Tra salvataggi e trasformazioni in spa per le banche sarà un 2016 movimentato

a-ubi.jpgIl decreto che permette di salvare quattro banche di media taglia commissariate non risolve definitivamente i problemi. E’ previsto infatti che questi istituti debbano essere successivamente venduti. E il problema è: chi potrà comprarle? Messe insieme Banca Etruria (una delle dieci popolari obbligate alla trasformazione in Spa), Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti rappresentano l’1% degli asset del sistema bancario nazionale. Non devono necessariamente essere acquistate in blocco, ma è un’operazione comunque impegnativa. I big non sembrano molto motivati. Alcuni capiazienda, in Intesa, Unicredit, Montepaschi e Banco Popolare, hanno dichiarato esplicitamente di non essere interessati. La Bpm non ha escluso di fare una valutazione, mentre l’ad di Ubi Victor Massiah si è limitato ad escludere Banca Marche per la sovrapposizione con la Popolare Ancona già nel gruppo. Ci sono poi gli istituti medi: l’anno scorso in effetti l’acquisto da parte della Popolare di Bari ha permesso di risolvere i problemi di Tercas e Caripe, ma adesso i bocconi appaiono un po’ grossi.

L’operazione di salvataggio costa circa 3,6 miliardi, interamente a carico del sistema bancario (mentre azionisti e possessori di obbligazioni subordinate hanno perso il loro investimento) anche se azionisti e possessori, in maniera proporzionale attraverso il neonato Fondo di risoluzione nazionale, la cui liquidità è stata anticipata al 33% da Unicredit, Intesa e Ubi (non è una premessa ad una futura acquisizione, ma un prestito a prezzi di mercato). Questi 3,6 miliardi serviranno per 1,7 miliardi alla copertura delle perdite, 140 milioni per la bad bank (dove saranno trasferiti crediti difficili per 8 miliardi svalutati a 1,5 miliardi, con la prospettiva di un  parziale recupero attraverso la cessione a istituti specializzati) e 1,8 miliardi per la ricapitalizzazione delle nuove banche. Quelle che in futuro dovranno essere vendute anche per recuperare le risorse da restituire al Fondo. Novità del decreto, oltre all’utilizzo del Fondo, è però proprio il fatto che, attraverso la disposizione di successiva vendita, il tema delle aggregazioni diventa per la prima volta “obbligatorio”.

Lo stesso decreto sulle Popolari, che era stato giustificato con l’obiettivo di favorire le aggregazioni, in realtà ha solo cercato di scompaginarne l’assetto, imponendo la trasformazione in società per azioni per quelle con il maggiore attivo patrimoniale, senza imporre fusioni. E infatti, a parte l’unione, peraltro già avviata prima del decreto, tra Volksbank e Marostica che ha creato l’undicesimo istituto soggetto all’obbligo di futura trasformazione, di unioni non ne sono ancora viste. Anzi, paradossalmente proprio il decreto ha rallentato anche le trattative in corso già da anni, dato che la trasformazione in Spa crea anche una sorte di “semestre bianco”: diventa infatti difficile per un Cda destinato a modifiche anche radicali nel possibile cambio di maggioranza determinato dal passaggio da società cooperativa a società di capitali proporre operazioni che potrebbe non essere approvate da chi prenderà le redini dell’istituto dopo pochi mesi.

Per questa ragione è più che probabile che solo dopo la trasformazione in Spa – che finora ha effettuato solo Ubi e che Veneto Banca prevede questo mese – gli istituti potranno veramente procedere nelle aggregazioni. Ma oltre ad unioni tra di loro adesso c’è anche da risolvere la vendita dei quattro istituti. Il decreto a dire il vero non stabilisce date precise, ma si limita a disporre la vendita “quando le condizioni di mercato sono adeguate”. Una premessa per un 2016 molto movimentato su questo fronte.

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