«Tanta umiltà. Così si può capire il mondo del vino»

Fabrizio Sartorato
Fabrizio Sartorato

A sentirlo parlare sembrerebbe quasi che Fabrizio Sartorato, chef sommelier del tristellato Da Vittorio, a Brusaporto, abbia vissuto più di una vita. Non sono molti, infatti, i professionisti della sommellerie che possono vantare la sua esperienza e una tale miriade di aneddoti, alcuni dei quali incredibili, che potrebbero riempire più di un’esistenza, come il Gin tonic della Regina Elisabetta o quel favoloso Cognac del 1802, aperto nottetempo per dei clienti speciali. C’è chi, per molto meno, si sarebbe già montato la testa, ma non lui che, piedi ben piantati a terra, continua a lavorare sentendosi un vero “sommelier al servizio del vino”.

È una definizione che campeggia anche sul suo biglietto da visita. Cosa significa essere un “sommelier al servizio del vino”?

“Il vino è un alimento vivo per il quale ho grande rispetto, per questo mi metto al suo servizio. Per rendergli giusto merito, infatti, occorre scegliere il momento di massima espressione in cui aprirlo, la giusta temperatura di servizio e utilizzare tutta la ritualità del caso. Ogni vino è come un’opera unica, che merita attenzione e rispetto”.

Come riesce a intuire quando un vino è pronto, prima che intraprenda la sua fase discendente?

“L’esperienza maturata in vent’anni di lavoro è stata determinante per affinare questa sensibilità. E’ chiaro che, pragmaticamente, è necessario tenere monitorata la cantina in modo che le bottiglie di pregio non rischino di andare sprecate. E’ perfettamente inutile ed economicamente folle, infatti, avere una “cantina-museo” con centinaia di bottiglie storiche, che hanno sorpassato la curva del loro massimo. Il vino, non a caso, è un alimento vivo che come l’uomo invecchia. Quando questo accade, senza che sia stato aperto, l’errore è del sommelier che non ha saputo anticipare e capire i tempi di evoluzione di quella bottiglia”.

Come nasce la sua passione per il vino?

“Grazie a una bellissima esperienza fatta in Austria, presso il ristorante Altwienerhof di Vienna. Allora ero Chef de Rang e per gioco il sommelier del ristorante iniziò a farmi assaggiare dei vini. Ricordo che il mio primo bicchiere importante fu un Chateau La Tour, del quale non seppi dire altro se non “buono”. Durante quell’esperienza lavorativa ebbi modo di girare, per oltre due anni, le più importanti cantine dell’Austria, dove ho potuto conoscere i grandi Riesling, i Grüner Veltliner e i maglifici vini dolci. In seguito, nel 1999, tornato in Italia feci il primo corso da sommelier con l’AIS”.

Dunque una passione nata quasi per gioco che l’ha portata a lavorare in ristoranti di altissimo livello.

“E’ andata proprio così. Sono stato all’Hospiz Alm a Arlberg in Tirolo, uno tra i pochi Hotel Restaurant al mondo ad avere quasi esclusivamente una selezione di grandissimi formati, circa 900 pezzi, dai cinque litri in su. D’altra parte quel Restaurant, posto proprio sui campi da sci, era frequentato dal gotha di politici, potenti e grandi ricchi, tra cui – ricordo – anche la Principessa Diana e la Regina Elisabetta. Dopo meno di due anni mi sono trasferito in Francia, a Vonnas, per imparare la lingua, lavorando nel ristorante Georges Blanc, 3 stelle Michelin. E’ di quel periodo il mio diploma di Sommelier Conseil conseguito all’Università del Vino di Suze La Rousse, tra le più importanti al mondo. Successivamente mi sono trasferito a Londra con la mia compagna per continuare la mia formazione linguistica. Conoscevo bene, infatti, sia il tedesco che il francese, ma mi mancava l’inglese, quindi accettai di lavorare in un altro 3 Stelle Michelin, il The Waterside Inn a Bray”.

Qual è il ricordo più emozionante del periodo passato all’estero?

“Ce ne sono tanti, che è difficile sceglierne uno. Direi che tra i pranzi più importanti che ho seguito, c’è sicuramente quello per gli ottant’anni della Regina Elisabetta, al quale ha partecipato tutta la Royal Family. Ricordo che qualche mese prima il General Manager del Waterside Inn mi informò che, di lì a qualche mese, avremmo avuto un pranzo molto importante per il quale avremmo dovuto scegliere i migliori vini della cantina, senza alcun limite di spesa. Come aperitivo, per esempio, servimmo uno Champagne Pommery Louise 1989”.

Ricorda cos’ha bevuto la Regina?

“Ha pasteggiato a Gin tonic, come il Principe consorte, Filippo, che ha chiesto una caraffa di tonica a parte. Il pranzo fu servito in una saletta privata, collocata in un’ala distaccata del ristorante, con un vasto e rigoglioso giardino tutt’intorno”.

Dopo 12 anni passati all’estero, nel 2006, torna in Italia per diventare Chef Sommelier del tristellato Da Vittorio. Cos’ha imparato dalla famiglia Cerea?

“Molte cose, ma quello che li contraddistingue è l’estrema flessibilità, difficilmente trovata in egual misura all’estero. Se c’è un cliente che chiede una variazione sul menù o se fa ritardo, per esempio, si cerca in tutti i modi di accontentarlo. So per certo che se il cliente di un qualsiasi altro ristorante stellato francese, dovesse chiamare per chiedere di tenere aperta la cucina oltre l’ora prevista, si sentirebbe dire un deciso “mi dispiace, ma non è possibile”. Da Vittorio, al contrario, il cliente è considerato il padrone di casa”.

Qual è il vino del cuore della famiglia Cerea?

“Forse è il Rosso Faber, un vino fortemente voluto e pensato per radicare ancora di più i sentimenti e il lavoro della famiglia Cerea. Si tratta di un taglio bordolese ottenuto da Cabernet Sauvignon e Merlot coltivati nel vigneto che circonda il Relais, memoria di una tradizione agricola rivitalizzata grazie ai reimpianti realizzati con le tecniche più moderne”.

Quando gli Chef creano dei nuovi piatti, tutta la brigata viene coinvolta?

“Certamente, perché quando cambia il menù in base alla stagione tutto il gruppo di lavoro deve essere formato. Nella settimana del cambio menù, quindi, vengono fatti assaggiare tutti i piatti. Nel mio caso posso anche chiedere di fare degli assaggi durante le serate, per capire meglio un ingrediente o una cottura per abbinare il miglior vino possibile”.

Rispetto all’assegnazione delle Stelle Michelin, venite avvertiti dell’arrivo o dell’identità degli ispettori?

“No. Sappiamo che possono arrivare in qualunque momento, in genere due o tre volte all’anno, ma non sappiamo chi siano. In realtà Da Vittorio ogni cliente viene trattato con la stessa attenzione e cura, senza alcuna differenza di sorta. L’obiettivo è quello di far passare un bel momento al nostro ospite, chiunque egli sia”.

Dal momento che anche il servizio concorre all’attribuzione delle Stelle, le sente un po’ sue?

“No, non mi permetterei mai di dirlo. E’ chiaro che per l’attribuzione delle Stelle Michelin vi dev’essere alta uniformità qualitativa tra la location, la cucina e la sala. Ognuno fa la sua parte”.

La mettiamo alla prova. Ci propone tre piatti degli Chef Cerea in abbinamento a tre vini della vostra selezione?

“Certamente. Inizierei con un Cappuccino di spuma di patate con funghi porcini cacao e tartufo bianco, abbinato a un Terre di Franciacorta Chardonnay 2010 Az. Ag. Cà del Bosco. A seguire delle Linguine all’amatriciana di pesce con un Colli Tortonesi Timorasso “Fausto” 2011 Vigne Marina Coppi e come secondo di carne un Filetto di vitello piemontese alla Rossini con un Barolo Brunate 2006 Az. Vit. Ceretto”.

In vent’anni di carriera, di cui 12 anni passati all’estero, quali sono state le tre grandi emozioni enologiche?

“Ricordo che quando lavoravo da Georges Blanc ho aperto uno Chateau d’Yquem del 1937, considerato dalle guide di settore il vino “perfetto” da 20 punti su 20. Un noto giornalista svizzero di settore ebbe modo di dichiarare che, unica eccezione al mondo, avrebbe dato a quel vino 21 punti su 20, se avesse potuto. Ricordo che il profumo di bergamotto troneggiava elegantemente su tutti gli altri: quello Chateau d’Yquem era ancora un fanciullo dopo settant’anni! Un’altra esperienza rara l’ho vissuta al Waterside Inn di Londra, quando ho servito a tre arabi il vino più importante della mia vita, un La Tâche Grand Cru Romanée-Conti del 1978, l’annata più vecchia in carta. Ricordo che quando ho versato il primo sorso nel bicchiere, i profumi del vino si sono diffusi in tutta la sala. Non avevo mai sentito un vino con aromi terziari evoluti tanto intesi di tartufo, goudron, pelle e rum, da coprire una distanza di almeno quattro metri quadrati, tutt’intorno alla bottiglia. Non ultimo, Da Vittorio abbiamo, ancora per poco, un Cognac L’Heraud Grand Champagne 1802 a dir poco favoloso. Si tratta di una bottiglia di sei pezzi, forse rimasta l’unica al mondo. Il prezzo stimato per un bicchiere è di circa 1.000 euro”.

In quale occasione è stata aperta la bottiglia?

“Pochi anni fa, per un grandissimo estimatore di vini e distillati canadese. Già da tempo, infatti, stavamo aspettando la persona giusta a cui proporlo, perché sia io che la famiglia Cerea desideravamo che il primo assaggiatore fosse un vero esperto. L’occasione giusta è arrivata a fine cena, quando fui lui stesso a chiederci se era possibile aprire quella rarità. Erano le 2.30 del mattino quando scesi a prendere la bottiglia in cantina. Chiamai a raccolta tutta la famiglia Cerea per quell’evento, che fu straordinariamente emozionante per tutti noi. Quel Cognac era favoloso, con una persistenza di qualche ora in bocca, che tornava a più riprese con straordinaria eleganza. Ricordo perfettamente gli aromi della nocciola, che viravano verso la torrefazione e il pellame, per poi chiudersi in bocca con una potente speziatura che non finiva mai. Oggi di quel Cognac rimangono, forse, ancora un paio di bicchieri”.

Da ultimo, che consigli darebbe a un giovane sommelier?

“Di essere umile e di continuare a studiare. Mai sentirsi arrivati e cercare di trarre i migliori insegnamenti da tutti. Solo così si può iniziare a capire il mondo del vino”.

 

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