Terziario, Fusini: «Ecco i punti deboli della nuova classe imprenditoriale»

SedeAscom_x_Giornalidi Oscar Fusini*

Più nascite e meno cessazioni. Un mix virtuoso che ha fatto registrare al terziario bergamasco una vera e propria accelerazione nel secondo trimestre di quest’anno. A fronte delle 383 nuove aziende avviate nei comparti del commercio, del turismo e dei servizi si sono infatti registrate “solo” 248 chiusure, dando corpo a un saldo positivo che enfatizza una tendenza già visibile e affermata da alcuni mesi. L’evoluzione è confermata anche dall’Osservatorio del credito di Confcommercio, che ha registrato, nello stesso periodo, un aumento del fabbisogno di credito finalizzato a nuovi investimenti e alla costituzione di nuove imprese. L’aumento del numero degli esercizi rappresenta indubbiamente un indice positivo. Significa nuova linfa agli investimenti ma, soprattutto, nuovi posti di lavoro. Dobbiamo ringraziare anche l’Expo? Probabilmente sì, perché le scelte di aprire oggi sono state pianificate mesi fa dagli imprenditori, intersecando il clima di euforia generato dall’Esposizione universale. Certo, oggi ci dobbiamo chiedere, alla luce dell’andamento dei consumi negli ultimi due mesi, quale effettiva realtà, sul piano delle vendite, stiano affrontando queste nuove imprese. Ci preoccupano le reali prospettive che hanno davanti. Perché non è sufficiente la proverbiale solidità delle famiglie bergamasche, servono più di tutto soldi e tempo per sorreggere gli investimenti e portarli a regime.

Tornando ai numeri, c’è un primo dato da focalizzare ed è quantitativo. 383 nuove attività nel secondo trimestre – notoriamente non il migliore per un avviamento – fanno circa 1.500 nuovi negozi in un anno, circa il 7% del totale delle imprese del terziario orobico. Allo stesso modo, 248 chiusure nello stesso periodo, generalmente quello dove meno frequentemente si abbassano definitivamente le serrande, fanno 1.200/1.300 cessazioni in un anno, circa il 5,5% del totale (una su venti di quelle esistenti). Ne deriva che il turn-over nei settori del terziario resta altissimo, con una stabilità poco soddisfacente. Questo non significa solo un vano dispendio d’investimenti, ma anche di competenze. Le attività commerciali infatti non si cedono più o, comunque, ciò avviene in minima parte rispetto al passato. In altre parole, il mercato si è rarefatto, con una decrescente domanda e scarsità di capitali disponibili ad essere investiti nel commercio esistente. Oggi le attività si aprono per lo più ex novo. Assistiamo alla nascita di negozi che mettono radici in immobili nuovi o, in alternativa, in locali sfitti. Nel giro di una ventina d’anni s’è ribaltato un percorso che vedeva il subentro come un solido pilastro della continuità aziendale: due attività del commercio su tre, in passato, venivano difatti cedute tra familiari o vendute a terzi. Ora la percentuale s’è completamente capovolta: solo un’attività su tre è frutto di un subentro. Questo significa che nei settori del terziario si assiste spesso alla chiusura definitiva di negozi e all’apertura di nuove attività da parte di soggetti diversi, non collegati. Con le chiusure però si disperdono, più che in passato, preziose competenze, mentre chi decide di gettarsi nella mischia lo fa senza un avviamento, con il mercato da conquistare e privo di affiancamento sulla potenziale clientela lasciata “libera” da chi ha chiuso i battenti.

Oscar Fusini
Oscar Fusini

Cambia anche il profilo di chi parte. Storicamente, il commerciante era una persona tra i 30 e i 40 anni che coronava, con l’apertura, il suo sogno di lavorare in proprio dopo una discreta carriera come dipendente o come coadiuvante familiare. Oggi la percentuale di giovani che iniziano subito come imprenditore è cresciuta di molto, mentre si registrano anche numeri significativi di persone che si rimettono in gioco oltre i 50 anni. Esperienze di auto-imprenditorialità legate spesso a evidenti difficoltà a trovare valide alternative nel mondo del lavoro. È vero che questi nuovi imprenditori sono spesso portatori di maggiore scolarità, molti – anche nei settori tradizionali – sono addirittura laureati. In generale il nuovo imprenditore possiede il diploma di scuola media superiore. Inoltre, soprattutto nei giovani, c’è una maggiore conoscenza ed utilizzo dell’informatica e delle nuove tecnologie con una propensione maggiore all’innovazione. Vantaggi, questi, di non poco conto in un mondo in cui l’informazione e la vendita passano attraverso canali digitali. Dall’altra parte, però, è altrettanto vero che non possiamo tacere un fattore non secondario: il nuovo imprenditore spesso possiede qualche limite nelle competenze imprenditoriali e nella preparazione tecnica. Il tutto mentre il consumatore è diventato più informato, attento e in grado di selezionare. La platea dei nuovi imprenditori che si sta affermando, almeno nei numeri, si sta quindi profondamente mutando. È ancora più bisognosa, rispetto al passato, di formazione. Le associazioni, come la nostra, che ci piace definire un “corpo intermedio vivo”, devono pertanto rafforzare i programmi di formazione e di accompagnamento dei nuovi imprenditori. Formazione che dovrà abbracciare, accanto allo sviluppo delle competenze trasversali – su cui abbiamo puntato negli ultimi anni, come marketing, comunicazione e tecniche di vendita tanto per citarne alcune – anche percorsi di addestramento tecnico e di aggiornamento, che oggi non vengono più garantiti dalla successione nel negozio.

* direttore di Ascom Confcommercio Bergamo

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