Nuove frontiere del commercio: un questionario sulle tecnologie digitali

L’iniziativa lanciata da un gruppo di studenti universitari magistrali della Bocconi per un progetto di ricerca rivolto proprio ai negozianti

In quale direzione sta andando il mondo del commercio? E quali sfide deve affrontare per dribblare la crisi che la pandemia ha scatenato? Domande a cui un gruppo di studenti universitari magistrali dell’università commerciale Luigi Bocconi vuole provare a dare risposta proponendo un progetto di ricerca rivolto proprio ai negozianti. Si tratta di un questionario di ricerca che vuole mappare le difficoltà che i commercianti hanno verso l’utilizzo, in modo efficiente, di tecnologie digitali e della competizione patita dai sistemi di compravendita online.
Nell’ultimo anno, a causa della pandemia e della crescita del commercio online, la Confcommercio ha infatti riportato che 70.000 negozi italiani erano a rischio di chiusura definitiva. In particolar modo, solamente nel primo bimestre 2021, gli acquisti presso la grande distribuzione e i piccoli commercianti si sono ridotti, rispettivamente, del 3,8% e 10,7%.  Il corretto utilizzo – e lo sviluppo – di piattaforme digitali potrebbe quindi portare ai piccoli commercianti benefici per resistere a tale competizione e a crescere nonostante le difficoltà portate dalla pandemia e tramite questo breve questionario l’obiettivo è capire meglio la relazione che i negozianti hanno con le tecnologie digitali e contribuire allo sviluppo e alla ricerca di soluzioni digitali appropriate.

I commercianti interessati sono invitati a compilare il questionario (il tempo richiesto per il completamento è inferiore ai 5 minuti) cliccando qui https://unibocconi.qualtrics.com/jfe/form/SV_da5oNfLvvQQeTI2


L’Università cresce, «ma ha bisogno di docenti e personale»

«Siamo un’Università in movimento, dinamica e, per usare un termine oggi molto in voga, “interattiva”». Così il rettore dell’Università degli Studi di Bergamo Remo Morzenti Pellegrini ha inquadrato il cammino dell’Ateneo cittadino aprendo il 49esimo anno accademico nell’aula magna di Sant’Agostino.

Una cerimonia che ha contaminato gli ambiti del sapere con l’intervento del professor Roberto Cingolani dell’Istituto italiano di tecnologia di Genova e la lectio magistralis del professor Gilles Pécout, Recteur de la Académie de Paris, Région académique Île-de-France, Chancelier des Universités de Paris, su “Le frontiere mediterranee dell’Europa nel lungo Ottocento”.

remo morzenti pellegrini rettore università di bergamoNumeri e progetti danno la dimensione dell’attività e delle prospettive dell’Università. Le matricole sono passate dalle poco più di 4.000 di dieci anni fa alle oltre 6.000 di quest’anno, con un ulteriore incremento rispetto all’anno scorso. Complessivamente gli studenti iscritti per l’anno accademico 2017-2018 sono oltre 18.000. «Una cifra imponente che nel prossimo futuro ci obbligherà inevitabilmente, con questo trend di crescita, a pensare a corsi con numero programmato di studenti per poter continuare a garantire un’elevata qualità dell’offerta formativa», ha annunciato il Rettore.

Oggi sono attivi 14 corsi di laurea triennali, 3 corsi di laurea magistrali a ciclo unico, 16 corsi di laurea magistrale, per un totale di 33 corsi di studio. Tra questi, 3 corsi di laurea magistrale e due curricula di altrettante lauree magistrali sono tenuti interamente in lingua inglese, a cui si aggiunge il corso di Laurea magistrale in lingua inglese in Medicina e chirurgia in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca, la University of Surrey e l’ASST Papa Giovanni XXIII e il corso di laurea in Scienze infermieristiche in collaborazione con Humanitas University.

«Per l’anno prossimo – ha proseguito Morzenti Pellegrini – abbiamo intenzione di presentare altre due proposte di attivazione di corsi di laurea magistrale: Filosofia e storia delle scienze naturali e umane ed Engineering and Management for Health in lingua inglese, così da migliorare sempre più l’interazione tra la didattica e le prospettive metodologiche e di ricerca già in atto nel nostro Ateneo».

Insieme agli studenti e ai corsi cresce la ricerca. La valutazione realizzata dall’Anvur ha evidenziato il raggiungimento di standard più elevati e sono state incrementate le risorse ai Dipartimenti e quelle relative agli assegni di ricerca, che da annuali sono diventati biennali, con un impegno di 1,7 milioni di euro.

A Bergamo, nell’anno accademico 2016-2017, hanno conseguito il titolo di Dottori di Ricerca 152 dottorandi e oltre 400 domande sono pervenute per il ciclo che si è da poco inaugurato. L’Ateneo può contare su 6 corsi di dottorato con sede amministrativa, di cui uno da quest’anno in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli, e uno con sede amministrativa all’Università di Pavia.

Sul fronte delle relazioni internazionali, nel 2017 sono stati stipulati 32 nuovi accordi di collaborazione, 67 docenti e ricercatori in entrata e 23 in uscita hanno usufruito di mobilità in base agli accordi bilaterali e di collaborazione culturale e scientifica.

Tra le novità c’è anche il programma, fra i primi in Italia, di “Doppia Carriera”, sviluppato insieme al Centro universitario sportivo con l’obiettivo di permettere di coniugare lo sport con lo studio agli studenti-atleti che svolgano riconosciuta attività agonistica a livello nazionale e internazionale.

Prosegue inoltre il potenziamento dell’organico. Nell’anno in corso sono stati varati bandi per il reclutamento complessivo su fondi di Ateneo di 18 ricercatori a tempo determinato, 27 professori associati, 17 professori ordinari. Sono stati poi banditi 5 posti per posizioni di personale tecnico amministrativo. A breve, ci sarà una nuova tornata interna di reclutamento di personale docente nella quale verrà previsto un piano straordinario di assunzione di giovani ricercatori.

«Dobbiamo però in ogni caso avere la possibilità di riequilibrare il prima possibile il nostro rapporto docenti/personale/studenti – l’appello del Rettore – che, ad oggi, è tra i più alti nel sistema universitario italiano: cioè, rispetto ad altri Atenei con lo stesso nostro numero di studenti, abbiamo circa il 30% in meno di docenti e di personale tecnico-amministrativo. Penso siate tutti d’accordo con me nel dichiarare che tutto ciò non è più sostenibile! Non lo è proprio in quella prospettiva di crescita e valorizzazione che deve essere la priorità del nostro Ateneo per gli anni a venire».

Sviluppo significa anche bisogno di spazi «Qualche mese fa abbiamo inaugurato la nuova sede di via Pignolo e via San Tomaso grazie alla collaborazione con il Comune e la Provincia di Bergamo e al fondamentale supporto di Regione Lombardia – ha ricordato Morzenti Pellegrini -; a breve, porteremo a termine i lavori nel campus di Ingegneria di Dalmine e, contemporaneamente, inizieranno i restauri del Chiostro minore di Sant’Agostino e delle facciate del Chiostro grande. I lavori di demolizione presso l’ex caserma Montelungo sono invece già in corso e siamo in attesa a breve del progetto definitivo. Sempre nei prossimi mesi, inoltre, tutte le cappelle di questa ex chiesa saranno interessate dai restauri che abbiamo ritenuto opportuno intraprendere: sono lavori particolarmente delicati e però assolutamente necessari per salvare le opere dal degrado a cui andrebbero incontro».

Quanto alla mission, all’approssimarsi del cinquantesimo di fondazione dell’Università di Bergamo, il Rettore ricorre al filosofo tedesco Wilhelm von Humboldt, che agli inizi dell’Ottocento ha riformato il sistema educativo prussiano e portato all’istituzione, nel 1810, dell’Università di Berlino, di cui ricorre il 250 esimo anniversario della nascita. «La sua idea di connettere educazione e ricerca, o meglio di educare attraverso la ricerca, nasceva con l’obiettivo di sviluppare una cultura civica illuminata guidata esclusivamente dalla ragione. Questo ideale di università appare oggi messo in crisi dal nuovo ruolo richiesto agli Atenei che, sul modello delle Università statunitensi, predilige percorsi formativi impostati sulla professionalizzazione anziché sulla ricerca “pura” e sull’educazione della persona. In realtà la richiesta sempre più urgente e sentita da parte non solo del mondo accademico, ma anche di quello civile ed economico, è di un’Università attrezzata per farsi carico di nuove idee capaci di educare i cittadini – educarli alla ricerca, educarli alla conoscenza, educarli alla professione – nell’ottica di un beneficio comune e condiviso per l’intera società».


Sindrome di Angelman, nasce a Bergamo il registro che aiuta ricerca e cura

Un registro nazionale dei pazienti italiani affetti dalla Sindrome di Angelman. Il progetto nasce all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo grazie ad una intensa collaborazione tra l’Associazione Angelman Onlus, con il presidente Luca Patelli, e la From – Fondazione di Ricerca dell’Ospedale di Bergamo, con il suo direttore operativo Eleonora Sfreddo.

È la prima iniziativa strutturata per portare alla luce il numero e le storie dei pazienti colpiti da questa malattia rara, mettere in rete le strategie di ricerca più aggiornate e, si spera il prima possibile, identificare nuovi approcci terapeutici.

L’obiettivo principale del Registro Italiano Angelman è raccogliere informazioni su bambini e adulti affetti da questa sindrome, con criteri standardizzati e omogenei rispetto a quelli adottati anche a livello internazionale. Il registro permetterà inoltre di raggiungere altri importanti risultati: migliorare la comprensione della storia naturale e l’impatto della sindrome di Angelman nel corso della vita, mettere a punto ulteriori studi e informare le famiglie dei malati sullo stato di avanzamento della ricerca con particolare riguardo alle nuove opzioni terapeutiche. L’iniziativa avrà una ricaduta importante anche a livello territoriale perché favorirà lo sviluppo di strutture dedicate allo studio di questa patologia.

«Non può esservi ricerca senza la raccolta di dati significativi nel numero e nella possibilità di essere analizzati – spiega Carlo Nicora, presidente di From e direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII -. Per questo la creazione di un data base è il primo e indispensabile passo per migliorare la conoscenza di questa malattia e per sostenere la ricerca di base, clinica ed epidemiologica».

Ideatore e promotore del Registro, il presidente dell’associazione bergamasca Angelman Onlus Luca Patelli sottolinea: «Siamo molto soddisfatti del concretizzarsi di questo progetto al quale lavoriamo da molto tempo. I nostri volontari, i benefattori e gli sponsor hanno contribuito in maniera decisiva e per questo li voglio ringraziare. Disporre di questi dati è fondamentale per ricercatori e medici impegnati nella messa a punto di future terapie: maggiori saranno i dettagli a disposizione, maggiore sarà la probabilità di arrivare a una ricerca clinica di successo che è il desiderio di tutti noi familiari».

registro italiano angelmanIl registro sarà attivato a febbraio 2018. Potranno accedervi liberamente tutti i genitori / care givers di bambini o adulti con diagnosi, anche solo clinica, di sindrome di Angelman (nel 5-26% dei pazienti non è stato infatti identificato il difetto genetico), residenti nel territorio italiano. Per facilitare l’accesso da parte delle famiglie, il registro sarà creato con un database innovativo che permetterà alle stesse di inserire i dati del proprio malato.

«Per registrarsi – spiega Pier Luigi Carriero, project manager del Registro Italiano Angelman – ai familiari basterà accedere al sito internet dedicato, accreditarsi, firmare il consenso informato e, ottenuta la password, compilare i diversi moduli del questionario. Si tratta di una procedura che potrà essere eseguita in autonomia. Sono stati previsti supporti diversi per assistere le famiglie in ogni fase della registrazione. I dati saranno poi da noi validati e verificati per garantire a pieno la correttezza dell’inserimento».

Rispetto ai registri “tradizionali” generati da ricercatori o istituzioni cliniche/di ricerca, questo tipo di registro presenta due benefici: garantisce un maggiore livello di partecipazione (i pazienti sono più inclini a condividere dati e informazioni se mantengono un ruolo attivo e ricevono riscontri periodici dal registro) e offre più possibilità di garantire risorse per il suo sviluppo e il suo mantenimento a lungo termine (le organizzazioni dei pazienti sono motivate a raccogliere fondi e destinare risorse al registro se lo strumento rimane sotto la loro responsabilità e serve agli scopi e ai bisogni della loro comunità).

«A garanzia della tutela dei dati dei pazienti e della correttezza procedurale, le attività del registro saranno controllate da un comitato scientifico – afferma Tiziano Barbui, direttore scientifico di From -. I dati resi disponibili dai pazienti saranno depositati nel database tramite una procedura che tutela la privacy e la sicurezza secondo i criteri più rigorosi».

Il progetto avrà un respiro internazionale. La preziosa collaborazione con il professor Ype Elgersma e con la dottoressa Marie-Claire de Wit dell’Erasmus Medical Center (EMC) di Rotterdam, centro leader a livello europeo per lo studio e la cura di questa patologia, testimonia il valore scientifico del progetto.

La sindrome di Angelman è una malattia neurologica rara di origine genetica, caratterizzata da un serio ritardo cognitivo, problemi motori e assenza di linguaggio verbale. Attualmente non esiste una fotografia completa e dettagliata su quanti siano questi malati in Italia e sulle loro condizioni cliniche. Stando alla prevalenza – cioè al suo manifestarsi in un caso ogni 15mila nati – in Italia si stimano fra i 20 e i 40 nuovi casi l’anno.

L’accordo fra Associazione Angelman e From è stato stipulato nel mese di agosto. Entro la fine di quest’anno sono in cantiere iniziative di comunicazione per informare e coinvolgere le famiglie dei malati e di raccolta fondi per sostenere il progetto anche grazie al contributo di altri soggetti, pubblici e privati.

Tutti possono sostenere il progetto, facendo una donazione tramite bonifico bancario con causale “Registro Italiano Angelman” a Associazione Angelman onlus IBAN IT 31 W 05216 54910 000000008000 o a From – Fondazione di ricerca dell’Ospedale di Bergamo IBAN IT73E0335901600100000009519.


Giovani in alpeggio per migliorare la convivenza con orsi e lupi. Ecco com’è andata

Un’estate di volontariato verde, per mettere in contatto – pacifico – uomo, natura e grandi predatori. Si è conclusa l’iniziativa che ha visto 31 ragazzi e 5 pastori collaborare nel nome della tutela ambientale con il progetto Pasturs, messo in campo da Cooperativa Eliante Onlus, con la partnership di Parco delle Orobie bergamasche e WWF Bergamo – Brescia, in collaborazione con Coldiretti Bergamo e con il contributo di Fondazione Cariplo.

Un progetto che, con l’obiettivo di ridurre i rischi conseguenti alla presenza dei grandi predatori sulle Orobie, ha coinvolto oltre 40 persone (su 200 che ne avevano fatto richiesta), mettendole al dal 13 giugno all’8 settembre al servizio delle Orobie. Renato Balduzzi in Alpe Cardeto, Silvestro Maroni in Alpe Vodala, Giuseppe Salvi in Alpe Venano, Andrea Morelli in Alpe Manina ed Emanuele Manzoni in Alpe Monte Fioraro, sono i cinque allevatori che hanno accolto i volontari, facendosi aiutare nel lavoro quotidiano: spostare e montare le reti elettrificate, sorvegliare il gregge, fare la legna e accendere il fuoco, cucinare, fare il fieno e mungere i bovini. Ma anche: sistemare le pozze di abbeverata del bestiame, supportare gli allevatori nella transumanza e nel carico del bestiame sui camion, tagliare le ortiche, sistemare i sentieri, dare da mangiare agli agnelli e molto altro ancora.

«È stato emozionante uscire dalla vita quotidiana per tuffarsi in un mondo tradizionale, eppure, “nuovo” agli occhi di molti di noi – ha dichiarato Alessio Pacati, 21 anni di Treviolo, studente dell’Università della Montagna di Edolo –, è essenziale sapersi adattare: agli orari di lavoro molto lunghi e alle condizioni metereologiche che in montagna, più che mai, sono davvero determinanti, ma è un’esperienza che consiglierei a chiunque!».

«Il segreto è la passione: i pastori, che fin da subito si sono mostrati cordiali nei miei confronti, lavorano giorno dopo giorno proprio grazie alla passione. Mi hanno insegnato molte cose sul loro mestiere, dimostrando cura e attenzione nei confronti degli animali e disponibilità a confrontarsi con la mia “visione da universitaria”, studiosa di allevamenti, facendomi finanche ricredere su alcuni aspetti legati al benessere animale», ha commentato invece Nadia Rizzi, 25 anni, studentessa di Scienze e tecnologie delle produzioni animali presso la facoltà di Veterinaria di Milano.

Il progetto, infatti, ha permesso di realizzare un reale avvicinamento tra città e montagna, con gli universitari interessati a conoscere da vicino un mondo diverso da quello quotidiano, proponendo ai pastori domande, dubbi e curiosità sul loro lavoro, e i pastori, dal canto loro, contenti della compagnia giovane e interessata, con cui condividere le tante e impegnative attività, scambiando, al tempo stesso, piacevoli chiacchierate.

Un’esperienza resa possibile dalla volontà e collaborazione di Cooperativa Eliante, Parco delle Orobie bergamasche, WWF Bergamo-Brescia e Coldiretti Bergamo di ridurre il rischio derivante dal ritorno dei grandi carnivori sulle Alpi Orobie bergamasche, favorendo lo sviluppo sostenibile delle comunità locali, e, al tempo stesso, mantenendo gli attuali livelli di biodiversità naturale, grazie anche all’impiego di recinzioni elettrificate e cani da guardiania. In controtendenza in un periodo in cui il conflitto e la strumentalizzazione in materia di predatori sembrano prevalere, il progetto Pasturs si fa così portatore di un segnale opposto di convivenza possibile e pacifica.
Grazie al prezioso contributo dei volontari, il progetto è infatti riuscito a facilitare l’adattamento dei pastori all’arrivo dei grandi carnivori, con il risultato collaterale di far incontrare il mondo della pastorizia e quello ambientalista / cittadino: se da un lato, infatti, i volontari hanno apportato al mondo dell’allevamento competenze specifiche e buone pratiche in tema di conservazione degli ecosistemi, dall’altro, i pastori hanno messo in campo esperienza pratica e conoscenza del territorio.

In particolare, a prendere parte al progetto come volontari, sono stati: Nunzia Moretti, Elisabetta Mauri, Mario Cornaro, Andrea Piscopello, Francesca Patania da Siena (dedicherà la sua tesi di laurea proprio ai pastori abruzzesi del progetto), Camilla Tortosa, Beatrice Longhi, Nicole Gargantini e Silvia Grossi, studentesse di Allevamento e Benessere Animale, Alessio Pacati, 21 anni, studente dell’Università della Montagna di Edolo, Nadia Rizzi, 25 anni, studentessa presso la facoltà di Veterinaria di Milano, Flavio Rossi, Elisa Signorini di Parma, Gloria Patamia di Lugano, Michela Albano, arrivata dalla Sicilia, Amirah Al Jawazneh, studente del corso di laurea in Allevamento e Benessere Animale, Eric Carminati, Cynthia Guerra, Chiara Bertuletti, Elide Aldeni, Marta Ferrari, 22 anni, studentessa di ingegneria ambientale, Adriano Caccia, 34 anni di Milano, del progetto di “montagna terapia” per disabili, Valerio Di Feo, Silvia De Gaetano, Rosita Bertocchi, Marina Poletti, Elio Speziale, Alessandro Trivella.

In totale, grazie anche alla loro collaborazione, sono stati portati in alpeggio 4.800 ovini, 105 caprini, 150 bovini, 26 equini (asini e cavalli), realizzati 5 recinti a prova di orso e lupo e consegnati 3 cuccioli di Pastore abruzzese in collaborazione con il Circolo del Pastore Maremmano Abruzzese (C.P.M.A.).

Un’esperienza che tornerà a giugno 2017 e a cui sarà possibile candidarsi da gennaio 2017 rivolgendosi a pasturs@wwfbergamo.it – www.pasturs.org

 


Lotta alle aflatossine, Bergamo in prima fila nella ricerca

Crea Bergamo - rit

Aflatossine. Il termine è tecnico, ma gli allarmi per la sicurezza alimentare che si sono via via succeduti negli anni – l’ultimo quello per il latte contaminato che ha portato al sequestro di migliaia di formaggi partendo dal Bresciano – lo hanno reso suo malgrado familiare ai consumatori. Si tratta di micotossine, sintetizzate cioè da funghi o muffe, che si sviluppano prevalentemente nei cereali e nella frutta secca, sia in fase di coltivazione sia durante il raccolto e l’immagazzinamento. Alcune di queste hanno alta potenzialità cancerogena e si ritrovano, trasformate ma ancora pericolose, nel latte degli animali alimentati con i cereali contaminati. Sono molto resistenti e, una volta sviluppate, non c’è modo di eliminarle. La strada per contrastarne l’arrivo in tavola è perciò quella dei controlli e della verifica che i prodotti agricoli e il latte rientrino nei limiti consentiti dall’Unione europea per l’immissione sul mercato.

La Bergamasca, terra di mais, vive il problema, ma può contare anche su una struttura specializzata come il Crea – Unità di ricerca per la Maiscoltura, con sede a Bergamo, che dedica una parte della propria attività alle micotossine, coordinando l’Osservatorio Territoriale della Qualità del Mais, la rete che in Italia tiene monitorato il problema e studia soluzioni. Ad occuparsene è Sabrina Locatelli, ricercatrice del Crea di Bergamo e responsabile della Rete di monitoraggio micotossine mais, ed è a lei che ci siamo rivolti per fare il punto sulla situazione e i passi avanti nella lotta alle contaminazioni.

Che ruolo ha il Crea di Bergamo nella ricerca sulle micotossine?

«Nel corso degli anni il Crea ha posto particolare attenzione alla valutazione della contaminazione delle principali micotossine nel mais. Al fine di ottenere risultati il più possibile aderenti alla realtà della produzione maidicola italiana, si è scelto di utilizzare gli impianti di essiccazione-stoccaggio quale sorgente dei campioni da analizzare: dal 1999, il Crea coordina il campionamento da una rete di 50-70 impianti, stabile negli anni di indagine. Da ciascun centro di stoccaggio vengono prelevati mediamente 8-12 campioni contrassegnati con un codice identificativo anche dell’anno e della zona agraria di provenienza. Le serie complete dei campioni relativi alle produzioni delle singole campagne maidicole sono stati analizzati con metodo Elisa, presso i laboratori del Crea per le principali micotossine».

Non vi occupate, quindi solo di aflatossine. Quali altre micotossine del mais vengono studiate?

«Il mais è una coltura fondamentale in Italia, dove svolge un ruolo importante per l’alimentazione animale, il consumo umano diretto e come fonte di molti prodotti commerciali. È soggetto all’attacco di funghi tossigeni, in grado cioè di produrre micotossine pericolose per la salute sia dell’uomo che degli animali. Fusarium graminearum, F. verticillioides e Aspergillus flavus sono i funghi responsabili della presenza delle tossine più diffuse, rispettivamente deossinivalenolo (DON) e zearalenone (ZEA), fumonisine (FBs) e aflatossine (AFs). La presenza dei diversi funghi e delle relative micotossine è variabile con gli ambienti e gli anni; infatti, il loro sviluppo e il conseguente accumulo di sostanze tossiche a carico delle cariossidi è fortemente condizionato da fattori climatici (temperatura, umidità); fattori biotici (attacchi di insetti, ad esempio la piralide); fattori abiotici (grandine, danni meccanici) e condizioni di stress della pianta in campo (siccità, carenze nutrizionali). I nostri studi sono quindi rivolti a monitorare le quattro micotossine principali».

Come si stanno “combattendo”?

«Attualmente, il Crea di Bergamo coordina e opera nell’ambito del progetto triennale RQC-Mais (Rete Qualità Cereali plus – Mais), finanziato dal ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali per individuare una linea strategica di intervento per regolamentare il mercato dei prodotti agroalimentari. Prerequisito indispensabile per la qualificazione e valorizzazione della filiera maidicola è la sicurezza igienico-sanitaria, con particolare attenzione alla contaminazione da micotossine. Obiettivo generale del progetto è la valutazione della qualità del mais a livello nazionale al fine di sviluppare un piano per il miglioramento della qualità igienico sanitaria della filiera mais, con conseguente recupero e accrescimento della competitività della zootecnia nazionale e dell’industria alimentare. Nell’ambito di questo progetto, oltre al Crea di Bergamo, operano i gruppi di ricerca del professor Amedeo Reyneri (Università di Torino – Disafa Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari) e della professoressa Paola Battilani (Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza – Istituto di Entomologia e Patologia Vegetale).

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State monitorando i dati dal 1999, che evoluzione ha avuto la presenza di aflatossine?

«I dati relativi al contenuto di aflatossina B1 derivanti dai campioni di mais delle sperimentazioni condotte dal Crea confermano quanto riportato dagli operatori del settore (agricoltori, essiccatori, stoccatori, mangimisti): nel 2003, 2012 e 2015 circa il 20% dei campioni da noi analizzati risultano avere un livello di aflatossina B1 superiore ai 20 μg/kg (valore limite per il mais destinato a materia prima nei mangimi). Il problema di una maggiore contaminazione da aflatossine è sicuramente da attribuire alle elevate e prolungate alte temperature durante le fasi di sviluppo della pianta di mais, nonché alla mancanza di pioggia nelle zone non irrigue (Veneto, Emilia Romagna), condizioni climatiche che si sono verificate nel corso di quegli anni».

Negli anni sono state messe in atto misure efficaci in grado di contenere le contaminazioni? Quali?

«La sempre maggior consapevolezza della problematica “micotossine” da parte del mondo agricolo ha reso pratica consolidata la diffusione di tecniche agronomiche volte a ridurre o limitare le possibili condizioni favorevoli allo sviluppo di funghi micotossigeni. Anticipare le semine, controllare la piralide, evitare stress idrici, effettuare raccolte tempestive sono alcune delle pratiche che contribuiscono all’ottenimento di una granella di mais di qualità. Tenendo comunque sempre presente che le contaminazioni da micotossine sono fortemente influenzate dalle condizioni climatiche di temperatura e umidità della stagione vegetativa, non è possibile prescindere da percorsi agronomici attenti e mirati per ottenere produzioni di qualità. Peraltro, un valido supporto per valutare l’effettiva qualità “sanitaria” della granella rispetto alla presenza di micotossine rimane l’analisi chimica strumentale. A questo riguardo, sono di imminente uscita le Linee Guida per il controllo delle micotossine nei cereali, messe a punto dal Mipaaf assieme alle Regioni. Queste sono uno strumento pensato per i responsabili dell’attuazione delle politiche agricole e per gli operatori delle filiere. In sintesi, evidenziano le misure e i percorsi produttivi atti a ridurre la probabilità di incorrere in elevate contaminazioni da micotossine sia per il mais che per i cereali vernini, nelle fasi di campo e di post raccolta».

La ricerca sta però facendo passi avanti. Tra questi c’è anche il nuovo prodotto Af-X1, di cosa si tratta?

«Il prodotto commerciale AF-X1, sviluppato dalla professoressa Paola Battilani e dal suo gruppo di ricerca dell’Università Cattolica di Piacenza, consiste in un vettore inerte (semi di sorgo devitalizzati) su cui è stato inoculato il fungo atossigeno. La distribuzione in campo di ceppi di Aspergillus flavus non tossigeni occupando la stessa nicchia ecologica dei ceppi di A. flavus tossigeni e competendo con essi, ne riduce la frequenza, limitando i livelli di aflatossine nella granella. La lotta biologica basata sulla competizione tra funghi della medesima specie ha dimostrato di essere efficace nel prevenire le contaminazioni da aflatossina nel mais. I risultati di una sperimentazione svolta al Nord Italia confermano questa ipotesi».

L’aumento delle temperature è una minaccia?

«I dati dei monitoraggi da noi condotti confermano il fatto che la granella di mais prodotta nella Pianura Padana è regolarmente contaminata da fumonisine in quantità variabile a seconda dell’andamento climatico stagionale; peraltro, a questa micotossina, nelle annate particolarmente calde e siccitose, come ad esempio il 2012 e 2015, si aggiungono le aflatossine mentre, nelle annate molto fresche e piovose, come il 2014, il deossinivalenolo e lo zearalenone. Per questo motivo, la possibile presenza di micotossine in mais non può più essere affrontata con una logica di emergenza ma deve essere compresa nei normali protocolli di produzione e lavorazione. La strategia migliore resta quindi la prevenzione, attuata mediante l’utilizzo di buone pratiche agronomiche e di condizioni ottimali per lo stoccaggio. In questo contesto, rimane comunque fondamentale l’attività di monitoraggio delle produzioni, che consente di verificare il livello di contaminazione nelle diverse annate ed eventualmente rivelare la presenza di nuove micotossine emergenti».


La raccolta fondi fa centro. Da Bergamo a Rotterdam per studiare la Sindrome di Angelman

L’Associazione Angelman Onlus, nell’ambito di un accordo di collaborazione siglato con la Fondazione di Ricerca Ospedale Maggiore di Bergamo (From), ha “adottato” una ricercatrice e finanzia uno studio sulla Sindrome di Angelman.

La borsa di studio durerà 4 anni e consentirà a Monica Sonzogni, giovane biologa molecolare bergamasca, di lavorare all’Erasmus MC di Rotterdam, uno dei centri europei di ricerca più all’avanguardia per questa malattia rara. Di Sedrina, grazie al suo curriculum – segnalato dall’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – è stata scelta fra una decina di giovani ricercatori italiani dal direttore del centro di ricerca olandese, il professor Ype Elgersma, dopo una dura selezione.

La copertura finanziaria è di 30.000 euro l’anno (120mila euro in totale), interamente a carico dell’Associazione Angelman. La From coordinerà il progetto, in linea con uno dei suoi obiettivi: occuparsi di malattie rare.

«I pazienti con malattie rare – ha spiegato il presidente From e direttore generale del Papa Giovanni XXIII Carlo Nicora nel corso della presentazione all’Ospedale Papa Giovanni – corrono il rischio di ricevere cure inadeguate, perché le loro malattie sono poco conosciute e poco studiate, quando non addirittura misconosciute. Ma se mettiamo insieme tutti i malati rari sono una popolazione grandissima e il problema diventa di sanità pubblica. È molto bello che ci sia un progetto come questo. Quattro anni permetteranno alla ricercatrice di costruire un percorso di conoscenza di questa malattia e magari di arrivare a una cura che è quello che questi bambini e le loro famiglie stanno aspettando. Senza la ricerca non c’è buona cura ma senza buona cura non c’è ricerca».

«L’attività nei confronti dei bambini rientra nelle priorità del nostro Ospedale – ha sottolineato il direttore sanitario Laura Chiappa -. Siamo felici di essere stati in grado di dare risposta a questo progetto».

Il professor Tiziano Barbui, direttore scientifico di From, ha spiegato la nascita e l’importanza del progetto “Adotta un ricercatore”: «Adottare un ricercatore è un qualcosa che ti riempie di gioia, soprattutto se questo nasce da un dramma familiare. Siamo particolarmente contenti di avere questo rapporto con l’Università olandese. Noi stessi ospitiamo ricercatori olandesi che qui fanno ricerca clinica. È la formula vincente: lo scambio è l’unico modo per aumentare le conoscenze. Speriamo che questo progetto aiuti a seminare l’idea di “adottare” un ricercatore. Abbiamo molti giovani che sono in cerca di “adozione”».

Il progetto è nato su iniziativa dell’Associazione Angelman onlus, un’associazione di familiari creata nel 2012 a Credaro con due obiettivi: portare all’attenzione dell’opinione pubblica e delle case farmaceutiche la Sindrome di Angelman e in generale le malattie rare, e sostenere la ricerca genetica sulla Sindrome di Angelman, in modo da offrire ai malati e alle famiglie la speranza di valide terapie per una malattia invalidante che colpisce con forme diverse di ritardo psicomotorio tanti bambini e ragazzi nel mondo.

«Siamo orgogliosi e felici di poter avviare la ricerca e di vederla affidata a una giovane bergamasca. È il progetto che abbiamo perseguito fin dai primi passi dell’Associazione, tre anni fa, e che ora si realizza – ha detto il presidente Luca Patelli -. La partnership con From è molto importante perché garantisce una relazione ai massimi livelli con i centri di ricerca più importanti al mondo, agevola lo scambio di informazioni e apre la possibilità di nuove future iniziative. Ringrazio From per aver accettato con entusiasmo questa collaborazione, il Rotary Club di Treviglio e della Pianura Bergamasca per averci sostenuto fin dall’inizio e con loro tutte le associazioni, le aziende, i volontari e le persone che in questi tre anni ci hanno aiutato con l’obiettivo di trovare una cura per tanti bambini. Vorrei citarli uno a uno ma la lista è lunga. Credevamo che raccogliere fondi sarebbe stato un compito molto duro in anni difficili come questi; abbiamo invece trovato tanta solidarietà e sensibilità tra i bergamaschi e i bresciani».

La giovane ricercatrice ha iniziato a lavorare all’Erasmus di Rotterdam da qualche settimana: «L’Encore è un centro che unisce alla ricerca di base, l’attività clinica – ha spiegato Monica Sonzogni-. Sono molto orgogliosa di poter lavorare a questa ricerca, mi sta appassionando molto.  Nei prossimi anni il mio lavoro consisterà nell’approfondire le cause e gli effetti della mutazione responsabile della sindrome. La ricerca è secretata per la sua grande importanza scientifica. Posso solo dire che sono fiduciosa”.

Per sostenere l’iniziativa, un paio d’anni fa il Rotary Club di Treviglio e Pianura Bergamasca ha lanciato il progetto “Fai volare la ricerca”, raccogliendo circa 20mila euro per lo studio e la ricerca sulla Sindrome di Angelman. Il  club rotariano è da sempre sensibile alle necessità dei bambini che soffrono e che hanno bisogno di cure. «Proprio il nostro Club di Treviglio nel 1985 ha dato il via alla Campagna, divenuta poi mondiale, End Polio Now per la vaccinazione della popolazione mondiale infantile contro la poliomielite – ha ricordato Sergio Moroni, assistente del Governatore Distretto 2042 e responsabile di progetto per il Rotary Club di Treviglio -. Da allora l’incidenza della poliomielite è diminuita del 99%, da circa 350mila casi all’anno a 369 confermati nel 2013. Il presidente del Rotary International in questi giorni ha comunicato che è trascorso un intero anno senza registrare nuovi casi di poliovirus selvaggio in Nigeria. Si tratta del periodo più lungo  senza nuovi casi di polio nel Paese africano e rappresenta un passo essenziale per un’Africa libera dalla polio. Ora auspichiamo di replicare il successo di questa campagna nell’ambito delle malattie rare e di trovare una cura per i bambini Angelman».

LE MALATTIE RARE. UNA REALTÀ IN CRESCITA SPESSO DIMENTICATA

Una malattia è considerata rara quando colpisce non più di 5 persone ogni 10mila abitanti.
Il termine raro sminuisce una realtà che conta tra le 7 e le 8mila malattie; vi sono milioni di malati in Italia, decine di milioni in Europa, molti dei quali sono bambini e ragazzi.
L’etichetta “malattia rara” contribuisce anche a far sì che questi malati siano spesso dimenticati. Dimenticati dall’opinione pubblica, dalle politiche sanitarie, persino dalle case farmaceutiche, che difficilmente indirizzano la loro ricerca verso queste patologie e verso i cosidetti “farmaci orfani” (farmaci che potrebbero aiutare i malati rari ma che non vengono prodotti e distribuiti perché poco redditizi).
In accordo con le dichiarazioni della Comunità Europea del 1999, da circa 15 anni l’Italia ha iniziato a considerare le malattie rare come un settore prioritario nel campo della Sanità Pubblica, ma molto resta ancora da fare.

LA SINDROME DI ANGELMAN

La Sindrome di Angelman è una malattia neurogenetica per lo più non ereditaria; colpisce in Italia un bimbo ogni 12mila circa, si manifesta a pochi mesi dalla nascita e comporta gravi disabilità. I malati non parlano e hanno importanti problemi motori e cognitivi. Soffrono di epilessia, di iperattività e di gravi disturbi del sonno.
Attualmente non esiste un trattamento in grado di guarire questa malattia. La ricerca è però molto promettente. Negli ultimi quindici anni gli scienziati si sono concentrati nella ricerca di una terapia, individuando il gene responsabile della malattia, il gene UBE3A e questo porta a pensare che sia non solo possibile, ma anche probabile arrivare a una cura.

PERCHÉ IL CENTRO ERASMUS DI ROTTERDAM

Il Centro Erasmus Medical Center di Rotterdam è uno dei maggiori centri di ricerca al mondo, sede dei più importanti studi a livello europeo sulla Sindrome di Angelman. Attualmente è allo studio un farmaco che potrebbe avere importanti benefici sui sintomi della malattia. Questo farmaco potrebbe essere utile anche per il trattamento di alcune forme di autismo, che appaiono anch’esse  correlate a un difetto del gene UBE3A. La cura quindi avrebbe una portata molto ampia, dato il numero crescente di bimbi con diagnosi di autismo. Determinante il fattore tempo: è ipotizzabile che la terapia potrà essere tanto più efficace quanto più precocemente verrà somministrata ai malati.