualcuno, sempre che l’impresa sia in grado di farlo.

La convenienza è insomma molto relativa.  Indubbiamente il fatto che ci sia questa possibilità può interessare qualcuno per il quale la decurtazione della pensione per qualche anno non crea problemi, magari perché ha altri redditi, ma è altamente improbabile che sia la soluzione definitiva per il problema. Tra l’altro, queste riforme sulle pensioni non sono ancora effettive se non previste per il 2017. Nel frattempo se ne continua a parlare, chi non è interessato al problema non lo approfondisce ed ha l’impressione che il governo si stia dando da fare. Invece sta essenzialmente giocando, perché i problemi sono ben altri. E lo si vede da un terzo esempio recentissimo: la concessione da parte della Ue della copertura con garanzia di Stato fino a 150 miliardi di euro per intervenire con iniezione di liquidità solo verso banche solvibili e soltanto fino a dicembre. Questo in effetti era un problema alcuni anni fa, ma da quando la Bce offre denaro a tasso zero non se ne sente più parlare. Quindi è più che probabile che quello che viene passato come un successo politico sia semplicemente un provvedimento che non verrà inutilizzato, e quindi inutile. Ma serve comunque a coprire il non risultato ottenuto sulla possibilità di intervenire sulle sofferenze bancarie, questo sì il vero problema per il sistema del credito, per l’Italia e in fondo per la stessa Europa. Ma la politica che pensa soltanto ai motivi interni – questo non soltanto in Italia, basti pensare a cosa ha combinato in Gran Bretagna il dimissionario premier Cameron con l’assolutamente evitabile referendum sulla Brexit – può ben sbandierarsi come il governo del fare. Non importa se fa le cose inutili e non quelle fondamentali.