Enrico Bertolino: «Se v’invito a cena non chiedetemi cosa si mangia»

Enrico Bertolino è comico, conduttore televisivo, cabarettista ed esperto di comunicazione (è laureato in Economia alla Bocconi ed è manager nelle risorse umane). Da 30 anni è uno dei protagonisti dell’umorismo italiano. Il 31 dicembre si esibirà al Teatro Creberg di Bergamo nello spettacolo “Buon 2042! La festa di Capodanno”, un monologo sul meglio e il peggio dell’anno appena trascorso. Qui ci racconta il suo amore per il cibo fatto a mano, la sua curiosità per le cucine etniche e la sua amicizia con gli chef Berton e Oldani.

Che rapporto ha con il cibo?

«Di sudditanza psicologica, sono sempre in lotta con i regimi alimentari. Mi piace mangiare bene, le cose buone, anche sperimentare le cucine etniche».

Trattoria o ristorante stellato?

«Entrambi. Non amo il ristorante stellato perché è stellato ma quando ha una cucina curiosa. Come quella di Oldani e Berton, che sono amici e con i quali facciamo anche iniziative di solidarietà. In queste occasioni faccio l’assistente di cucina. E a Bergamo mi piace molto Da Vittorio anche perché lo conoscevo, non sono mai rimasto deluso dai suoi ravioli. Ma non disdegno la trattoria. Nella zona dove abito a Milano ne stanno aprendo diverse. Quando posso, le sperimento».

Dolce o salato?

«Adesso salato. Prima molto dolce».

Cosa non può mancare nella sua dispensa?

«L’amore per come si fanno le cose, le pietanze fatte a mano. Ora limito il sale e mi piace mettere lo zenzero, lo scalogno, i condimenti nuovi. Con l’età si diventa saggi».

Ai fornelli, cuoco esperto o piccolo disastro?

«Ai fornelli sono più bravi i ragazzi della scuola di Oldani. Ma a casa quando posso cucino. La nostra è una famiglia italo-brasiliana, mia figlia ama i piatti brasiliani».

Qual è il suo piatto preferito?

«Il vitello tonnato, è una combinazione irresistibile per me ed è un piatto che cucinava mia mamma. Ora che non cucina più glielo prepariamo noi. In generale mi piacciono i piatti tradizionali ma anche la cucina etnica. Ad esempio il churrasco. Deluderò qualcuno, ma sono tutto tranne che vegano».

Cosa mangia dopo uno spettacolo?

«Un primo o un secondo e poi chiudo con la sambuca. Sono entrato nel tunnel della sambuca. Prima di uno spettacolo invece non mangio mai, devo stare leggero. Un tempo si mangiava molto. Addirittura si facevano le tournée per poter andare a mangiare, nelle Marche ricordo dei ristoranti molto buoni. Adesso dopo cena è molto difficile trovare una cucina aperta, c’è poca cultura del dopo spettacolo. Possiamo contare su qualche ristoratore disponibile che tiene aperto, sono serate che non dimentichiamo».

La sua cena più bizzarra.

«È quella che non ho ancora fatto. Anche se Oldani mi ha stimolato molto con la sua cipolla caramellata. Sono rimasto dieci minuti a guardarla. Da allora non rifiuto più gli abbinamenti insoliti. Per me bizzarro è mangiare i prodotti del posto, la filiera corta, l’amatriciana ad Amatrice, in Sicilia i piatti siciliani. Credo che bisogna adattarsi».

Chi inviterebbe a cena a casa sua e perché?

«Persone accomodanti, come il sindaco di Milano Sala, che è un amico. Non apprezzo quelli che chiedono “cosa c’è da mangiare stasera?”. Mangi quel che c’è e apri la tua testa all’innovazione».

Vino o birra?

«In Brasile la birra, il vino non è competitivo ed è molto caro. Altrimenti vino. Sono stato di recente in un paesino in Francia a un mercatino. Abbiamo comprato olive farcite in tutti i modi e vino francese. Di più non si poteva chiedere».


Il cuoco dell’Atalanta: «Ecco cosa preparo per i nerazzurri»

Sottopiatti e bicchieri in vetro blu, posate nere, un fiocco nerazzurro a legare il tovagliolo. È la tavola del ristorante dell’Atalanta, il luogo – al centro Bortolotti di Zingonia – dove mangiano i giocatori della prima squadra, l’allenatore, lo staff ed i dirigenti e dove la società accoglie i propri ospiti. È il terreno di gioco di Gabriele Calvi, lo chef che da quattro anni a questa parte si occupa del programma alimentare dei calciatori. Di Santa Brigida, 42 anni, cuoco e ristoratore di terza generazione, è cresciuto nella trattoria di famiglia ad Averara per poi collezionare, sin da giovanissimo, esperienze in giro per l’Italia. Con la sorella Katia ha gestito negli anni Duemila il ristorante del Casinò di San Pellegrino, dove è tornato di recente con la società Gran Kursaal 1907 (nome originario e data di nascita del casinò brembano, guarda caso, la stessa dell’Atalanta!) che cura eventi e banchetti in collaborazione con il Gruppo Percassi. Katia lo accompagna in entrambe le attività. A Zingonia è lei ad occuparsi della sala, mentre in cucina Gabriele è affiancato da Florinda Preci.

Come si diventa chef di una squadra di serie A?

«Nel mio caso lo devo alla fiducia che hanno riposto in me il presidente e la famiglia Percassi. In precedenza il servizio era affidato ad un’azienda di catering, ma c’era l’esigenza di curare direttamente ciò che mangiano i giocatori. Oggi è infatti assodato che una corretta alimentazione aiuta moltissimo a livello psicofisico e mantiene efficienti più a lungo, per gli sportivi è perciò un aspetto fondamentale di cui tenere conto».

Occorre una preparazione specifica per la sua professione?

«In realtà, non mi ero mai interessato prima di cucina sportiva. È un mondo che ho conosciuto entrandoci, studiando, seguendo corsi e provando. Nella definizione dei menù sono affiancato da un nutrizionista, dal responsabile sanitario Paolo Amaddeo e dal medico sociale Marco Bruzzone. L’obiettivo è preparare piatti che diano un contributo energetico importante, che apportino le proteine e i nutrimenti necessari con un uso mimino di materie grasse. Seguendo questi canoni prepariamo, ad esempio, una crostata con pochissimo burro nella frolla, zucchero di canna e confettura di frutta cotta a vapore, ma anche una torta di mele senza burro e plumcake con lo yogurt greco zero grassi».

Come è organizzato il lavoro?

«Il giovedì, in genere, ricevo il programma della settimana successiva e predisponiamo il menù in base agli impegni. Le proposte cambiano, infatti, se l’allenamento è al mattino o al pomeriggio. Mi occupo degli acquisti e di tutti i pranzi e della cena prima della partita. Per la colazione, dipende dall’allenatore. Gasperini, ad esempio, preferisce che i giocatori la facciano qui. In pratica, la società segue due dei tre pasti della giornata dei calciatori».

gabriele-calvi-cuoco-atalantaCosa mangiano, perciò, i nerazzurri?

«Piatti semplici ma fatti con ingredienti di prima qualità. La pasta è condita con salsa di pomodoro biologico, ragù di carni bianche, pesce spada e zucchine. Se l’allenamento è al mattino, a pranzo ci sta anche un pesto, fatto però con anacardi e basilico. Altra fonte importante di carboidrati è il riso, da quello nero a quello selvatico, dall’integrale all’arborio. Per secondo molta carne bianca e pesce, tutto cucinato espresso alla griglia e c’è sempre un buffet di verdure cotte a vapore, legumi, parmigiano reggiano, tonno, insalate fresche. Per colazione un’ottima fonte di antiossidanti sono gli estratti di frutta e verdura. Mirtilli, zenzero, sedano bianco, broccolo verde, avocado, carote, mela, ananas, uva… ogni giocatore sceglie gli abbinamenti che preferisce».

Il piatto che piace di più?

«Il risotto spacca! Mi dicono tutti che è molto buono. Lo faccio con cuore di parmigiano reggiano e brodo vegetale».

A tavola spesso si festeggia o ci si tira su di morale. Funziona così anche dopo una vittoria o una sconfitta?

«No, il menù non cambia a seconda dei risultati, semmai con le stagioni. Il momento del pranzo è vissuto semplicemente come una parte del programma di lavoro quotidiano».

Gli allenatori vogliono dire la loro sui pasti?

«Non tanto sul menù, ma su tempi e orari sì».

Chi è il più buongustaio tra i tecnici che ha conosciuto?

«Edy Reja è un grande amante della cucina. Una volta ha portato qui in sede lo stellato Ernesto Iaccarino del Don Alfonso: gli ho preparato i casoncelli fatti a mano secondo la ricetta di mia nonna. Reja era anche contento se gli trovavo i funghi. Pure Gasperini gradisce la buona tavola, soprattutto il pesce».

Tra i giocatori c’è qualcuno con il pallino della cucina?

«Gomez ha fatto anche un corso e, sì, ogni tanto qualcuno mi chiede qualche ricetta o consiglio. Più che altro, però, sono molto bravi nel seguire anche nel privato le indicazioni alimentari studiate per loro».

Il prepartita ha un menù speciale?

«La cena della vigilia è sempre la stessa: risotto alla parmigiana, coscia di pollo al forno con purè di patate fresche. Invece, prima della gara c’è chi vuole solo carboidrati e chi preferisce del prosciutto crudo magro o della bresaola».

Certo che non c’è molto spazio per la creatività…

«Quella la posso sfogare al Casinò di San Pellegrino, qui dobbiamo preparare piatti che facciano correre i calciatori. La mia idea di cucina è comunque improntata alla semplicità, ai sapori che ho incontrato lavorando in varie regioni d’Italia. In fondo, anche uno spaghetto al pomodoro, se fatto con materie prime di qualità, rispettandole il più possibile, non è niente male».

gabriele-calvi-cuoco-atalanta-divisaC’è un piatto porta fortuna?

«Un piatto no, ma tanti rituali. Dai pantaloni che indosso a come inforno le torte e i plumcake…».

… Leggermente tifoso?

«Sinceramente prima di approdare all’Atalanta avevo perso la passione per il calcio. Oggi invece conosco i ragazzi che scendono in campo e sento le partite tantissimo, al punto che non riesco a seguirle allo stadio o in diretta alla tv».

Il pasto da ricordare?

«Il cestino dopo il due a zero, gol di Gomez e Denis, sul campo della Roma nella scorsa stagione. Al termine della partita i giocatori mangiano perché hanno speso tutte le energie. Lo fanno appena rientrano negli spogliatoi e anche più tardi con panini ed altri alimenti che chiamiamo cestino. La trasferta era stata impegnativa e la vittoria bellissima, ecco, in quell’occasione non sono mai stato così contento di distribuire i cestini!».

Visto il buon momento della squadra, qualcuno le avrà chiesto se dipende anche da ciò che mette nel piatto…

«A mo’ di battuta è una considerazione che alcuni amici fanno, ma ovviamente non lo si può stabilire. Una cosa però ci riconoscono alcuni ragazzi: “Ci date serenità”, dicono a me e Katia, ed è molto gratificante».


Addio alla professoressa Bertocchi, «è stata fondamentale per la crescita dell’Università»

maria-ida-bertocchiL’Università di Bergamo dice addio alla professoressa Maria Ida Bertocchi, venuta a mancare questa mattina dopo una breve malattia. Nata a Bergamo 65 anni fa, ha insegnato matematica nell’Ateneo cittadino sin dal 1979, ricoprendo per due mandati (dal 1996 al 2002) l’incarico di preside della Facoltà di Economia e dal 2009 al 2012 quello di direttore del Dipartimento di Matematica, Statistica, Informatica e Applicazioni.

È stata anche prorettore vicario dal ’96 al ’99, mentre dal 1993 è stata coordinatrice del Dottorato di ricerca in “Metodi computazionali per le previsioni e le decisioni economiche e finanziarie” poi Direttrice di Scuola di Dottorato di ricerca in Economia, Matematica Applicata e Ricerca Operativa, oggi Dottorato in Analytics for Economics and Business.

Nel dare l’annuncio l’Università la ricorda come «una persona che con la sua passione, la sua serietà e il suo impegno ha dato un contributo fondamentale nella crescita dell’Ateneo in questi anni».

Marida Bertocchi si era candidata alla carica di Rettore nel 2009, quando è stato eletto Stefano Paleari. Qui il suo programma in cui è racchiusa la sua visione dell’Ateneo come luogo di formazione, ricerca e partecipazione.

La salma è composta nella camera mortuaria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, i funerali si svolgeranno sabato 19 novembre alle ore 10 nella Parrocchiale di Sant’Alessandro in Colonna, a Bergamo.


Rivera: «Vi svelo i due piatti che porto nel cuore»

Quelle paste e minestre dal sapore antico ma soprattutto gli agnolotti della festa, quelli preparati da mamma Edera fin dal sabato sera, che non ha più dimenticato e che sono diventati nel tempo una sorta di ever-green, un “santo graal” gastronomico che lo ha accompagnato ovunque. Il rapporto tra Gianni Rivera e il cibo è sempre stato semplice e schietto: per il sommo protagonista della partita del secolo Italia-Germania 4-3 e capitano del Milan euromondiale, la tavola ha voluto sempre dire cibo genuino e calore conviviale.

È attorno a una tavola imbandita, oltreché sul rettangolo da gioco, che sono nati rapporti formidabili come quello col paròn Nereo Rocco, o dispute feroci, all’insegna di arbitraggi scandalosi e congiure pallonare. Un tour del palato che parte fatalmente dalla sua patria alessandrina, per poi aprirsi alla lunga esperienza milanese e infine approdare nella Capitale, da uomo della politica. Cucine diverse, aromi, gusti e ingredienti spesso agli antipodi, che però il primo Pallone d’Oro italiano ha saputo armonizzare nel tempo.

«Non sono mai stato un gran goloso e giocando al calcio non avrei neppure potuto permetterlo, ma il gusto per la buona tavola l’ho sempre avuto, anche per quella carica di umanità e convivialità che porta con sé».

Per Gianni quest’ultimo anno è stato un’autentica maratona: ha scritto con l’aiuto della moglie Laura la sua autobiografia (530 pagine ricche di ricordi di ieri e di oggi: per info il sito è www.giannirivera.it), presentandola in decine di piazze italiane e raccogliendo ovunque un’accoglienza calorosissima.

Sono passati quasi 40 anni dalla sua ultima partita (che coincise, nel 1979, con la conquista della Stella del decimo scudetto per il Milan) eppure in fatto di popolarità sembra non abbia mai smesso di giocare, al punto che l’ex Golden Boy partirà a breve per una tournée all’estero (prime tappe Canada e Usa) per continuare la presentazione. «La cosa bella è che ai nostri incontri ci trovo anche un sacco di giovani che non mi hanno mai visto giocare. Oggi però, con la tv o sul web, è facile andare a rivedere le partite del passato». Tra gli incontri più calorosi quello in Puglia con Al Bano: «Siamo amici da lunga data – spiega Rivera -, lui sì che è riuscito a conciliare al meglio la canzone con un’agricoltura che non ha mai abbandonato. E oltre a gustare le delizie del Salento, ho degustato i suoi vini: superbi».

Pensare che quella verso il vino per Rivera è una vocazione relativamente tardiva. «Da ragazzo ero completamente astemio, poi cominciai ad assaggiare il vino a Orvieto, durante l’anno di militare. Non l’ho più abbandonato, anche perché dopo pochi anni al Milan incontrai Nereo Rocco come allenatore e con lui non potevi non accompagnare un buon piatto con un vino generoso».

Da buon piemontese Gianni ama i rossi: «Tra i miei tanti incontri ho avuto la fortuna di conoscere il re dei vignaioli piemontesi Giacomo “Braida” Bologna e con lui gli assaggi sono diventati ancor più raffinati grazie alle fantastiche Barbera come la Monella o il Bricco dell’Uccellone della sua cantina. Ma anche il Grignolino non lo dimentico. Anche mister Liedholm, già verso la fine della sua carriera da allenatore, si mise a produrre vino molto buono e proprio sulle mie colline alessandrine, a Cuccaro Monferrato. Negli spogliatoi poi arrivavano spesso champagne e spumante per festeggiare le nostre vittorie sportive». E a proposito di bollicine, altro amico storico di Gianni è quel Maurizio Zanella, patron di Ca’ del Bosco, con cui tante volte si è ritrovato a brindare in Franciacorta.

Da calciatore comunque, fin dai tempi in cui giovanissimo militava nelle file dei grigi dell’Alessandria (esordio in A a 15 anni e 9 mesi contro l’Inter: un segno del destino) per poi passare al Milan neppure maggiorenne, il cibo del prepartita era un po’ diverso da quello preparato da chef e dietologi delle società calcistiche di oggi: «Negli anni Sessanta non si guardava certo la dieta: poche ore prima di un match capitava anche di mangiare piatti pesanti come un risotto alla parmigiana o delle bistecche gigantesche, ma vi garantisco che noi giovani di allora digerivamo anche le pietre».

C’era anche il pesce di rigore a quei tempi: «Sempre di venerdì, anche per un precetto di tradizione religiosa, soprattutto il merluzzo. Poi durante la settimana a casa, riso o pasta e qualche volta la carne, mentre la domenica arrivava appunto il piatto forte, gli agnolotti. Fin dal sabato, mia mamma preparava con cura il ripieno con lo stufato: quando arrivavano in tavola era veramente una festa».

Spostandosi a Milano, Gianni frequenta anche i ristoranti della borghesia meneghina, ma poi finisce spesso all’Assassino di Ottavio Gori, toscano di Fucecchio come Indro Montanelli, il buen ritiro di patron Rocco, dove spesso si ritrova a tirar tardi la notte una comitiva di grande spessore intellettuale in cui spiccano anche Gianni Brera, lo stilista Ottavio Missoni e Gino Veronelli. La vita di atleta non permette al Golden Boy di fare le ore piccole, ma nelle sere di svago spesso ci fa capolino anche lui: «Era affascinante sentir parlare Veronelli di cibo e di vino – ricorda l’ex bandiera del Milan -, penso a cosa direbbe oggi della moda dilagante degli hamburger e patatine fritte: sarebbe inorridito».

Diventato anche politico e anche uomo di governo negli anni scorsi, Gianni è ora tornato alle sue radici calcistiche (è presidente del Settore Tecnico di Coverciano) e ha scelto Roma come sua città di adozione, eppure, parlando di cucina, il piatto che accomuna di più tutta la sua famiglia, la moglie Laura e i suoi due figli, «resta il risotto alla milanese con l’ossobuco: praticamente un piatto unico universale che ho imparato ad apprezzare a Milano, ma che trovo facilmente anche a Roma e che ci cuciniamo anche a casa secondo la ricetta tradizionale. Con gli agnolotti sono i due piatti, dell’infanzia e della maturità, a cui rinuncio più a fatica».

Oggi però l’ex campione è molto attento all’alimentazione: «Il cibo non mi ha mai fatto ingrassare: forse mi ha salvato il fatto che, a differenza della stragrande parte degli italiani, io non sono per niente goloso di dolci. Oggi cerco di mangiare cibi senza glutine, evitando zuccheri in eccesso. Ho anche riscoperto la verdura in tutte le sue sfaccettature, cruda o cotta, non manca mai nella mia dieta quotidiana: forse dai giovani è troppo sottovalutata, eppure, oltre a far bene, può anche essere molto gustosa se cucinata in maniera creativa».


Las Vegas, lo chef bergamasco ora spopola con il gelato

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Quando lavorava come executive chef al ristorante “Valentino”, nel lussuoso casinò hotel “Venetian” di Las Vegas, sapeva allettare i palati con specialità sopraffine, dal ragù di cinghiale al risotto bianco al tartufo, passando attraverso succulenti ravioli di agnello.

Oggi i sapori rotondi e gli intingoli strutturati della cucina di Luciano Pellegrini hanno ceduto il passo al gusto più morbido dei dessert. Da circa tre anni, infatti, questo chef 52enne originario di Capizzone ha deciso di tuffarsi nel variegato universo dei semifreddi. Insieme all’amico di lunga data Salvatore Cesareo, nel 2013 ha aperto in Nevada “Dolce Vita”, un laboratorio di produzione di gelato artigianale per vendita all’ingrosso.

Pellegrini, che da ormai trent’anni ha lasciato la Valle Imagna alla volta degli Stati Uniti, ha iniziato a muovere i primi passi dietro i fornelli quando era molto giovane: «Abitavo vicino alla scuola alberghiera di San Pellegrino – ricorda – così, terminate le Medie, vista la mia inclinazione ad aiutare mia mamma in cucina quando c’era occasione, l’opzione più logica fu quella di intraprendere una carriera da cuoco. Nel 1980 ho fatto un tirocinio alla Locanda Dell’Angelo in Borgo Santa Caterina con Pierangelo Cornaro. Dopo il servizio militare ho lavorato in alcune località turistiche: prima al mare vicino a Milano Marittima, poi a Lugana di Sirmione».

Ma il 15 marzo 1985 fu la data della svolta: «Piero Selvaggio, titolare del Valentino Santa Monica – racconta -, mi diede l’occasione di far carriera all’estero. Ero un ventenne in erba, alla fine abbiamo collaborato per 28 anni. Ho trascorso i miei primi sette anni negli Usa come chef a Primi in un ristorante vicino al 20th Century Fox studio ed a pranzo era normale vedere attori, registi, produttori. Ma il mio periodo d’oro è stato a Las Vegas, dove per 14 anni sono stato l’executive chef del ristorante Valentino».

Nel 2004, mentre spadellava nel Venetian Resort, Pellegrini ha vinto addirittura l’ambito premio “James Beard Award” sbaragliando la concorrenza dei più rinomati chef di Arizona, Colorado, New Mexico, Nevada, Oklahoma, Texas e Utah. Non a caso ancora oggi è molto rispettato tra colleghi, giornalisti e ospiti che lo considerano uno dei migliori cuochi di Las Vegas. Eppure Luciano non ha mai dimenticato le sue origini orobiche: «In qualsiasi cucina abbia lavorato e dove avevo pieno controllo del menù, ho fatto il possibile per inserire un’influenza bergamasca, dai casonsei alla polenta e osei, nonché innumerevoli altri piatti ispirati dalla nostra tradizione».

L’idea di realizzare gelato artigianale, invece, è nata quasi per caso nel 2010 quando l’allora pasticciere del Valentino, Alessandro Stoppa, annoiato dei soliti dessert, propose di inserire il gelato nel menù. Fu un successone e nel giro di poco tempo Pellegrini e soci si ritrovarono a rifornire anche altri locali della zona. Ecco perché quando a novembre 2013 il ristorante Valentino chiuse i battenti, Luciano riuscì a crearsi un nuovo business nel giro di cinque giorni. Staccò la spina delle sue macchine, le caricò su un furgone e le riattaccò in un laboratorio adibito alla produzione all’ingrosso di gelato. Ma niente paura, Pellegrini non ha attaccato definitivamente il mestolo al chiodo: per mantenersi in esercizio culinario, oltre a gestire il suo laboratorio di gelati offre consulenza per un paio di ristoranti della zona e organizza deliziosi servizi di catering.


Olimpiadi, «vi racconto l’emozione di portare la torcia»

Gli occhi del mondo, almeno di quello sportivo, per un istante saranno tutti lì, per quel gesto così antico e per questo così emozionante e simbolico: l’ultimo tratto della corsa della fiamma olimpica ad accendere il braciere che illuminerà i Giochi di Rio, i trentunesimi dell’era moderna, in programma dal 5 al 21 agosto (per via del fuso orario la cerimonia di inaugurazione per noi sarà all’una di notte di sabato 6) .

Il nome dell’ultimo tedoforo è ancora top secret, ma sappiamo che la torcia ha intrecciato nel corso del suo cammino anche una storia bergamasca. Quella di Roberto Ceribelli, 43enne orginario di Covo che nel 2012 ha aperto nella città coloniale di Pirenópolis, località brasiliana ambita dagli ecoturisti per la natura rigogliosa e le cascate mozzafiato, la pizzeria Grano Salis.

È qui che da qualche mese, tra le specialità incluse nel menù, spicca la pizza olimpica, in omaggio a quell’incredibile avventura che ha vissuto quasi per caso. Il 3 maggio scorso la fiamma dei Giochi è infatti arrivata in Brasile e Ceribelli è stato scelto per raccogliere il testimone ad Anapolis e portarlo verso il confine con il Mato Grosso. La selezione dei tedofori prevede un iter molto rigido ma per Roberto l’occasione è arrivata al tavolo del suo locale: «È stata un’esperienza unica, di quelle che ti sfiorano una sola volta nella vita – racconta il pizzaiolo –. Una sera di ottobre dello scorso anno un gruppo di ragazzi è venuto a cenare nel mio ristorante. Abbiamo parlato parecchio, mi hanno fatto un sacco di domande. Pensavo fossero semplicemente dei clienti e invece, solo in seguito, ho scoperto che erano membri del comitato della torcia olimpica. Dopo due giorni mi hanno chiamato, chiedendomi se avessi voluto portare la fiamma e ho accettato. Io non corro a livello sportivo ma solo saltuariamente. Vanto però un passato da capoeirista in Angola, un’arte marziale che mi mantiene lucido sia mentalmente che fisicamente».

Ceribelli se n’è andato dalle Orobie 15 anni fa alla volta di Chapada Diamantina, nel cuore di Bahia, a 400 chilometri a ovest di Salvador. Lì ha incontrato Claudia, la donna che è poi diventata sua moglie e gli ha regalato due figli, Maria Elisa e José Elias. «Nel marzo 2004 sono rientrato temporaneamente in Italia – ricorda Ceribelli –, ho cercato di racimolare il più possibile lavorando sodo perché volevo ritornarmene subito in Brasile con la mia famiglia. Invece sono passati sei anni prima di riuscire a partire di nuovo per il Sud America. Nel 2010 sono andato a Brasilia per rispondere a un’offerta di lavoro ma purtroppo lì non è andata bene. Brasilia è una città futurista, molto cara. Per me non ha un’identità ma per i brasiliani sembra essere l’unico posto vivibile sulla terra. Da Brasilia mi sono spostato in Cidade de Goias per poi approdare a Pirenópolis, patrimonio storico dell’Unesco, ricca di cascate, buon cibo, hotel di lusso o economici per qualsiasi classe sociale».

Quando è arrivato a Pirenópolis nel 2011, Ceribelli ha lavorato per un periodo in una Ong dove ha imparato la bioedilizia e la permacultura, scoprendo l’importanza di un’agricoltura sostenibile e di una gestione etica della terra. La sua prima abitazione se l’è costruita da solo. Poi nel novembre 2012 ha restaurato una casetta a 200 metri dal centro e l’ha trasformata nella pizzeria mediterranea Grano Salis. «Anche il forno a legna l’ho realizzato con le mie mani – dice –, merito di un passato ben attivo come geometra e muratore. Mi definisco un pizzaiolo autodidatta. Da quasi 20 anni faccio il pane in casa e penso che ogni giorno si scopra qualcosa di nuovo. Anche se ero un perfetto sconosciuto in poco tempo ho acquisito una buona clientela. Le mie pizze e i miei piatti sono semplici ma genuini».

roberto ceribelli - pizzeria grano salis brasileAnche perché ha una vera e propria passione per il cibo biologico a kilometro zero e la filosofia slow food e molti degli ingredienti utilizzati per la preparazione dei suoi piatti provengono all’orto di casa sua, dove crescono piante da frutta tipicamente brasiliane come banana, papaya, mango, avocado, ma anche ortaggi, aromi e spezie come peperoni, melanzane, basilico, peperoncino, salvia. «Ci tengo tantissimo al controllo di quello che viene servito perché il cliente deve rimanere soddisfatto e mi diverto a guardare la reazione delle persone dopo il primo morso – sottolinea -. Sono l’unico italiano che fa la pizza a Pirenópolis e attiro l’attenzione del pubblico perché, a differenza delle pizzerie brasiliane che fanno una pizza precotta, apro l’impasto con le mani e lo metto crudo nel forno. Inoltre il mio piano di lavoro è a diretto contatto con il pubblico. Nel nostro menù ci sono circa 40 pizze, due tipi di lasagne, tagliatelle fatte a mano con una decina di sughi differenti. Preparo anche il pane pugliese nel forno a legna per preparare le bruschette, succhi di frutta fresca e prodotti in conserva sottolio».

 


Bergamo, i Vip si raccontano a frigo aperto

La versione contemporanea del “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” è la fotografia del frigorifero. Sulle quantità, il tipo di alimenti, la disposizione dei prodotti e l’organizzazione c’è chi ha tracciato profili psicologici e mappe sociologiche (anche la Bbc ci ha costruito un’inchiesta) o creato percorsi artistici. È del resto piuttosto immediato farsi un’idea dello stile di vita e dei gusti di una persona e di una famiglia sbirciando tra gli scomparti e se riflettiamo su cosa c’è nei nostri potremo altrettanto facilmente renderci conto di quale piega abbia preso la nostra esistenza in determinato momento. Un gioco che quattro personaggi della nostra Bergamo hanno accettato di fare con simpatia, raccontando se stessi attraverso quella bottiglia tenuta in fresco, l’ingrediente irrinunciabile o la tentazione golosa.

La foodblogger

Vatinee, «all’interno due anime, una thailandese e una bergamasca»

Per una foodblogger, il frigorifero è in pratica uno strumento di lavoro. Tanto più se è tra le promotrici di una community come Bloggalline e la responsabile di un portale da un 1,3 milioni di contatti unici al mese e 3 milioni di pagine visitate, iFood, nato solo un anno fa dalla volontà di fare rete delle stesse blogger e già capace di proporsi come «la risposta dal basso a Giallo Zafferano». Lei è Vatinee Suvimol, thailandese cresciuta tra Singapore, Germania e Italia, approdata a Bergamo nel 2000, dove ha messo su famiglia e il suo studio di avvocato.

Abita a Colognola ed ha voluto un frigorifero non solo perfettamente inserito nella moderna cucina, ma anche efficiente e funzionale. All’interno due anime. «Io mangio quasi sempre thailandese – racconta –, è strano perché ho vissuto in Thailandia solo fino a sei anni, ma quando torno a casa dal lavoro, nel tardo pomeriggio, mi preparo quasi sempre un piatto orientale, anche una semplice zuppetta con noodle. Sarà il richiamo delle radici, non so, comunque mi fa stare bene». E così nel cestello delle verdure non manca mai il lemongrass, uno degli ingredienti che hanno reso famose le sue ricette. «È la citronella – spiega -. Ha uno stelo simile al porro, si affetta la parte bianca e si utilizza per il soffritto, ad esempio. Ha un sapore agrumato, vicino anche allo zenzero, quel che basta per dare il tocco thailandese che mi serve». Nel frigo si trovano anche melanzane thailandesi, differenti per forma e gusto da quelle occidentali, cavolo cinese, salsa di soia o di pesce e altri prodotti esotici, che non fatica a trovare in città, al negozio di via Angelo Maj, per la precisione.

Il resto della famiglia preferisce i sapori nostrani. «Mia figlia Sofia, sette anni, è thailandese di aspetto, ma “bergamasca” in fatto di gusti, mangerebbe solo polenta, cotoletta, spaghetti – svela – e mio marito ha sempre assaggiato tutto ma solo in Thailandia, salvo poi proporsi come perfetto intenditore di quella cucina quando abbiamo ospiti a cena». «Non mangiamo carne di maiale per scelta alimentare – prosegue -, in frigo ci sono quindi pollo, tacchino e manzo, verdure. Il pesce preferisco cucinarlo appena comprato». Cosa manca? «Spesso e volentieri il latte. Beviamo latte di soia, ma quello vaccino serve in molte ricette di dolci, che sono tra quelle più frequenti e apprezzate del mio blog (A Thai Pianist ndr.) e così mi ritrovo il più delle volte senza». Il prodotto che invece finisce con l’essere dimenticato è il coriandolo. «Mi piace tantissimo, ma ne basta poco in ogni piatto e così il mazzetto resta a lungo in fondo al cassetto del frigo».

Vatinee suvimol (3)Da brava blogger, inoltre, Vaty viaggia, scopre, gusta e si porta a casa tante chicche gastronomiche. «Se la cucina thailandese è quella del cuore, non vuol dire che non apprezzi quella italiana, tutt’altro – precisa -. Mi vengono in mente un bel piatto di spaghetti alle vongole, un filetto o le tante specialità regionali». E il successo dei suoi piatti sta proprio nella contaminazione. «Talvolta sono ricette della tradizione thailandese riproposte con ingredienti italiani – evidenzia -, in altri casi prodotti e piatti tipici di quella italiana con un accento esotico, come l’incontro tra porcini e curry, apprezzato dalla rete, o i paccheri di Matera abbinati a uno spezzatino di vitello preparato con curry e latte di cocco, con il quale ho vinto un contest nazionale. L’ultima tendenza, sul versante dei dolci è il tè macha, un tè giapponese che dà un colore verde intenso alle preparazioni».

Il calciatore

Bellini, «qualche sfizio c’è, birra e gelato su tutti»

Quanto al frigorifero, ha fatto un bel salto la bandiera dell’Atalanta Gianpaolo Bellini, un’intera carriera con la maglia nerazzurra e un commovente addio al calcio giocato, con tanto di rigore trasformato, nell’ultima partita al Comunale di quest’anno, contro l’Udinese. Nella sua vita da single il frigo era quasi un optional. Ci metteva acqua, birra e qualche piatto pronto surgelato, da riscaldare in caso di emergenza. «Stavo poco a casa e mangiare da solo non mi piace», ricorda.

Oggi invece, che è sposato con Cristina ed ha due bambini piccoli, due anni il primo, pochi mesi il secondo, nella sua casa di Mozzo di frigoriferi ne ha ben due «e sono sempre belli pieni – svela -. Soprattutto delle pappe e dei prodotti per i bambini, ma anche di tutto il resto. Preferiamo la carne al pesce, anche se il nostro primo bimbo ne è golosissimo e ci sta portando a consumarne di più. C’è la verdura, meno la frutta, che non amiamo molto. La spesa la facciamo insieme, mia moglie ed io, perché sono sempre carichi importanti».

I ritmi e le scelte sono quelli di una giovane famiglia che non ha molto tempo per cucinare, ma non rinuncia al gusto e alla qualità. «Il congelatore è sempre ben fornito, però i piatti pronti non ci sono più, se non qualche busta di risotto – dice il calciatore -. Facciamo scorta di carne e la surgeliamo perché è più comodo e ci permette di organizzarci meglio. Prepariamo piatti semplici, ma cerchiamo sempre di assaggiare anche qualcosa di particolare».

Come la mette uno sportivo con le tentazioni? «Qualche extra c’è – ammette Bellini – dei dolcetti, cioccolato, qualche bibita gassata e nel freezer sempre il gelato, anche d’inverno. Mi concedo un piccolo sfizio prima di andare a letto, come anche un bicchiere di birra la sera, la preferisco al vino. In fresco comunque teniamo sempre una bottiglia di bollicine per quando abbiamo ospiti e stare a casa con gli amici ci piace». È goloso anche di formaggi, «una fetta a fine pasto ci scappa, anche perché dei parenti hanno un allevamento e ci riforniscono di prodotti nostrani». E c’è pure il fratello Gianmarco che porta avanti l’attività dei bisnonni al ristorante Ai Burattini di Adrara San Martino, inserito nella guida Osterie d’Italia di Slow Food: «Quando andiamo da lui – afferma – spazzoliamo sempre tutto, per il frigo di casa non avanza niente».

Piccole trasgressioni a parte, resta un atleta che con il cibo non ha mai esagerato. «Ho però ho capito solo attorno ai trent’anni quanto è importante l’alimentazione per essere in forma, avere energia e vivere meglio – riflette -. Bisognerebbe farlo da giovani, le prestazioni sarebbero migliori e i risultati più duraturi. Prima però non ci pensi e mangi senza farti troppe domande». Oggi il suo “credo” alimentare lo attinge da sua suocera: poco di tutto. «Servono equilibrio, moderazione e variare il più possibile perché ogni alimento ha proprietà diverse – sottolinea -. Ho anche imparato a bere molta acqua, dà una grande mano, anche a chi non è sportivo». E se lo dice l’ex capitano…

Il provveditore

Graziani, «quella volta in cui ci dimenticai le chiavi di casa…»

Non si illudano gli studenti bergamaschi. Nel frigorifero della dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale – l’ex Provveditorato, per chi i banchi li ha lasciati già da qualche tempo – non ci sono scheletri. Patrizia Graziani rispetta i principi di quella corretta alimentazione che la scuola cerca di insegnare sin dalla più tenera età per favorire l’adozione di stili di vita consapevoli e salutari. Nel frigo di casa sua, a Mantova, ad occupare lo spazio maggiore sono verdure e frutta di stagione. «Ce n’è una varietà infinita – racconta -. In particolare gradisco le verdure cotte al vapore o grigliate che, da buona mantovana, condisco con Parmigiano Reggiano, senza olio. Poi c’è il pesce, che cucino alla griglia per lo più, e talvolta della pasta fredda. Non mangio carne, invece».

Semplicità non significa rinuncia: «Sono piatti che appagano il palato e poi qualche trasgressione ogni tanto ci sta». Quella che ci confessa, per soddisfare la voglia di dolce, è per la Coca Cola e le bibite gassate, anche se le sceglie “light” o “zero”. Ma la meglio ce l’ha il vino. «Mi piace accompagnare il pasto con un buon bicchiere – afferma -, in particolare amo i rossi piemontesi. In fresco invece tengo le bollicine della Franciacorta, che fanno sempre festa». E non dimentica il territorio. «Pur partendo da ingredienti spesso poveri, la cucina mantovana è molto ricca, tanto da essere detta “la cucina dei principi” – spiega -. I tortelli di zucca sono un emblema ed ho la fortuna di avere una mamma che li fa in casa. Sono però un piatto prevalentemente invernale, così come i cotechini e gli zamponi, che preparo per mio marito». Della Bergamasca apprezza i funghi, la polenta taragna e i formaggi: «Branzi, Taleggio e alcuni stracchini li compro a Bergamo perché sono particolari».

Coerente con i suoi gusti è il reparto surgelati. «Sono pochi – rivela Patrizia Graziani – e semplici, come gli spinaci, il misto di pesce per preparare il risotto o i gamberetti, che mi piace aggiungere alle insalate». Niente piatti già pronti, invece. «Anche se si ha poco tempo, è molto meglio una pasta in bianco fatta al momento con un po’ di Parmigiano – dice -. Se gli ingredienti sono di qualità il risultato è comunque ottimo». Attenta è anche la sua gestione delle scorte. «Ritengo lo spreco un peccato – rileva -. Cerco di misurare gli acquisti e di non lasciare scadere i prodotti, il compito, del resto, è facilitato dal fatto che, con mia figlia che ha ormai preso la sua strada, siamo solo in due in casa».

«Non sono tra quelle persone che con il cibo hanno un rapporto simbiotico – riflette ancora -. Non mangio in grandi quantità e infatti sono molto magra, ma apprezzo i piaceri della tavola, la qualità dei prodotti, scoprire sapori particolari e percorsi». Quando si tratta di spezzare la tensione, però, sgranocchiare qualcosa aiuta e si lancia sui pomodorini Pachino, «sono gustosi ed hanno l’effetto delle ciliegie, uno tira l’altro». E qualche defaillance domestica l’ha avuta anche lei. «È ormai diventata una barzelletta di famiglia quella volta che nel frigorifero ci ho dimenticato le chiavi di casa: così almeno le ho ritrovate, sarebbe stato peggio averle perse», ricorda divertita.

Il cantante

Il Bepi, «è il frigo di un single che non sa cucinare e non ha voglia di lavare i piatti»

Ci mette poco Il Bepi a passare in rassegna il contenuto del suo frigo: affettati confezionati e piadine, formaggio, sempre per farcire la piadina, birra, vino bianco (ché quello rosso non va al fresco), frutta, della quale si dice molto goloso, e poi mozzarella, insalata e pomodori, le uniche verdure che trovano posto negli scomparti. «In verità ho visto esempi ben più desolanti», si smarca il cantautore e conduttore tv di Rovetta, al secolo Tiziano Incani, che del dialetto e delle radici ha fatto la sua cifra espressiva. «Il mio è il frigorifero di un single che non ama e non sa cucinare e che non ha nemmeno voglia di lavare troppi piatti, tanto meno padelle – spiega -. Se somiglia al Bepi? Direi nell’essenzialità, nella scelta di cibi semplici che non vuol dire di scarsa qualità e valore. Preferisco sfuggire invece al luogo comune del personaggio tutto “salàm de fèta zo” (il rito di affettare il salame intero ndr.): mi piacciono i salumi, ma anche le insalatone col tonno e non vado certo in crisi d’identità per questo».

Pur se gli capita spesso di mangiare fuori («soprattutto pizza o kebab»), non sono rare le occasioni in cui si gode, a orari umani, la sua cena ideale – a base di piadina o insaltona, appunto – felice di starsene da solo, «sul terrazzo nell’una o due sere di tutta l’estate in cui la temperatura a Rovetta concede di stare all’aperto». «Il vero dilemma della cena è se accompagnarla con il vino o la birra – confessa -. Dipende un po’ dall’umore, dalla giornata, dalle sensazioni, sono due piaceri diversi. Non sono di quelli che rifuggono l’acqua ai pasti – precisa -, non mi dispero se c’è, ma con una birretta è un’altra cosa». La sua preferenza nel tempo è passata dai sapori particolari delle rosse ad alta gradazione alle più fresche e leggere bionde tedesche o alle più amarognole e agrumate Ale. Quanto ai salumi, «quello che si trova più facilmente in frigo è lo speck – racconta -, sono amante di tutti i prodotti dell’Austria e del Tirolo, ad eccezione dei crauti. Poi c’è il prosciutto cotto, che va sempre bene se c’è qualcuno a cui offrire un boccone, e la coppa». «Forse non è proprio un’alimentazione sana – gli viene il dubbio -, ma in fondo alterno spesso con le insalatone», si rasserena.

Non è però goloso di dolci e sul cibo non ha un atteggiamento compulsivo. «Sono vanitoso quanto basta per frenarmi, non mi piace l’idea di vedermi grasso – dice Il Bepi -. Con l’alimentazione ho un rapporto garbato, non viscerale. Quando poi mi voglio viziare scelgo con cura locali dove mangiare e bere bene». Per quanto poco assortito, il suo frigo non è mai vuoto. «Il cibo è comunque conforto, consolazione – annota – e non mi va di tornare a casa, magari dopo una giornata impegnativa, e non trovare niente». Se le sue cene da single lo appagano, il problema di essere da solo in casa si manifesta con gli omaggi gastronomici che riceve. «A volte mi regalano vasetti di salsine sfiziose – evidenzia -, le utilizzo una volta o due, ma poi è inevitabile che vadano a male, servirebbero delle confezioni più piccole. È lo stesso motivo per cui non compro maionese o salsa tonnata. E poi ci sono i salumi. Se mi offrono una pancetta che faccio? La regalo a mia volta, anche se, per la verità, mi piacerebbe almeno assaggiarla».

Un’altra controindicazione dei suoi pasti casalinghi è che può capitare di “rilassarsi” un po’ troppo. «In una di quelle sere che avevo deciso di dedicare a me stesso – ricorda – ho fatto onore a un buon bianco. Proprio quella sera un vicino aveva scoperto chi fossi e deciso di farmi visita per conoscermi. Credetemi, ho cercato ogni modo per far sì che la conoscenza non si approfondisse in quella circostanza…».


Da Ghisalba a Nocera Umbra per rilanciare le birre “trappiste”

Con quella barba lunga, lo sguardo mistico e la pacatezza nel parlare, Giovanni Rodolfi potrebbe essere tranquillamente uno dei religiosi che vivevano tra le mura del Monastero di San Biagio, a Nocera Umbra, in un’oasi di silenzio perfetta per meditare e per riflettere sui massimi sistemi.

Invece il campo di azione prediletto di questo bergamasco, originario di Ghisalba, ma trapiantato nel Centro Italia, è il mondo delle birre artigianali, che, nell’azienda agricola – ospitata all’interno del monastero, oggi con hotel, azienda agricola, punto ristoro e area di bio-benessere – vengono prodotte riscuotendo un successo capace ormai di superare i confini regionali. È proprio il mastro birraio a raccontarci, in qualche battuta, le vicende che lo hanno portato a trasferirsi qualche anno fa dalla campagna bergamasca alle colline umbre.

«Il mio approdo in terra nocerina – afferma Giovanni Rodolfi – avviene nel 2009 ed è dovuto all’amore per la mia attuale moglie Cleonice, anche lei bergamasca. Molti anni fa, lavoravo per la Heineken, ma quando ci siamo sposati ho fatto la scelta di spostarmi in Umbria dove lei già viveva. E con questa rivoluzione familiare si sono aperte delle possibilità per sviluppare un’attività brassicola nell’Antico Monastero di San Biagio. L’idea in fin dei conti era quella molto semplice di valorizzare le risorse del territorio. Quando al monastero sono terminati i lavori di ristrutturazione, s’è iniziato a pensare a quale economia potesse far vivere le persone del luogo e qui c’erano già dall’inizio due elementi che si sposavano bene per la produzione della birra. Innanzitutto – continua Rodolfi – l’esistenza di un antico monastero e, com’è ben noto, stiamo parlando di luoghi che hanno da sempre ospitato una tradizione brassicola in tutta Europa, basti pensare alle trappiste in Belgio. E poi la qualità dell’acqua di Nocera Umbra, da unire ai luppoli, ai lieviti e ai malti ricavati dall’orzo di nostra produzione».

Le Birre San Biagio, tra le pochissime artigianali d’ispirazione monastica prodotte in Italia, sono tutte non filtrate, non pastorizzate e rifermentate in bottiglia, e vogliono in qualche modo rappresentare il luogo dalle quali provengono mantenendo una forte identità locale e una forte distinzione dalle tante che ormai si trovano in commercio.

«Noi siamo una delle tante tra le diverse realtà di birrifici artigianali che sono nati negli ultimi anni in tutto il mondo – spiega il mastro birraio – e qualcuno potrebbe dire ormai ce ne sono perfino troppi. Eppure, bisogna pensare che si tratta semplicemente di un ciclo naturale dell’economia. Prendiamo il mondo del vino. Quando si lavora troppo con la chimica e il prodotto tende alla standardizzazione, ecco che nascono i vini bio-dinamici. Così sta accadendo anche con la birra, e se pensiamo al numero di cantine vinicole che ci sono in Italia forse possiamo dire che c’è ancora un notevole margine di crescita. Poi è chiaro – aggiunge Rodolfi – che noi a San Biagio cerchiamo una via personale e una interpretazione che in qualche modo leghi le due vocazioni del luogo e il lavoro interno all’azienda, ovvero la coltivazione di piante officinali e le birre. Per questo motivo l’idea per il futuro è proprio quella di creare un laboratorio birrario, magari lavorando anche sulla zitologia, sull’unione del cibo con la birra e sulla didattica. Quando si abbina la birra si tende sempre ad abbinare per similitudine e non per contrasto. E per questa ragione è molto più facile abbinare la birra che il vino».

monastero san biagio - nocera umbra

Rodolfi però ha le idee chiare anche sul mondo della birra ai tempi nostri e sulle differenze che esistono tra l’Italia e gli altri Paesi: «In Italia abbiamo poca cultura in campo birraio. La stiamo rubando in giro per il mondo grazie alla grande volontà dei micro-birrifici. Direi che il fenomeno delle birre artigianali è trasversale e lo trovi ovunque, in tutte le nazioni. Sino all’altro ieri, ma diciamo pure 20 anni fa, la birra in Italia era… la bionda, per tutta la vita. Oggi il fenomeno artigianale sta facendo scoprire il gusto della birra cruda, naturale, con etichette innovative e prodotti interessanti. Poi è chiaro che se vai soprattutto verso il Nord Europa, la cultura è più birraria, ed è dovuta ad un fattore molto semplice. Da quelle parti non hanno mai avuto la possibilità di selezionare vitis vinifera e le coltivazioni presenti portavano naturalmente a lavorare sulla realizzazione di birre. Ci sono poi 3 grandi culture della birra da considerare: quella tedesca con prodotti più leggeri e puri; quella belga, dove i birrai sono invece più liberi di sperimentare e, infine, quella anglosassone, ma per quest’ultima ci vorrebbe un capitolo a parte solo per descriverne le caratteristiche».

E per quanto riguarda i prezzi? Cosa si può dire? Sono corretti, sono alti o bassi? «È semplice – risponde Rodolfi -. Ogni prodotto fa storia a sé e dipende a che tipologia di birre ci si riferisce. Se si tratta di multinazionali come Heineken e Carlsberg, di semi-artigianali come Forst, Pedavena o Menabrea, di artigianali (vedi Baladin, Il Ducale) o quasi familiari come la nostra San Biagio. In tutti questi casi il prezzo varia anche sensibilmente, come per il vino, e spesso dipende dalla capacità di vendere immagine».

Il Monastero di San Biagio oggi è molto diverso da come uno può immaginare sia abitualmente un luogo di preghiera e di raccoglimento in mezzo alla natura. Qui le antiche celle dei monaci sono state trasformate in comode e accoglienti stanze per gli ospiti, la cucina ha il piglio rustico e i sapori della tradizione locale, sostenuti da un certo gusto e da una buona qualità, dettata non solo dall’ottima materia prima, ma anche dall’attenzione verso il cliente e le sue esigenze. La struttura vive di un rural-chic decisamente intrigante e mantiene intatte le caratteristiche di luogo a stretto contatto con la natura, dove ci si occupa del benessere psico-fisico, si gode della pace e del silenzio (nelle stanze non ci sono televisori e l’utilizzo del wi-fi è limitato) e dove si brinda davanti a un buon bicchiere di birra monastica.

Le Birre di San Biagio sono la Monasta, un’ambrata doppio malto da abbinare a secondi di carne o salumi e formaggi stagionati; la Verbum, una weizen ideale con la pizza o con gli antipasti di pesce; la Gaudens, una pils perfetta con primi piatti leggeri; l’Ambar, una ale scura doppio malto che si può abbinare con facilità sia alla ostriche che, a fine pasto, con dolci al cacao, e infine la Aurum, una strong ale chiara da sorseggiare con i secondi di carne e salumi o i formaggi stagionati.


Bergamo vista da Gualtiero Marchesi. Peccato che i formaggi siano camuni

Ci sono anche Bergamo e le Valli tra i sette itinerari firmati da Gualtiero Marchesi per mostrare il “Bello e il Buono della Lombardia” nell’ambito del progetto #SaporeinLombardia promosso da Explora e presentato nei giorni scorsi.

L’obiettivo è promuovere l’attrattività turistica ed enogastronomica con percorsi tra tradizione, cultura e storia locali. I racconti vengono sintetizzati in video, racconti, ricette, un libro e un sito web e oltre a quello su Bergamo ci sono i capitoli “Milano”, “Cremona e Mantova”, “Valtellina”, “Franciacorta e Lago di Garda”, “Brianza e Pavia”, “Lago di Como e Varese”.

I confini territoriali però non sono proprio così rigidi. La sezione dedicata alla nostra provincia ha infatti come sottotitolo “Dove nasce la Rosa Camuna” e nel video, mentre si fa rifermento ai nove formaggi Dop del Bergamasco, si citano invece le specialità della Valle Camonica come il Silter e la Rosa Camuna, appunto, oltre al Grassina Val d’Angolo e al Casolet, che ha origini trentine ma è preposto anche in terra bresciana.

Non mancano comunque i riferimenti più schiettamente nostrani, come il pastore Danilo Agostini che richiama le sue pecore, in apertura del video, la sosta del maestro Marchesi da Alessia Mazzola, chef di Al Gigianca che prepara i casoncelli ed un suo piatto di carne di pecora gigante bergamasca con crema di patate e chutney di barbabietola, passando per il monastero di Astino, luogo del cuore di Gino Veronelli, per la Fondazione Donizetti, Lovere e l’Accademia Tadini, la cucina della famiglia Cerea.

È vero che quando si parla di turismo e attrattività le frontiere è meglio abbatterle, ma forse un po’ più di precisione non sarebbe guastata.


“Pioniere” del Valcalepio, a Falconi di Villongo l’onorificenza di Cavaliere

«Con orgoglio posso asserire di aver iniziato a 7 anni a pigiare con i piedi l’uva nei tini e di aver portato sulle spalle la famosa “brentina” e la “barile”». Parole di Angelo Falconi, titolare dell’Azienda Vinicola Valcalepio dei Fratelli Falconi di Villongo, che in occasione della Festa della 2 giugno è salito sul palco di piazzale Alpini a Bergamo per ricevere dalle mani del prefetto Francesca Ferrandino il diploma dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito della Repubblica Italiana”, concessa dal presidente Sergio Mattarella, su proposta della presidenza del Consiglio dei Ministri, e assegnata quest’anno in totale a 9 bergamaschi, ai quali si aggiunge un’onorificenza di Ufficiale.

Falconi è originario della frazione Collepiano del comune di Adrara San Martino, località già vocata per la coltivazione della vite, da dove proviene la sua famiglia. “Colplano”, in latino, è citata in un testamento redatto dal notaio Flaccadori e depositato presso l’Archivio notarile di Stato, che documenta di un lascito ai poveri di Adrara di due carri di vino da parte di un certo Bernardo Falconi nel 1533. La tradizione di operosità della famiglia Falconi come viticoltori sulle colline di Collepiano ha dunque radici lontane.

Nel 1948 la famiglia al completo si trasferisce nel capoluogo, ad Adrara, e più avanti a Villongo. Nel 1952 i Falconi sono obbligati a fare la licenza di commercio pur continuando a coltivare la vite e a produrre vino con iscrizione all’Associazione Coltivatori Diretti.

È nel 1952 che nasce l’Azienda Vinicola Valcalepio. Ricorda Angelo Falconi: «Ritiravamo il mosto di vino dai viticoltori della zona Valcalepio, essendo la nostra produzione, nonostante fosse cospicua, insufficiente ad accontentare la nostra affezionata clientela. È per questo che è nata l’idea di chiamare la nostra Azienda Vinicola Valcalepio. Fino alla nascita, nel 1974, del disciplinare della Denominazione di origine controllata abbiamo sempre venduto il vino con la dicitura Rubino di Valcalepio per il rosso e Fior di Valcalepio per il bianco». Precoce quindi l’intuizione della famiglia, che ha creduto nella vocazione vinicola della valle dalla quale provenivano le uve utilizzate per la vinificazione.

Cav.Angelo FalconiL’Azienda ha potuto continuare a tenere in etichetta la denominazione di Azienda Vinicola Valcalepio dei F.lli Falconi ricevendo tramite decreto l’autorizzazione del Ministero dell’Agricoltura e Foreste di Roma.

Angelo Falconi, 74 anni con oltre 50 di lavoro in azienda, è ancora impegnato in prima persona nell’attività, che ha sede sulla strada provinciale per i Colli di San Fermo e si dedica all’imbottigliamento e alla commercializzazione, forte di una consolidata clientela.

Associata al “Consorzio Tutela Valcalepio”, è un’impresa storica e una delle prime vinicole bergamasche, premiata anche nel 2012 dalla Camera di Commercio di Bergamo con il Riconoscimento del lavoro e del progresso economico.