Zuppe, due classici per le Feste

Le Feste sono qui ma c’è ancora chi non ha deciso cosa cucinare. Gli impegni sono tanti e trovare una ricetta che accontenti tutti è un’impresa quasi impossibile. Un piatto che può salvare è la zuppa. Sfiziosa, gustosa, facile da preparare, da qualche tempo è ritornata sulla tavola dei grandi chef come pietanza raffinata ed è di grande tendenza.

Le ricette sono infinite, da quelle classiche con le verdure, i legumi e i cereali come l’orzo e il farro, fino a quelle di pesce e carne o di tradizione orientale.

Per il menù di Natale o di capodanno noi vi proponiamo la zuppa di lenticchie e quella di pesce, perché sono buonissime e piacciono a (quasi) tutti. In pochi passaggi vi spieghiamo come realizzarle in modo impeccabile.

La Zuppa di lenticchie

zuppa-lenticchieLe lenticchie, simbolo di denaro e prosperità per l’anno in arrivo, sono un must nel menù delle Feste. La zuppa può essere proposta come primo piatto oppure come aperitivo: basta fare delle mini porzioni al bicchiere e il buffet sarà perfetto.

Si può scegliere tra le lenticchie grandi e quelle piccolissime, rosse, nere, verdi, ce n’è per tutti i gusti. Vista l’occasione importante, evitate le scorciatoie – pur utilissime – offerte dalle lenticchie già lessate e confezionate in barattoli che si trovano nei supermercati e dedicate al piatto un po’ di tempo e cura in più. Noi vi consigliamo le lenticchie di Castelluccio ma anche quelle di Altamaura e del Fucino sono buonissime.

Quale che sia la vostra scelta, ecco i procedimenti giusti per cucinarla.

L’ammollo

Le lenticchie hanno una buccia dura. Per ammorbidirle, il consiglio è di lasciarle in ammollo nell’acqua una notte intera. Questa operazione permetterà anche di eliminare le lenticchie non buone (le riconoscerete perché verranno a galla) ed eventuali impurità. Quando si mettono in ammollo aggiungere all’acqua un pezzetto di alga kombu, le lenticchie saranno più digeribili. Usata anche in cottura renderà la zuppa più saporita.

La cottura

Il giorno dopo, le lenticchie vanno lavate sotto acqua corrente e scolate molto bene. In una pentola di terracotta si fa un soffritto con un filo di olio, aglio, alloro e sedano e si aggiungono le lenticchie. Dopo pochi minuti si procede a bagnare con il brodo caldo facendo cuocere a fuoco basso per un’ora circa o comunque fino a che la cottura è perfetta e dalla zuppa emana un profumo intenso: alla vista la zuppa non deve apparire cremosa e le lenticchie devono essere integre. Quando è cotta va lasciata riposare per 10 minuti lontana dal fornello.

Attenzione a non salare subito l’acqua, perché il sale rende le lenticchie più dure. Il sale si aggiunge a pochi minuti dalla fine della cottura.

La presentazione

La zuppa si serve in ciotole di terracotta con extravergine d’oliva e delle fette di pane tostato. Attenzione: l’olio va aggiunto sempre a cottura ultimata e fornello spento. Se si è preparata la zuppa di lenticchie in anticipo, conviene prima riscaldarla, aggiungendo un mestolino di acqua, e condire solo dopo con sale ed olio.

L’abbinamento

Ideale un buon Frascati o il Malbec oppure una birra Ale.

La zuppa di pesce

zuppa-di-pesce-2Pur nella sua semplicità, la zuppa di pesce è uno dei piatti italiani più apprezzati nel mondo. Le ricette sono tantissime: c’è la versione toscana (cacciucco), quella adriatica (brodetto), quella delle regioni meridionali, quella ligure (buridda). Variano i nomi e le specie ittiche impiegate, ma il procedimento è più o meno lo stesso. Un mix di pesci di mare serviti su una fetta di pane imbevuta con salsa di pomodoro leggermente piccante e agliata. Per un’ottima zuppa di pesce occorrono aromi (aglio e peperoncino, anche in quantità moderata, sono assolutamente necessari), pomodoro e tante varietà di pesce: scorfano, gallinella, rana pescatrice, triglie, moscardini, seppie, gamberi, vongole e scampi. Il primo consiglio quando si è davanti al banco del pescivendolo è di non darsi alle spese pazze: il risultato della zuppa è eccellente anche con i cosiddetti pesci poveri.

La preparazione del pesce

Anche se il procedimento richiede più tempo, tutto il pesce va pulito, eviscerato e sfilettato. Se non si ha tempo o voglia, si può chiedere al pescivendolo di fare queste operazioni, ricordandosi però di farsi dare testa e lische. I molluschi vanno fatti aprire a parte, in una pentola senza condimenti. Poi si filtra l’acqua che rilasceranno e la si aggiunge al brodo, per arricchirne il sapore. Anche gli scarti scarti del pesce non vanno buttati ma utilizzati per preparare il brodo, che va passato e aggiunto poi al soffritto di cipolle, carote e sedano per far cuocere il pesce.

La cottura

La pentola perfetta per cucinare la zuppa di pesce è quella in coccio. Il pesce va cotto per pochi minuti e inserito nella zuppa in momenti diversi, mai insieme: prima quelli con carni più solide, poi quelli più teneri e delicati, per evitare che si sfaldino durante la cottura. Quindi, prima seppie e moscardini, dopo qualche minuto gallinella, scorfano e rana pescatrice. Poi triglie, molluschi e per ultimo crostacei. Basta avere pazienza e aggiungere il pesce in base ai tempi di cottura, per non ritrovarsi con un polpettone stracotto nel piatto (se siete al ristorante o ospiti da amici è il pesce è ridotto in poltiglia significa che la zuppa è stata riscaldata).
Lasciate cuocere il pesce nel suo vapore senza mai usare il mestolo. Fate attenzione a sfumare bene il vino, in modo che non resti un eccesso di acidità sul palato. Il soffritto si fa con aglio, carota, cipolla e sedano tritati con un filo d’olio extravergine.

La presentazione

Le zuppe si servono sempre calde con una spruzzata di prezzemolo fresco e del pane casereccio, anche raffermo. Per un sapore più deciso, dopo aver fatto scaldare il pane in forno lo si può sfregare con con dell’aglio. Per preparare i crostini si fa a pezzettini o listarelle il pane e si mette in forno per 10 minuti (si possono anche friggere ma la zuppa così diventa più calorica). Attenzione, il pane dev’essere abbrustolito molto bene per evitare che si spappoli subito a contatto con la parte liquida della zuppa. I crostini vanno posti sul fondo del piatto (come prevede la ricetta classica), in questo modo rendono la zuppa ancora più buona. Oppure serviti in una ciotola a parte.

L’abbinamento

Il vino ideale da abbinare alla zuppa di pesce è il Sauvignon. In alternativa una birra Porter o una Kolsch.

I segreti di una buona zuppa

Al di là delle singole ricette, ci sono consigli che valgono per tutte le zuppe. Perché – attenzione – la zuppa è un piatto semplice da cucinare, ma nasconde insidie ed è un attimo commettere errori che ne compromettono la bontà. Per realizzare una zuppa impeccabile basta seguire poche regole. Primo segreto il brodo, ma anche la selezione degli ingredienti è decisiva.

Fare il brodo in casa

Un brodo di buona qualità è il primo segreto e l’ingrediente indispensabile per fare una buona zuppa e senza dubbio quello fatto in casa è il migliore. A seconda degli ingredienti, si può preparare con la carne, con il pesce o con le verdure. In questo caso il consiglio è di arrostire prima per qualche minuto le verdure al forno, renderanno la zuppa più saporita.

Non introdurre tutti gli ingredienti nello stesso momento

Gli ingredienti di una zuppa richiedono diversi tempi di cottura. Le lenticchie, devono essere aggiunte all’inizio, mentre il pesce a seconda della varieta e consistenza.

Insaporire con le spezie

Utilizzando spezie, erbe aromatiche, concentrato di pomodoro si può ridurre la quantità di sale. Attenzione però a non esagerare con il piccante. Se avete messo troppe spezie, per attenuare l’eccesso di piccante, aggiungete una sostanza acida che ne annulli l’effetto come il limone, lo yogurt, l’ananas o l’aceto.

Non farla bollire

La zuppa non va fatta bollire, ma solo lentamente e cautamente sobbollire. Non è una pignoleria, solo con il controllo della temperatura si consente di rilasciare i sapori degli ingredienti, il che garantisce un ottimo risultato. Potete scegliere di lasciarla più liscia o renderla più corposa frullandone una parte a fine cottura.

Preparare brodo in abbondanza

Una zuppa troppo fitta è impresentabile. Cucinando una zuppa, gli ingredienti tenderanno ad assorbire il brodo, alcuni più di altri, quindi è consigliabile prepararne un po’ di più rispetto a quello preventivato.

zuppa-genericaSalare solo alla fine

Aspettate la fine della cottura, assaggiando prima e valutando il sapore. Se salate all’inizio della cottura, la zuppa risulterà troppo salata. Questo perché il brodo e gli altri ingredienti tendono a rilasciare i sali minerali e interpretano già il ruolo di “insaporitori”.

Attenzione alla temperatura dell’olio

Preparare gli ingredienti prima di aver messo l’olio in padella per evitare che l’olio si scaldi troppo. Se fuma significa che si è scaldato troppo con il risultato che avrà un sapore sgradevole e che può essere dannoso per la salute.

Il tocco finale

L’olio extravergine di oliva va sempre messo a freddo per completare il piatto.


Sulle tracce della trippa

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È una delle zuppe più tipiche e succulente della tradizione orobica. In brodo, in umido, con una spolverata di parmigiano o accompagnata da una fetta di polenta, la trippa è un gustoso misto di frattaglie, verdure e spezie che di recente sta tornando in voga sulle tavole di molti ristoranti. Piatto unico per eccellenza fin dai primi del Novecento, questa pietanza nel corso degli anni ha vissuto alterne fortune. Già, perché l’idea di mettere sotto i denti le viscere di un bovino di certo non piace a tutti. Se da un lato le vecchie generazioni non hanno mai smesso di apprezzarla, dall’altro c’è anche una folta schiera di giovani pronti a storcere il naso appena ne sentono pronunciare il nome.

Eppure, superato lo scetticismo iniziale, anche i più schizzinosi dopo il primo cucchiaio si convertono irreversibilmente al gusto tondo e confortante della trippa. Negli anni del boom economico questa minestra del quinto quarto è stata accantonata dai ristoratori orobici che la ritenevano troppo povera e di non facile preparazione nell’era frenetica del benessere. Da qualche tempo, però, la trippa è tornata timidamente a farsi viva, soprattutto in quei locali che hanno scelto di rispolverare le radici attraverso i piatti tipici della tradizione. Osterie valligiane, trattorie di città ma anche ristoranti stellati la propongono sempre più spesso, nel menù del giorno o da asporto, nei periodi più freddi dell’anno. Persino rinomati chef internazionali, come il britannico Gordon Ramsay e il suo omologo in “Cucine da incubo” Antonino Cannavacciuolo stanno cavalcando la crociata della trippa servita nelle sue molteplici varianti, da un ruspante panino fino a una più raffinata trippa di agnello con tempura di gamberi rossi. E così da piatto nazional-popolare di sagre e feste di paese, questa specialità d’altri tempi si è tramutata in un piatto intrigante, che mette d’accordo tutti, o quasi.

LA TRADIZIONE

trippa-la-ciotolaAll’inizio del Novecento erano soprattutto gli uomini che frequentavano le osterie di paese con cucina casalinga a richiedere la trippa. Nelle trattorie della Bergamasca erano ammessi solo clienti maschi e sposati che, dopo le nozze, erano soliti fare un salto al ristorante per ricevere una sorta di investitura assaggiando un cucchiaio di trippa. Le donne invece in osteria entravano soltanto per riempire la pentola e portare a casa il cibo.

Ancora oggi in tante case e ristoranti dell’alta Valle Brembana, la vigilia di Santa Lucia equivale al pentolone di trippa, la cosiddetta büsèca, che bolle sul fuoco dal primo pomeriggio. All’agriturismo Ferdy di Lenna, per esempio, questa specialità non manca mai in inverno. La preparano tagliata a pezzetti con piedino di vitello disossato, fagioli bianchi e pomodoro fresco. Può essere servita come minestra oppure come secondo piatto, accompagnata da un contorno di polenta bergamasca.

O SI AMA O SI ODIA

ol-giopi-e-la-margiLa trippa è una zuppa di verdure miste e frattaglie costituite dall’apparato digerente dei bovini, fra l’esofago e lo stomaco. Per questa ragione la sola descrizione la rende assai poco appetibile ed anche l’autorevolezza di molte buone forchette fatica a convincere ad un assaggio i più restii. Come spiega Alioscha Foglieni, co-titolare del ristorante Ol Giopì e la Margì di via Borgo Palazzo: «Noi serviamo la trippa da oltre vent’anni. Non la toglieremo mai dal menù perché amiamo valorizzare le tipicità bergamasche e la trippa fa parte dei sapori tradizionali della nostra cultura. La prepariamo con sedano, carote, cipolla, pomodoro, patate e fagioli. Per farla conoscere anche ai più scettici abbiamo pensato di proporla come antipasto all’interno di una selezione di cinque assaggini misti del nostro territorio. Così molti clienti dopo averla provata ne rimangono colpiti e ci chiedono di averla come piatto di portata. Anche i turisti la provano e la apprezzano».

BERGAMASCA, MA NON SOLO

Veneta, romana, toscana o genovese, quasi ogni regione e provincia ha la sua ricetta per la trippa. Si va dalla trippa di Brescia in brodo di verdure alla “busecca” alla milanese, passando attraverso la trippa calabrese “ara carvunara”, solo per citarne alcune. Paninozzi croccanti con lampredotto o fette di pane sciocco e trippa solleticavano i palati dei fiorentini già ai tempi di Lorenzo de’ Medici. In provincia di Torino c’è persino la Confraternita della trippa che vanta origini trecentesche. La versione originale della trippa alla Bergamasca è in brodo. Tuttavia ogni cuoco ha la sua ricetta. «Per una trippa perfetta – spiega Ferdinando Testa, titolare con la sorella Antonella del ristorante La Ciotola di viale Papa Giovanni – consiglio di utilizzare interiora di qualità e un mix di verdure di stagione e spezie. La cottura dev’essere lunga e lenta: servono circa tre ore. In generale più la trippa cuoce e meglio è. I nostri nonni dicevano che il giorno dopo è ancora più buona».

UN GUSTO INTERNAZIONALE

In antichità i greci cucinavano la trippa alla brace, i romani invece la utilizzavano per preparare salsicce. Ma anche oggi questa pietanza è presente nelle cucine tradizionali di tutto il mondo. Al nord della Francia, in Normandia, si fanno la Tripes à la mode de Caen o la Tripes en brochette de la Ferté-Macé mentre al sud c’è il Pieds et paquets, una gustosa specialità marsigliese. La trippa si trova anche in Romania, sia in umido (Chkémbè tchorba) che in brodo (Ciorba de burta), e in Medio Oriente (İşkembe). C’è poi il ristoratore bergamasco Venanzio Poloni che è riuscito a portare la trippa alla bergamasca fino a Medjugorie: apprezzatissima dai pellegrini, è diventata una delle pietanze di punta del suo Hotel Stella Maris insieme al capù di verze. Anche Ferdinando Testa conferma la propensione degli stranieri per questo piatto tipico: «Per molti anni la trippa era scomparsa dal nostro menù – evidenzia -. Il nostro è un locale di grande passaggio turistico e ci si era convinti che un piatto così non avrebbe funzionato. Di solito era più ricercato nelle trattorie tipiche bergamasche. Tuttavia da un anno a questa parte abbiamo deciso di rivoluzionare il nostro menù andando alla scoperta delle pietanze della tradizione, trippa compresa. È stato un successo – rivela -. A ordinarla sono soprattutto i clienti dai cinquant’anni in su che vanno alla ricerca dei sapori della loro infanzia, mentre i giovani restano molto scettici. La trippa è molto amata anche dagli stranieri, soprattutto da chi proviene dai Paesi nordici, inglesi ma anche dai francesi, che in fatto di zuppe la sanno lunga».

IN CUCINA

Ai fornelli ogni chef ha il suo stile nel preparare la trippa. Celebre è per esempio il foiolo del ristorante Lio Pellegrini di via San Tomaso accompagnato da una fetta di polenta grigliata. Rispetto ad altre preparazioni tradizionali, la ricetta di Giuliano Pellegrini è più leggera. Per iniziare niente aglio, pancetta o lardo ma solo olio d’oliva e due piccole cipolle anziché il mezzo chilo di un tempo. Anche la cottura cambia: due ore anziché quattro. Vincenzina Salvi, cuoca dell’albergo Centrale di Fino del Monte punta invece sul gusto delle verdure e degli aromi. Per quanto riguarda la carne, oltre allo stomaco della mucca, la cuoca mette il ginocchio di maiale per dare più sapore: «Una buona trippa dev’essere fresca. La carne va fatta bollire bene con una spruzzata di acqua e aceto. Poi metto in pentola a freddo tutti gli ingredienti. Con gli ortaggi di stagione e le erbe ci si può sbizzarrire. Personalmente metto di tutto tranne i piselli o le carote perché sono troppo dolci. Nella mia trippa c’è anche il ginocchio di maiale, un’aggiunta che nella ricetta originale non è prevista. Infine metto la passata di pomodoro, salvia, rosmarino, prezzemolo e alla fine regolo con il sale, ma senza esagerare perché più la zuppa bolle più diventa saporita. A tavola c’è chi la aggiusta la trippa con il pepe, il peperoncino, i crostini di pane o il parmigiano. Io consiglio di consumarla al naturale, senza formaggio perché rende la trippa più acida falsandone il sapore».

IL PIATTO DEL GIORNO

Per lo chef Walter Brembilla della trattoria “Come una volta” di Desenzano Albino preparare la trippa per i clienti è una gioia, come conferma la titolare Susi Assolari: «Da sei anni a questa parte abbiamo scelto ottobre come il mese della trippa. È un piatto molto particolare, non piace a tutti, quindi non lo teniamo nel menù tutto l’anno ma solo per un periodo limitato, sia a tavola che da asporto, in concomitanza con la festa della Beata Vergine del Miracolo della Gamba. Quando c’è, però, la ordinano in molti. Grazie al passaparola arrivano da noi parecchi clienti soltanto per assaggiare la trippa. Se qualcuno ce lo chiede con anticipo al momento della prenotazione, gli possiamo preparare la trippa su richiesta. Il nostro chef adora cucinarla anche se il procedimento è lento e lungo». All’albergo Centrale di Fino del Monte la trippa non manca mai, nemmeno nei mesi caldi: «Preparo trippa in umido tutti i giorni, estate e inverno – conferma la cuoca Vincenzina Salvi –. Qui da noi è sempre disponibile nel buffet e la si può mangiare a volontà. Piace moltissimo».

FRESCA O PRECOTTA

In lattine, tetrapak o bustone surgelate, tra gli scaffali del supermercato o nel banco frigo spuntano parecchie confezioni di trippa adatte a chi non ha tempo di mettersi ai fornelli. Bastano pochi minuti al microonde per ottenere una zuppa fumante come al ristorante. Metodi culinari rapidi che tuttavia piacciono poco a Fabio Magri, titolare della macelleria Magri di Chiuduno: «C’è stato un momento storico in Italia in cui abbiamo perso la tradizione delle nostre nonne e abbiamo optato per una cucina veloce. Si è progressivamente affermato un predominio della tecnologia alimentare di stampo industriale sui metodi più tradizionali. Per molti cucinare è diventato soprattutto l’atto di scaldare qualcosa di già pronto e surgelato. Con il cibo in scatola è un altro pianeta, ci sono troppi conservanti. Per fortuna da qualche tempo la gente sta ritornando alle radici, prestando più attenzione agli ingredienti sani».

I nomi e le preparazioni

trippa-per-box-nomiBUSECCA: dal tedesco Butze, è il nome lombardo, perlopiù milanese, usato anche in Bergamasca. Prevede l’utilizzo di tutti i tagli dei prestomaci, dello stomaco e perfino della prima parte dell’intestino (quello che i romani chiamano pajata).

CUFFIA: altro nome del reticolo, di forma globosa.

FOIOLO: (detto anche millefoglie o libro) identifica l’omaso, ovvero la parte che molti ritengono la migliore sia in cottura sia per il gusto delicato. I piatti che ne prevedono l’utilizzo esclusivo ne prendono il nome.

LAMPREDOTTO: nome fiorentino della trippa ricavata dall’abomaso, ovvero lo stomaco. È un tipico cibo da strada, ideale per farcire panini. Prende il nome dalla lampreda, un’anguilla primordiale di cui ricorda la forma e il colore.

RICCIA: è il nome più diffuso della trippa ricavata dalla parte più pregiata dell’abomaso (detto anche gala). È caratterizzata dalla presenza di creste violacee che conferiscono alla trippa un sapore più intenso.

Qualche indirizzo dove gustarla

In città: La Ciotola (viale Papa Giovanni) – tutto l’anno; Ol Giopì e la Margì (via Borgo Palazzo) – tutto l’anno; Trattoria Lozza (via Madonna del Bosco) – da ottobre a febbraio.

In provincia: Trattoria Moro da Gigi (Desenzano di Albino) – da ottobre a maggio nel menù del giorno e da asporto; Trattoria Come una volta (Desenzano di Albino) – nel mese di ottobre in occasione della festa della Madonna della Gamba e su prenotazione durante l’anno; Hosteria del Vapore (Carobbio degli Angeli) – piatto del giorno da settembre a marzo; Antica Locanda (Clusone) – una volta al mese come piatto del giorno; Albergo Centrale (Fino del Monte) – tutti i giorni dell’anno; agriturismo Ferdy (Lenna) – nei periodi freddi e in occasione di Santa Lucia; Al Platano da Gira (Foresto Sparso) – piatto del giorno nei periodi più freddi dell’anno; Polisena “L’altro agriturismo” (Pontida) – nel menù autunnale; Albergo ristorante Da Gianni (Zogno) – serate a tema nel mese di novembre.

Le sagre: Festa della trippa di San Pellegrino (Santa Croce) – settembre; Sagra del Casoncello d’autunno a Strozza, con sfida tra casoncello, trippa e pizzoccheri – metà ottobre.

 


Prodotti locali e un nuovo raviolo, il Convivium celebra la Val Brembana

Più di trenta chicche. Formaggi soprattutto, di cui la Valle è prezioso scrigno, ma anche salumi, verdure, confetture, succhi di frutta, pane, zafferano, tartufi, birra e persino latte d’asina. Prodotti spesso realizzati da piccole aziende che con coraggio resistono nel difficile contesto della montagna.

Li ha riuniti in una serata denominata “Convivium – Eccellenze della Valle Brembana”  lo chef Andrew Regazzoni, che nell’occasione ha anche presentato ufficialmente un nuovo piatto omaggio al territorio, il “Capel de Monega” (Cappello di monaca), un raviolo che nella forma ricorda il copricapo di alcuni ordini religiosi e che nel ripieno raccoglie produzioni locali – patate, barbabietole, formaggio di monte stagionato e burro di malga -.

L’iniziativa, lo scorso venerdì 25 novembre all’albergo Papa di San Pellegrino, realizzata in collaborazione con le aziende e gli chef brembani, ha fatto assaggiare le diverse specialità gastronomiche in versione finger food e poi il piatto forte, il Capel de Monega, seguito da “Sella di coniglio bardata al tartufo con bresaola orobica sfumata alla birra di Via Priula”, polenta “Nostrano orobico”, patate della Ca’ Al del Mans al latte d’asina e Formai de Mut, per chiudere con il panettone alle mele della Val Brembana.

Il Capel de Monega è stato creato nei primi anni novanta da Ludovico Pozzi, l’amico e collega Regazzoni ha scelto di valorizzarlo registrando all’Ufficio brevetti e marchi della Camera di Commercio di Bergamo nome, forma e ingredienti del piatto, corredandolo di tabella nutrizionale, curata dal nutrizionista Vito Traversa, e di un’immagine firmata dall’illustratore Stefano Torriani. L’operazione si è realizzata grazie anche al sostegno della Comunità Montana valle Brembana e degli Operatori turistici di San Pellegrino Terme. «La scelta di tutelarlo con un marchio non è legata a fini commerciali – precisa Regazzoni -, ma alla volontà di fissare in maniera precisa come è fatto e come è nato. Questo progetto serve ad affermare che in Val Brembana ci sono prodotti di eccellenza ma anche idee, professionalità e determinazione per farli apprezzare. Un modo per dare una mano al territorio con ciò che noi cuochi sappiamo fare».

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Grigliate, ecco che pesci pigliare

Dici grigliata ed è subito festa, estate, famiglia e amici. In riva al lago o nel relax di una giornata in montagna, sotto l’ombra di un albero e la sensazione del prato fresco sotto i piedi, la grigliata è la ricetta ideale per “colorare” le vacanze o il tempo libero.

I pregi di questo piatto sono tanti. È il metodo forse più tradizionale di cottura e – a patto di seguire le regole basilari – mantiene intatti il sapore e le proprietà nutritive del cibo. E poi è un modo semplice e veloce di preparare le pietanze. Si cucina e si mangia in compagnia e si mettono d’accordo gusti diversi perché si possono usare più varietà per un’unica preparazione.

In genere si tende a usare la carne. Cuocere una costina è più semplice che cucinare alla griglia una sardina e il rischio bruciatura meno probabile. Ma la cottura alla griglia, in realtà, non è molto difficile ed è perfetta per molti tipi di pesce. L’effetto chic, poi, è assicurato. Secondo gli esperti, per realizzare una grigliata di pesce a prova di cuoco ed evitare di ritrovarsi con pesci secchi, bruciacchiati e inermi sotto una fetta di limone, basta seguire alcuni accorgimenti: scegliere bene il pesce, cuocerlo poco, e cercare abbinamenti nuovi.

QUALI PESCI SCEGLIERE

Non c’è una regola precisa. La scelta varia a seconda dei gusti. In linea di massima vanno preferiti pesci dalla carne compatta e grassa, come salmone, sarde, trota, sgombro e simili, ma vanno benissimo anche rombo, triglie, seppioline, orate e molti crostacei, come gamberoni o scampi. Tutto il pesce azzurro dà ottimi risultati: sarde, acciughe, aringhe, sgombri e tonnetti. Anche i crostacei non possono mancare: gamberi, gamberoni, scampi, astici, aragoste, granseole, granchi, cicale.

Non hanno bisogno di niente, cottura rapida e via. Per i tranci, vanno benissimo il pesce spada, il tonno (scegliere bistecche spesse), salmone e ricciola. Anche i molluschi sono adatti ma solo se si è un po’ esperti perché tendono a diventare gommosi. Meglio inoltre sceglierli di piccole dimensioni, così pure se si tratta di seppie, polpi e totani. Basta spennellarli con poco olio e fare cuocere per tempi brevissimi.

«Per le grigliate il rombo è buonissimo, si mette direttamente sulla brace con la pelle – dice Stefania Lodetti della pescheria “Il Corallo”, aperta un paio di mesi fa in via Nazionale a Seriate -. Le orate sono un must, ma anche i calamari sono molto buoni sulla brace. Lo sgombro ha un sapore particolare e deciso, dipende dai gusti, ma è buonissimo. Sono molto indicati anche il gambero rosso e le seppie, che vanno pulite bene. Io consiglio spesso il salmone. Molti pensano sia buono solo affumicato invece fresco e cotto alla griglia è ottimo. Meglio evitare, invece, i filetti fini, astici, aragoste, merluzzi, baccalà, cefali, gallinelle e in genere tutti i pesci molto delicati perché la carne tende a diventare troppo friabile e a rompersi se sottoposta a questo tipo di cottura».

Tiziana Casali, responsabile qualità di Orobica Pesca consiglia i pagri e i dentici con un distinguo; il pagro è buono anche d’allevamento, il dentice invece solo pescato. Inoltre suggerisce le capesante: «Sono molto costose, ma anziché usare il mezzoguscio si prende solo la polpa e la si scotta sulla griglia sui due lati con olio e pepe: è buonissima».

Se si è un neofita del barbecue, meglio optare per pesci di grosse dimensioni e grassi come tonno, salmone, sgombri o sarde e rinunciare a quelli molto piccoli, senza avere rimpianti. Il grasso garantirà infatti che la polpa del pesce non si secchi in fase di cottura e che il risultato finale sia quindi una polpa morbida e succosa.

Sarde e sardine alla griglia sono deliziose, ma bisogna stare attenti a non farle bruciare e una grande orata può dare soddisfazioni in tavola senza creare troppi problemi. La regola è: più è grande il pesce, più la cottura è facile.

Per chi proprio non vuole rinunciare a gustarsi i pesciolini più delicati, Adriano Rossi, di Meditpesca a Sarnico suggerisce una soluzione salva-cena. «L’unico pesce non indicato sulla piastra è il granchio. Tutti gli altri vanno bene per il barbecue basta avere qualche accorgimento in più in fase di cottura». Per tutti il consiglio nella scelta del pesce da grigliare è lo stesso: «Per prima cosa fare attenzione che il pesce sia freschissimo e poi farsi consigliare al banco, perché a seconda della disponibilità del momento si possono trovare buone occasioni e così risparmiare sul conto».

LA PREPARAZIONE

Anche mani poco esperte possono eseguire benissimo una grigliata, perché non c’è bisogno di sfilettare il pesce e spezzettarlo e non serve neanche privarlo di lische e pelle. Basta rimuovere le interiora e lavarlo bene sotto l’acqua corrente, asciugarlo e ungerlo con dell’olio extravergine d’oliva. «Nel pulire il pesce – consiglia Adriano Rossi – va tolto delicatamente con un dito il filettino nero nella pancia (che è il sangue del pesce) perché sennò rende il pesce amaro». Un’altra accortezza raccomandata è di scolare bene l’olio in eccesso prima di mettere il pesce sulla griglia per non creare fiammate troppo alte e rischiare di bruciarlo». Se il pesce è surgelato, la cosa importante è di non metterlo sotto l’acqua tiepida ma di lasciarlo scongelare naturalmente.

LA MARINATURA

Con la marinatura corretta il pesce alla griglia può diventare molto più buono. Le erbe aromatiche qui la giocano da padrone e sono molto utili per dare al pesce un sapore deciso e aromatico dopo la cottura. La marinatura classica con olio extra vergine d’oliva, limone, aglio, pepe, sale, prezzemolo o timo funziona sempre. Per chi desidera qualcosa di più ricercato e di ispirazione orientale si può preparare con salsa di soia, saké, succo di zenzero, olio di sesamo, olio di semi di arachidi, cipolla, pepe. Adriano Rossi, per il branzino in particolare, consiglia una marinatura a base di olio extravergine d’oliva, pepe grosso e una foglia di alloro o di basilico (si mette nel frigorifero per un giorno quindi si toglie e si mette sulla piastra), oppure una preparazione più saporita fatta con un cucchiaio di succo di limone, tre cucchiai d’olio extravergine di oliva, sale marino, pepe nero macinato fresco e un trito finissimo di prezzemolo, rosmarino, salvia e aglio essiccato. Si spennella il pesce con la marinata più volte un’ora prima di grigliarlo e anche dopo la cottura. Al posto del succo di limone si può utilizzare anche il lime che dà un sapore più intenso.

La regola è che la marinatura deve essere composta sempre da un grasso, un acido, un elemento sapido e uno aromatico. Per eseguire una buona marinatura meglio utilizzare piccoli pezzi e riporre sempre in frigorifero gli alimenti mentre agisce, mai in contenitori metallici e prima di cuocere riportare l’alimento sempre a temperatura ambiente.

Un consiglio: le qualità di pesce più pregiate vanno grigliate preferibilmente nature, cioè con l’aggiunta di solo sale.

Spada alla griglia

COME GRIGLIARE IL PESCE

Il pesce va salato prima della cottura e sistemato su una griglia ben calda. Il tempo di cottura è un elemento molto importante e dipende dalla dimensione del pesce. Di solito, non si va oltre i dieci minuti per lato. Il rischio di cuocerlo a temperatura sbagliata, quando si è alle prese con un pesce non grasso, è altissimo. In generale, le regole di cottura sono: braci non troppo roventi, griglia alta e se possibile cottura indiretta (ad almeno 30 cm dalla brace). Inoltre, quando si cuoce il pesce sul barbecue girarlo al momento e nel modo più opportuno può fare la differenza tra una cena gustosa e un mucchietto di costosa carbonella animale: il pesce sarà cotto dal lato inferiore quando questo si staccherà facilmente dalla griglia. Se avrete oliato a dovere sia il pesce sia la griglia stessa questo metodo “empirico” di misurazione del tempo dovrebbe essere affidabile. «Solitamente, per un pesce intero bastano 6/7 minuti, 3 minuti da un lato e 3 dall’altro. Per i filetti, invece, sono sufficienti 4 minuti – dice Adriano Rossi -. Per i molluschi – capesante, cozze e simili – le cotture devono essere basse e brevi sennò diventano gommosi. Le seppie e i calamari si spellano bene e si cuociono poco, così rimangono teneri». I pesci senza squame e quelli particolarmente delicati come il filetto di merluzzo si possono cucinare mettendo un foglio di alluminio con sale grosso sulla piastra, che al termine della operazione si sfila. Il foglio garantirà la giusta cottura al pesce e manterrà compatta la polpa. Da considerare il barbecue con il coperchio, se si vuole limitare gli effluvi. In questo caso, però, meglio scegliere solo grandi pezzature, crostacei, cartocci.

GLI STRUMENTI ESSENZIALI

Oltre alla griglia occorrono una pinza per alimenti, due pinze molto grandi, per girare il pesce, e un pennello per aromatizzare il pesce in fase di cottura. Tutti questi attrezzi devono essere in metallo, lunghi almeno 30 centimetri e con il manico in legno. Possono essere utili anche dei fogli d’alluminio, delle foglie di vite o dei rametti di rosmarino.

GIGLIATE PER TUTTE LE TASCHE

A differenza di quanto molti pensano, per fare una buona e apprezzata grigliata di pesce non serve prosciugare il portafoglio. Anche puntando alla qualità, si possono spendere cifre contenute. «Si tende ad andare sui classici pesce spada, scampi, gamberoni, tonno, ma questi pesci hanno prezzi elevati – dice Tiziana Casali di Orobica Pesca -. Invece è bello potersi concedere più volte una grigliata di pesce variando i prodotti». In pescheria si possono trovare pesci di tutti i prezzi: dai prodotti pescati che sono più cari, a quelli allevati e surgelati, più economici. Basta scegliere cosa comprare. Se si è disposti a destinare alla grigliata un budget importante ci si può orientare su crostacei come gamberi di prima qualità, mazzancolle o gamberi di Sicilia che sono il top di gamma tra il fresco. Diversamente, sono di ottima qualità ed economiche le orate allevate in Toscana e quelle allevate in Grecia e, tra i crostacei, gli scampi congelati, il gambero argentino congelato a bordo e gli scampi danesi. Un altro pesce low cost consigliato per il barbecue, spesso ignorato, è lo sgombro, un prodotto ottimo anche dal punto di vista nutrizionale perché contiene tantissimo Omega 3 e grassi buoni. Per una grigliata economica, Rossi di Meditpesca consiglia sgombro, sugarello, sarde di mare e tonno già abbattuto, che costa meno di quello fresco.

LE RICETTE

Per una preparazione veloce salva-cena, Tiziana Casali consiglia: spiedini con code di gambero argentino già sgusciato negli aromi con un po’ di pan grattato e un filo di olio e servito con purea di ceci o di porri fredda. In dieci minuti, garantisce, sono in tavola. Un’altra ricetta veloce sono gli spiedini di calamari: si puliscono tutti, si salta la parte di scarto (i ciuffi) con aromi in padella, si mixa con parmigiano e uovo quindi si fa il ripieno lo si mette nel calamaro crudo, si chiude con stuzzicadenti e si cuoce alla griglia con un filo d’olio, quindi si condisce con un finocchio crudo tagliato fine e decorato con fette di arancia fredda e qualche mandorla tostata e olive taggiasche (attenzione: i calamari non devono essere grandi).

La ricetta - Spiedino di gamberi calamari ripieni grigliati

Per una grigliata di alta qualità una soluzione molto raffinata è quella di abbinare un pesce pescato, tartare e crudità, ad esempio gambero rosso e gambero viola, tartare di spada e tonno, capesante grigliate. Per i bambini, infine, la ricetta più apprezzata sono gli hamburger di trota o di tonno con le patatine fritte. Sono facili da cuocere e piacciono sempre. L’importante è che siano cotti poco, soprattutto se di tonno.

IL SERVIZIO

Il pesce grigliato deve essere servito immediatamente, appena tolto dalla griglia insieme a olio, sale e qualche erba aromatica. Per chi lo gradisce, si possono mettere in tavola anche delle fettine di limone (ma i cultori inorridirebbero) e delle salse: si può scegliere tra un semplice intingolo a base di olio, timo e aglio oppure servire delle vere e proprie salse per la grigliata di pesce.


Il bocconiano dice addio all’Alta finanza, «meglio “La Polenteria”»

Da un paio di anni, chi capita nelle strade affollate del quartiere di Soho, a Londra, può vivere l’esperienza di ritrovare i sapori di casa e il gusto tipico bergamasco in un piccolo ristorante chiamato La Polenteria, che, come dice bene il nome, mette in primo piano (e perfino in vetrina) proprio la polenta e in particolar modo quella tutta orobica di Nicoli.

L’idea è venuta a Gabriele Vitali, originario di Pizzino in Val Taleggio, laurea alla Bocconi, il quale, dopo diversi anni trascorsi nella capitale britannica occupandosi di investimenti finanziari in un grande gruppo bancario, insieme all’amico (bresciano) Silvio Vangelisti, che invece era odontotecnico, ha deciso di fare il grande salto nella ristorazione. Ed è subito stato un gran successo. Prima di tutto per la filosofia totalmente “gluten-free” del menù (ed è stato il primo ristorante italiano a proporlo a Londra), poi per l’ambiente raccolto e intimo, da trattoria moderna, e infine per la cucina generosa e ricca, che mette in campo anche altri classici regionali italiani e non solo la polenta. Anche se quest’ultima rimane la vera protagonista, visto che viene proposta negli antipasti con asparagi, scamorza e uova, o nella versione più esotica con una vellutata di menta e la crema di soia. E poi nei piatti principali, con gli Gnocchi di polenta, tartufo e formaggio, e in preparazioni decisamente più azzardate come nel caso degli Gnocchi di polenta con salmone affumicato e crema di avocado o nel Filetto di maiale con salsa di liquerizia e polenta grigliata. E c’è perfino, a fianco della Panna cotta e del Tiramisù, una “Polenta cheesecake” per chi vuole completare il pasto tematico con un dolce.

piatto - la Polenteria - LondraLa polenta rappresenta il 50% del menù, ma non mancano pasta e ravioli fatti in casa con sapori che virano spesso verso un gusto internazionale, anche perché a La Polenteria la clientela italiana rappresenta solo un quinto degli ospiti che si siedono nei 32 coperti del ristorante. I vini in carta sono esclusivamente italiani, con un’attenzione particolare per quelli bresciani (Benaco e Lugana), ma la filosofia vegana e gluten-free che ispira tutta la proposta consiglia anche di sperimentare in accompagnamento i succhi di frutta freschi o, come sembra essere di tendenza negli ultimi tempi, qualche cocktail.

«La scommessa della Polenteria è stata vinta – racconta Gabriele Vitali -, e siamo molto soddisfatti di come sta andando il ristorante. Al punto che potremmo quasi decidere di aprirne un altro in futuro. Gli inglesi, quando siamo arrivati, non conoscevano la polenta ma hanno iniziato ad apprezzarla e ora la richiedono con continuità. All’inizio avevamo solo quella in carta, con pochi riferimenti, ma abbiamo deciso strada facendo di offrire una scelta un po’ più ampia alla nostra clientela, così sono arrivati altri piatti come le Lasagne vegane, la Burrata con rucola, la parmigiana e le Tagliatelle al pesto rosso. Per dare anche qualche tocco della cucina italiana mantenendo fede alla scelta di soddisfare vegani, vegetariani e amanti del senza-glutine».

La Polenteria esterni - Londra


Cucinare con i fiori, quattro piatti da premio

 

Insalata di baccalà con spinacino e petali di cipolla di Tropea, crumble alla paprika dolce e maionese di prezzemolo (della Trattoria La Curt di Artogne), Calsù con strisec (del Giardino di Breno), luccio in carbone (delle Antiche Rive di Salò), cremoso di riso integrale e strisec (silene) con croccante al cioccolato bianco e salsa alle fragole di bosco (del ristorante Sloppy & Go, di Rogno): sono questi i quattro piatti vincitori della terza edizione di “Un fiore nel piatto”, la gara gastronomica abbinata alla rassegna florovivaistica “Darfo Boario Terme in Fiore” promossa dall’Amministrazione comunale e coordinata da Loretta Tabarini.

La “sfida” a colpi di ricette creative ispirate alle erbe e ai fiori camuni è arrivata al rush finale: il verdetto d’autore è stato affidato alla giuria guidata dal conduttore televisivo e guru della gastronomia Edoardo Raspelli, coadiuvato dalla modella attrice Maura Anastasìa e supportato dalle valutazioni di Anna Vaglia dell’Associazione italiana sommelier, Cristian Spagnoli (vincitore del Global Chef Challenge), Giuseppe Dadà, quality director di Ferrarelle Spa, dal dirigente scolastico Antonino Floridia e dagli insegnanti Ivan Dossi e Salvatore D’Urso. I giudici hanno assaggiato i 21 piatti finalisti, stabilendo il “menù ideale” – composto da antipasto, primo, secondo e dessert – che verrà servito nel corso della cena di gala in programma lunedì 9 maggio alla Scuola alberghiera Olivelli-Putelli di Darfo.

Dopo il prologo gastronomico, sabato 30 aprile è invece fissata l’apertura di Darfo Boario Terme in Fiore, «una vetrina creativa e dinamica, aperta a tutte le eccellenze del territorio – spiega ilvicesindaco Attilio Cristini -. Il tema di quest’anno è “Il fiore nel campo” e porta avanti un approfondimento iniziato nel 2013 con l’unicità del clima della Valcamonica e la sua biodiversità vegetale, proseguito nel 2014 con un’analisi della filiera alimentare e sfociato lo scorso anno con il tema dell’acqua e il suo ruolo essenziale nella nostra valle».


Il signor Carrara e il supplizio del polpettino

Il polpettino realizzato secondo la ricetta pubblicata nel “Libro de arte coquinaria” di Martino da Como

Seppur spogliato della pensione d’anzianità dai giacobini, la cui ferrea propensione ai tagli – al tempo non schiva di quelli di teste – pare essere tornata in auge ai nostri giorni, fa sfoggio di inossidabili estro e sagacia l’ottuagenario Carlo Goldoni che nel 1787 dà alle stampe a Parigi le proprie memorie. Nell’autobiografia l’impareggiabile commediografo fornisce prova di non comune lucidità ripercorrendo nei più minuti dettagli un florilegio di ormai remote rimembranze. Tra queste spicca il resoconto di una scampagnata di oltre cinquant’anni prima nell’agro circostante Milano, effettuata in compagnia di un amico bergamasco dal tutt’altro che imprevedibile cognome di Carrara.

È un giorno d’estate del 1733, e la coppia di bighelloni, varcata quella Porta Tosa che oggi si troverebbe all’altezza di piazza Cinque Giornate, si incammina in aperta campagna alla volta delll’Osteria della Cazzuola per una frugale merenda. Già all’epoca la metropoli – nota il drammaturgo veneziano – ha fama di ville gourmande, tant’è che i suoi abitanti sono soprannominati lupi lombardi dai più sobri fiorentini. “Non si fanno in Milano passeggiate, ne’ si mette insieme divertimento di qualunque sorte sia, in cui non si discorra di mangiare: agli spettacoli, alle conversazioni di giuoco, a quelle di famiglia, siano esse di cerimonia o di complimento, alle corse, alle processioni, alle conferenze spirituali inclusive, sempre si mangia.”

Giunti a destinazione, i due gitanti comandano uno spuntino a base di gamberi, uccelletti e polpettino. Dalle vivande settecentesche della storica osteria, in contrapposizione alle più tarde e moderniste lusinghe del risotto allo zafferano e della costoletta impanata, promana un nostrale sentore d’arcaico. I crostacei sono quelli d’acqua dolce dei quali già nel tredicesimo secolo, a dar retta a Bonvesin de la Riva, in riva ai Navigli si divoravano più di sette moggi al giorno. La cacciagione minuta, che in abbinamento alla polenta rappresenta un’irrefutabile icona gastronomica del circondario di Bergamo, tra XVII e XVIII secolo pare altresì una voce regolarmente impressa anche sui menù delle taverne milanesi – quella dei Trì Merla aveva particolare rinomanza per i suoi passaritt.

Quanto al polpettino, è del tutto ingannevole lo scontato rimando ad una pallottola di carne trita che la denominazione parrebbe sottendere. Si tratta invece di un involtino la cui ricetta, di sicure origini padane, è riportata per la prima volta nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Martino da Como: una fettina di vitello, cosparsa di semi di finocchio e velata di un battuto di lardo ed erbe, viene arrotolata su sé stessa e quindi arrostita allo spiedo. Ad una pietanza affine doveva forse alludere un paio di secoli prima lo stesso Bonvesin de la Riva, quando menzionava un ripieno a base di noci, uova, cacio e pepe con cui i suoi concittadini solevano farcire le carni nel periodo invernale.

Metropoli delle polpette – definiva Milano il medico-poeta Giovanni Raiberti. Ed all’ombra della Madonnina morfologia e terminologia del morsello di carne hanno inevitabilmente finito per distinguersi da quelle della consuetudine. Se polpettino sta per saltimbocca, è con la voce mondeghili che vengono invece designate quelle che altrove si chiamano polpette. Il dualismo, di marchio squisitamente lombardo, è attestato anche dal ricettario del Cocho Bergamasco, che a fine seicento distingue rispettivamente tra polpette di carne cruda – simili a quelle di Martino da Como – e quelle di carne trita cotta, a propria volta affini ai mondeghili.

Questi ultimi, il cui appellativo deriva dalla storpiatura meneghina dell’ispanico albondeguillas, rappresentano in apparenza uno dei plurimi imprestiti iberici alla cucina milanese. In realtà l’apparentamento è d’ordine più lessicale che gastronomico. Non si è certo dovuto attendere l’arrivo in Italia degli aragonesi per apprendere a cucinar polpette: già nel ricettario latino di Apicio fanno infatti comparsa numerose preparazioni (isicia) in guisa di trito appallottolato di carne o di pesce, variamente aromatizzate. Una delle basi predilette dagli antichi romani per la preparazione della pietanza era peraltro rappresentata dal fegato di porco. E non è certo casuale che, tra gli ingredienti dei mondeghili, baleni l’arcaicizzante richiamo della mortadella di fegato.

Ma torniamo alla scampagnata di Carlo Goldoni e dell’ineffabile Carrara. Il loro spuntino all’Osteria della Cazzuola viene troncato sul nascere dall’estemporanea apparizione di un’avvenente giovinetta in lacrime. Il veneziano, incorreggibile donnaiolo, appura che la fanciulla – per singolare combinazione sua concittadina – è fresca reduce da una disavventura di seduzione ed abbandono, e si fa in quattro per rincuorarla. Il compare, da buon bergamasco, pare invece persuaso che le lusinghe della galanteria non debbano in alcun modo venir anteposte a quelle della tavola – o che comunque non sia opportuno indulgervi a stomaco vuoto -, e scalpita perché si dia senza indugi inizio alla merenda. Ma Goldoni, del tutto incurante delle rimostranze dell’amico, seguita imperterrito a blandire la giovane. Alla fine si addiviene ad un compromesso, e l’agognato pasto è servito negli alloggi della donna ponendo termine al tantalico supplizio cui è sottoposto il povero Carrara.

L’epilogo della vicenda è, assai prevedibilmente, del tutto teatrale. Il commediografo lascia discretamente intendere di essere riuscito ad intessere con l’affascinante concittadina una tenera amicizia, che si protrae per qualche mese. L’idillio è tuttavia falciato dai cannoni dei Savoiardi agli ordini di Carlo Emanuele III, che nel dicembre del 1733 cingono d’assedio il capoluogo lombardo. Goldoni, che in quel mentre svolge le funzioni di attaché del Console della Serenissima presso il Granducato di Milano, è costretto a riparare a Crema al seguito del diplomatico. La giovane amante resta invece in città, ed i due finiscono perdersi di vista – apparentemente senza eccessivi struggimenti. Ed il vorace Carrara? Rimedia un posto da corrispondente della Repubblica di Venezia su raccomandazione dello stesso Goldoni. Anche tra i marosi del burrascoso secolo dei lumi, è dunque e comunque bene tutto quel che finisce bene.


Storie di paste ripiene e di abbagli

 

Cannelloni-ricotta-e-spinaci_7Se non già un’irrefutabile patente di genitura del casoncello, la tradizione gastronomica bresciana può perlomeno vantare un concorso di paternità nella procreazione di un altro prototipo delle paste ripiene. Corre infatti il 1855 quando il milanese Giuseppe Sorbiatti – cuciniere di fama nazionale dai saldi addentellati professionali alle falde del Cidneo – dà alle stampe la prima edizione de “La gastronomia moderna”. Tra le ricette dell’enciclopedica raccolta, tutte pomposamente declinate in francese secondo la moda del tempo, spicca quella dei “Cannellons à la bressane”. Si tratta di cannoncelli dalla sfoglia ottenuta con un procedimento affatto singolare: si inizia mettendo al fuoco un paiolo con un quinto della farina e poca acqua per ottenere una polentina soda. Questa va quindi impastata a freddo con il resto della semola, con l’aggiunta di qualche tuorlo, per ottenere una massa piuttosto consistente. Stesane una lamina sottile, la si farcisce con un composto di foglie di verza o cime di rapa sbollentate e triturate, quindi saltate con burro e cipolla e legate con cacio, pangrattato e uova. Arrotolati a forma di sigaro, gli involtini vanno infine lessati in acqua bollente, con la rifinitura di qualche cucchiaiata di burro nocciola e l’immancabile spolverata di formaggio lodigiano.

Questa è, a mia notizia, la più antica codificazione in letteratura gastronomica del cannellone a guisa di pasta ripiena. Ai buongustai dell’epoca, ormai tediati dal formalismo allogeno della cucina d’oltralpe, Sorbiatti si affretta a giurare che “questa minestra è del tutto campagnuola”. In realtà i panni posticci da trattore del contado non riescono a dissimulare il gastronomo borghese che cerca di mascherarvisi. Nel suo monumentale Grand dictionaire de cuisine, l’eclettico Alexandre Dumas ragguaglia invero che i cannellons sono una preparazione di pasticceria – di gran lunga la più elitaria tra le branche della cucina – consistente in un piccolo cilindro di pasta sfoglia imbottito di composta di frutta. Il cuoco meneghino è verosimilmente il primo ad essere illuminato dall’intuizione di trasfigurare lo zuccheroso cannolo in un involucro di lasagna. Il ripieno – quello invece sì – è senza dubbio di genuina marca rustica. Stando ai glossari vernacolari del Melchiori e del Tiraboschi, corrisponde infatti alla farcia dei casoncelli come la si preparava nell’ottocento: a base di erbette, cacio ed uova.

Per qualche decennio il nuovo formato di pasta resta nell’ombra, tant’è che alla fine del XIX secolo Pellegrino Artusi, nei suoi Stati Generali della gastronomia Italiana, non ne fornisce alcuna menzione. Ma a partire della belle époque il vento cambia con decisione, prova ne sia lo ieratico “Cannelloni! Cannelloni! Cannelloni!” che Gabriele d’Annunzio – per combinazione sempre dal suolo bresciano del Vittoriale – verga in un carteggio indirizzato alla propria cuoca personale, ilarmente soprannominata Suor Intingola. La susseguente apoteosi è storia assai recente.

Questa ricostruzione parrebbe nondimeno messa in discussione da un passaggio della ponderosa enciclopedia della pasta redatta da Oretta Zanini de Vita – edita in Italia da ERI-RAI e ripresa in inglese dall’University of California Press. L’autrice, passando in rassegna le minestre asciutte citate nel cinquecentesco trattato di scalcheria del ferrarese Giovan Battista Rossetti, tra i macaroni all’urbinata ed i gnocchetti di Genova ritiene di dover censire anche i canellini bergamaschi. E nell’Oxford companion to food il serioso storico della gastronomia Alan Davidson sembra darle eco sostenendo – non senza una certa dose di audacia – che i cannellini siano semplicemente dei cannelloni in miniatura. Vuoi mai che anche in quest’occorrenza, come presumibilmente avvenuto per il casoncello (AdG maggio 2015), i cucinieri bresciani si siano lasciati precorrere di qualche secolo dai loro colleghi bergamaschi?

Ad onor del vero, non va taciuto che nel vernacolo ottocentesco della Toscana la voce cannelloni designasse quelli che altrove erano chiamati maccheroni, e non si può certo escludere che anche il suo diminutivo, di cui non è comunque pervenuta alcuna attestazione, fosse in qualche modo entrato nell’uso corrente. Ciò non toglie che i ben più antichi canellini bergamaschi del Rossetti, serviti all’epilogo di un banchetto che Alfonso I d’Este offrì in onore della consorte Lucrezia de’ Medici e del padre di questa Cosimo I di Toscana, altro non fossero che i confetti alla cannella, noti anche come cinnamomi (AdG novembre 2014), per i quali la nostra città godeva di lustro planetario nel XVI secolo.

Pur con l’indulgenza dovuta in ragione dell’innegabile assonanza, desta non poca sorpresa che in popolari testi di gastronomia dei dolciumi possano essere scambiati per una fantomatica portata di pasta, per soprammercato recata in tavola al momento del dessert. La topica giunge comunque a conforto dei paladini della tradizione culinaria bresciana: per una volta un primato della Leonessa, ancorché conseguito per mano di un cuoco forestiero, non pare destinato ad essere riveduto a beneficio degli invisi cugini d’oltre Oglio.


Piatti “Maestri del Paesaggio”, cinque finalisiti per una cena

 

La manifestazione I Maestri del Paesaggio, che dal 5 al 20 settembre prossimi vestirà Bergamo di verde declinando il tema conduttore della quinta edizione, ovvero  “Feeling Landscape – Le colture agrarie fanno paesaggio” da tre anni a questa parte offre anche lo spunto per una selezione gastronomica “Green food e gli Chef del paesaggio”, ideata dall’associazione culturale Arketipos in collaborazione con il Gruppo Editoriale l’Espresso e Le Tavole di Bergamo Alta.

L’iniziativa coinvolge i cuochi amatoriali che dal 28 maggio al 5 luglio scorso hanno postato sul sito D Cucina e sulle pagine social le loro migliori creazioni gastronomiche ispirate al tema della manifestazione, piatti che, come previsto dal regolamento, dovevano nascere dall’incontro tra prodotti naturali, italiani, facilmente reperibili e di stagione.

Le cinque proposte arrivate in finale, mercoledì 22 luglio si contenderanno la vittoria in una serata al ristorante Il Gourmet di Bergamo Alta alla presenza di una Giuria tecnica e una Giuria popolare.

Oltre ad essere rigorosamente espressione di sostenibilità, benessere, genuinità degli ingredienti e delle preparazioni, le ricette erano vincolate ad utilizzare la mora (frutto del rovo – Rubus ulmifolius) con particolare attenzione ai prodotti d’orto e di giardino. Non erano ammessi dolci e dessert.

Ecco la cinquina finalista

I cinque piatti finalisti

  • Cupcake salati mandorle, formaggio e more
  • L’insalata era nell’orto
  • Tartara di zucchine e gelatina more
  • Farfalle nel rovo
  • Il filetto… e le quattro more

Le prime quattro sono state selezionate da una giuria composta dai ristoratori delle Tavole di Bergamo Alta, mentre l’ultima è stata scelta direttamente dai lettori con 620 voti/mi piace.

Nel corso della serata conclusiva gli Chef delle Tavole di Bergamo Alta prepareranno i piatti e gli ospiti degusteranno e voteranno le ricette.

Una serata davvero particolare per la quale è ancora possibile prenotare un posto a tavola come giurato (www.arketipos.org/programma/green-food-e-gli-chef-del-paesaggio-2015/).

Solo una ricetta si aggiudicherà il titolo di “Patrimonio de I Maestri del Paesaggio 2015”, per la capacità di esprimere l’unione tra territorio, gusto e naturalità. La sola che avrà l’onore di essere reinterpretata e inserita nei menù dei ristoranti partner (www.arketipos.org/edizione-2015/luoghi-dellevento/) nei sedici giorni della manifestazione.

Durante la cena le cinque ricette finaliste saranno accompagnate da una selezione di prosecco delle cantine Bisol.

Info: info@arketipos.org