I piatti della devozione: una ricetta per ogni mese dell’anno

Usanze culinarie e tradizioni per celebrare santi e patroni: viaggio nella tradizione bergamasca e non solo

 

L’Italia è un Paese di santi, poeti, navigatori e… ricette per i santi. Sono numerosissime le usanze culinarie legate alla devozione, piatti preparati nei giorni di festa o che sono legate a un santo, ricette create per celebrare il culto, le cui origini sono spesso legate a fatti storici o a leggende. Vi proponiamo un viaggio nella tradizione bergamasca e non solo.

 

Gennaio – A BRESCIA E MANTOVA CHISÖL DI SANT’ANTONIO

Sant’Antonio Abate si festeggia il 17 gennaio. C’è una tradizione, che somiglia a una superstizione, legata al giorno a lui dedicato. Il detto recita S’at fe mia ‘l chisöl par Sant’Antoni chisuler at casca in testa al suler ovvero «se per Sant’Antonio Chisuler non prepari il chisöl, ti cade in testa il tetto». A seconda della zona, il chisöl può assumere la forma di un pane, una schiacciata con i ciccioli di maiale o dolce, di un ciambellone morbido oppure di un bussolano, una ciambella a pasta dura. Scegliete il chisöl che più vi aggrada, ma non dimenticate di infornarlo il 17 gennaio se non volete vedere crollare il tetto della vostra casa sotto il peso della neve.

Febbraio – LE NAVETTE CHE SALVARONO LE TRE MARIE IN PROVENZA 

Le navettes sono un biscotto tipico marsigliese, a forma di barca, aromatizzato ai fiori d’arancio e legato a una tradizione antichissima. Ogni anno il 2 febbraio, il giorno della Candelora, prima dell’alba, al termine di una processione, il vescovo di Marsiglia benedice le navette e il loro forno, situato di fronte all’abbazia di Saint Victor. La forma rimanda alla barca senza vela e senza remi che portò in salvo sulle coste della Provenza le tre Marie (Maria Maddalena, Maria Jacobé e Maria Salomé) in fuga da Gerusalemme. Il giorno della ricorrenza se ne comprano, o se ne infornano, 12 per simboleggiare i mesi dell’anno durante i quali si spera di ricevere protezione.

Marzo – LE FRISCEU DOLCI (E SALATE) DI SAN GIUSEPPE

Le frittelle di San Giuseppe, o frisceu de San Giòxeppe, a Genova sono golose palline fritte arricchite da qualche acino di uva zibibbo. La tradizione di friggere nel giorno dedicato al santo, il 19 marzo, è radicata in tutta la Penisola. Si pensa alle frittelle dolci arricchite con pezzetti di mela, che nelle friggitorie si trovano solo in quel periodo. Tutto l’anno c’è, invece, la versione salata: la pastella con cui sono preparate è più leggera e al suo interno sono fritti pezzetti di baccalà, stoccafisso, cavolfiore, borragini, lattughe o cipolle. Sono serviti come antipasto, ma sono anche un ottimo spuntino a merenda.

Aprile – A GANDINO CRUCA IN TAVOLA NELLA SETTIMANA SANTA
La cruca è un panettone povero e basso, preparato in Quaresima dai fornai di Gandino, dalle origini che risalgono al ‘400. “E’ una vivanda fatta con farina di frumento, zucchero, uva candiotta e altre droghe, cotta nell’olio”, scriveva Antonio Tiraboschi nel 1873 nel suo “Vocabolario dei dialetti bergamaschi”. Gli ingredienti sono legati alle contaminazioni gastronomiche favorite nei secoli dai commercianti di pannilana. Si usano cannella e uva di Candia che arrivava da Creta a Venezia, dove i gandinesi avevano fiorenti contatti.  Tutti ricordano le cruche preparate fino agli anni ’60 da Angelo e Pietro Motta, due fratelli che gestivano i forni in contrada Cerioli e sul sagrato della Basilica.

Maggio – FESTA DELLA TRINITA’ CON CHESCIOLA A CASNIGO 

Il santuario della Santissima Trinità a Casnigo è definito “la Sistina della Bergamasca” per il grande Giudizio Universale affrescato dai Baschenis. Secondo la tradizione, anticamente, in occasione della festa della Trinità (tra maggio e giugno, a seconda del calendario liturgico) l’edificio religioso ospitava un mercato che durava una settimana. Ogni anno, in occasione della festa è riproposta la tradizione del lacc è chésciöla, un dolce povero che le donne preparavano in occasione della festa usando la pasta fatta lievitare il giorno precedente e miscelata poi con latte, uova, burro, uvetta e zucchero, il tutto consumato con latte fresco.

Giugno – LA TORTELLATA IN ONORE DI SAN GIOVANNI

Nella notte del 23 giugno, che precede il giorno della ricorrenza di San Giovanni, a Parma e provincia, è tradizione cenare con i tortelli di erbette,  all’aperto, così da essere bagnati dalla rugiada, che fin dall’antichità, è considerata purificatrice e tiene lontano i malanni. Le goccioline simboleggiano il sangue versato dal capo di San Giovanni. Nella stessa notte, si raccolgono anche le noci per fare il nocino. I tortelli si preparano con pasta fresca, uova e farina, un ripieno di ricotta, erbette e Parmigiano Reggiano. Il ripieno va messo al centro di una sfoglia alta 8-10 centimetri e ripiegata su se stessa: il tortello è chiuso su tre lati e poi tagliato con una rotella dentellata.

Luglio – PIZZELLE FRITTE CON POMODORO FRESCO PER SANT’ANNA

Il 26 luglio si celebra la festa di Sant’Anna. Una ricorrenza che, a Borgo Croci in provincia di Foggia, si onora portando in tavola le pizze fritte con, sopra, sugo di pomodoro fresco: sono preparate insieme ad altri piatti tipici seguendo un rituale ricco di simbologia. L’impasto della pizza è fatto lievitare, poi è diviso in porzioni e fritto solo dopo averlo steso in piccoli dischi dal diametro di una decina di centimetri. Una volte fritte, le pizzelle sono condite con un cucchiaio di sugo di pomodoro e spolverate dal parmigiano.

Agosto – LA CORONA DI SAN BARTOLOMEO CHE FA FELICI I BAMBINI

La corona di San Bartolomeo è tipica di Pistoia e si prepara per la ricorrenza del santo, il 24 agosto. E’ composta da gustosi dolcetti di pasta frolla e consiste in collane fatte di pippi infilzati in uno spago. I pippi sono biscotti di pasta frolla dalla forma rotonda, abbelliti con pallini colorati e impreziositi da cioccolatini, quasi fossero gemme preziose, soprattutto sul medaglione centrale. I cioccolatini sono aggiunti subito dopo aver tolto i pippi dal forno, quando la pasta è ancora abbastanza morbida da permettere al cioccolatino di aderirvi. I bambini “spippolano” la corona togliendo i dolci dallo spago.

Settembre – A BARZIZZA E LEFFE I MICHINI PER SAN NICOLA

La devozione a San Nicola da Tolentino nella parrocchia di Barzizza, frazione di Gandino, risale ai tempi della diffusione della peste e si allarga agli abitanti di Leffe, che fecero voto al santo per essere liberati dal morbo. A Barzizza il 10 settembre si celebra la novena dedicata a San Nicola. A questa festa patronale è legata la tradizione dei “michini”, piccoli pani non lievitati formati da minuscole pernici disposte attorno a un pozzo, a ricordo di un miracolo di San Nicola che ridiede vita ad alcuni volatili. Le volontarie ne preparano diverse centinaia, per proporli ai fedeli dopo la benedizione che è impartita la domenica precedente alla ricorrenza liturgica del santo.

Ottobre – I MOSTACCIOLI TANTO AMATI DA SAN FRANCESCO

I mostaccioli di San Francesco, patrono d’Italia, che si festeggia il 4 ottobre, sono dei gustosi biscotti. C’è chi mette uova intere, chi lievito, chi usa la pasta di pane. La ricetta migliore è quella di Frate Indovino: in  una ciotola si mettono le mandorle, il miele, gli albumi, il mosto, il pepe e la cannella e si inizia a mescolare con una forchetta; si unisce anche la farina e si impasta con le mani, ritagliando i biscotti a forma di losanga, larghi quattro centimetri.  Si racconta che il poverello d’Assisi ne fosse ghiotto, tanto che prossimo alla morte dettò una lettera destinata all’amica Giacoma de’ Settesoli perché gli portasse i dolci che tanto amava.

Novembre – OCA CON LE VERZE PER SAN MARTINO

Il giorno di San Martino, l’11 novembre, si festeggia con una ricetta simile alla cassoeula, ma con carne di oca al posto del maiale. Si tritano cipolla e sedano, si mettono in un tegame con il burro e due cucchiai di olio e si fanno soffriggere. Poi si unisce l’oca in pezzi e la si fa rosolare, salando e pepando e lasciandola cuocere per 40 minuti. Quando l’oca è quasi a cottura, si taglia la verza a striscioline, la si lava e scola. Si mette la pancetta in un tegame con due cucchiai di olio e la si fa soffriggere; si unisce la verza, lasciandola appassire. Poi si mettono l’oca, il brodo caldo e si fa cuocere per 30 minuti. Da servire accompagnata da polenta.

Dicembre – GLI OCCHI DI SANTA LUCIA PUGLIESI

Sono taralli morbidi pugliesi in versione dolce, preparati con farina, olio d’oliva e vino bianco e ricoperti con una glassa bianca a base di acqua e zucchero chiamata sclepp. Alcune varianti prevedono aromatizzazioni all’anice e alla vaniglia. Tipici di Bari, si servono il 13 dicembre, ma si possono consumare anche durante le festività natalizie. In Abruzzo gli occhi di Santa Lucia sono biscotti all’anice a forma di occhiali. In Sardegna si benedicono i biscotti, nome che viene dall’unione della parola biscottos, biscotti, e di ocros, occhi. Sono dolcetti dalla forma rotondeggiante, incisi al centro a simboleggiare la fessura delle palpebre e farciti con marmellata, in genere di mirtilli.

 


La rivincita della barbabietola: da prodotto povero a protagonista di piatti stellati

C’è quella da zucchero e quella da foraggio, quella da orto e la «cruenta»; gli antichi più che in cucina, la utilizzavano per le sue proprietà medicinali, tanto che ancora oggi è considerata un toccasana per le ossa grazie alle sue intrinseche quantità di calcio e magnesio, oltre che un’arma efficace – chi l’avrebbe mai detto? – contro la depressione. Insomma, si fa presto a dire barbabietola. La sua fama, inutile nascondersi, non è tra le migliori: sarà per il suo colore rosso scuro non troppo accattivante o per il sapore dolciastro che è in grado di sprigionare e che difficilmente sposa i gusti dei palati più sopraffini e delicati. Tubero fin troppo bistrattato rispetto alla più democratica patata o al «trendissimo» topinambur, la barbabietola sta tuttavia concedendosi un meritato riscatto in cucina, grazie soprattutto all’intuizione e all’azzardo di qualche chef. Perché di azzardo, in fondo, si tratta, quando si decide di proporre ai clienti dei propri ristoranti, anche stellati, una ricetta a base di questo ingrediente povero dell’orto e ancora poco apprezzato, perché forse troppo poco conosciuto.

Vincente per Enrico Bartolini

Ma quando a cedere alla tentazione di rielaborare la barbabietola, rendendola addirittura protagonista di un piatto «stellato», è nientemeno che l’enfant prodige della cucina italiana Enrico Bartolini, 42 anni e 8 stelle Michelin nel suo palmarès, allora forse è il caso di soffermarsi un attimo per capire quali risorse può offrire alla carta di un ristorante (e, perché no, anche alla cucina di casa), un ingrediente come la rapa rossa. L’azzardo che ormai 16 anni fa ha portato Enrico Bartolini a proporre un risotto con barbabietola e gorgonzola ha premiato il pluristellato cuoco toscano – presente a Bergamo con il suo «Casual» di Città alta – al punto che quella ricetta oggi rappresenta il suo piatto più iconico, cucinato su richiesta in ogni parte del mondo, dall’America all’Estremo Oriente, agli Emirati, fino agli appuntamenti mondani più prestigiosi, come la «prima» della Scala. 

Prima di lui lo aveva fatto anche il maestro della cucina italiana e del risotto, Gualtiero Marchesi; ma è grazie ad Enrico Bartolini e alla sua intuizione durante un soggiorno in Oltrepò Pavese, che la barbabietola ha iniziato ad entrare nelle carte dei ristoranti. «In Oltrepò le rape rosse si coltivano, così come il riso – dice lo chef –. E siccome da quelle parti si ha l’abitudine di mangiare gorgonzola, mi sembrava che un risotto con questi ingredienti potesse raccontare il bene territorio». Così nel 2005 nacque la ricetta che Bartolini proposte da subito nel suo ristorante «Le Robinie Bistrot» di Montescano (Pv). «È stato apprezzato così tanto – ammette – che non abbiamo più smesso di farlo. La combinazione di questi ingredienti è risultata piacevole al gusto e alla vista e per anni è rimasto in carta. A un certo punto, sembrava che questo piatto avesse un aspetto tecnico più debole rispetto ad altri, perciò abbiamo pensato di complicarlo un po’, aggiungendo un’essenza di noci e una salsa di ciliegie o di more, in base alla stagione: le note della frutta esaltano l’acidità della rapa, mentre il gusto della noce è tannico, profumato, quasi amaro e dà un grado di complessità al piatto».

Inutile chiedere allo chef se pensa di rimettersi di nuovo in gioco con un’altra ricetta a base di barbabietola: «È un ingrediente ricco di personalità – dice – e non avendo carte molto lunghe nei miei locali, sarebbe una ripetizione. È un ortaggio cui sono molto affezionato, ma arriva inevitabilmente il momento in cui c’è voglia di cambiare. Quando iniziammo a utilizzarla, la barbabietola si usava molto poco. Ricordo che da piccolo, negli hotel, vedevo queste rape tagliate, messe nei barattoli che sapevano di terra. Forse per questo ne abbiamo un ricordo sbagliato. Oggi la barbabietola è molto popolare, soprattutto nelle cucine del Nord Europa, dove un tempo veniva data da mangiare alle mucche o spedita per le mense ospedaliere in altri Paesi».

In Italia c’è anche chi ha provato a centrifugarla e a servirla al ristorante come aperitivo, «ma è una tecnica che rilascia le proprietà lassative della barbabietola – avverte Bartolini –, per cui non mi sembra una buona idea. Detto questo, vedo che c’è senz’altro della creatività attorno a questo ingrediente, che probabilmente sta prendendo sempre più piede in questi anni. Se coltivato bene è buono e può dare spunti interessanti a chi lo cucina».

 

Divertente per Filippo Saporito

Decisamente più consono è l’utilizzo che fa della barbabietola Filippo Saporito, chef dello stellato «La Leggenda dei Frati» di Firenze, che pure la propone come antipasto: «Amo molto il mondo vegetale e cerco sempre di esaltarlo al massimo – dice –. La scelta della barbabietola arriva da uno stimolo di alcuni clienti vegani. Noi abbiamo sempre in carta un menù pensato per loro, ma che è in grado di accontentare un po’ tutti. Utilizzare la barbabietola mi diverte, innanzitutto perché inganna l’occhio, sembrando una bresaola, poi perché si possono comporre piatti colorati, freschi e con sapori delicati. E i nostri clienti rimangono piacevolmente stupiti. Fino a 10 anni fa era persino difficile trovarla cruda, oggi con l’avvento della cucina nordica c’è stato senz’altro un ritorno anche nelle nostre cucine».

Versatile per Massimo Amaddeo

A Bergamo, l’estate scorsa, è stato il ristorante «Da Mimmo ai Colli» a proporre la barbabietola in più versioni nei suoi menù: non solo come ingrediente di punta nel risotto, ma anche nell’impasto degli gnocchi o preparata a maionese nei club sandwiches. «È senz’altro un tubero molto interessante, che dà molto colore ai piatti e che quindi può essere una scelta vincente – spiega il titolare del ristorante, Massimo Amaddeo –. Cruda, cotta o rielaborata in tanti modi, la barbabietola può dare grandi soddisfazioni. Si possono fare gli gnocchetti, per esempio, inserendo nell’impasto spezie come la cannella, che dà una spinta forte, in contrasto con la dolcezza della barbabietola. Un ottimo condimento può essere un crumble di Agrì di Valtorta, che è presidio SlowFood, oppure lo Strachitùnt, con il suo naturale contrasto di bianco e blu». Una ricetta “veloce” per un’esperienza culinaria senza dubbio inedita (meglio se arricchita da foglie di salvia fritta come decorazione). «Come tutti i tuberi – dice ancora Amaddeo – la barbabietola è un po’ bistrattata. Peccato, perché la natura ci ha dato una biodiversità incredibile, che spesso non sfruttiamo. In particolare, la barbabietola ha sempre suscitato un po’ di diffidenza, forse a causa del suo particolare aspetto cromatico, ma ora la gente si sta avvicinando. Non è invadente nei piatti, quindi non predomina, anche se bisogna saper dominare quel suo carattere dolciastro per raggiungere un equilibrio apprezzabile. Noi, per esempio, l’abbiamo proposta anche come piatto da finger o da pranzo e, in chiave più moderna, preparando una maionese di barbabietola con pane tostato, verdure e formaggio».

Dopo i suggerimenti degli chef, torniamo a scoprire qualche altra proprietà «nascosta» della barbabietola. Ricca di sali minerali, vitamine e oligoelementi, è anche un ricostituente naturale contro stanchezza, mancanza di appetito e anemia grazie alla presenza di microelementi che rivitalizzano i globuli rossi e riequilibrano i livelli di ferro nel sangue. Pochi ingredienti in cucina hanno un colore così acceso: quello della rapa rossa è dovuto alla betaina, un pigmento solubile in acqua; dalle barbabietole si estrae un colorante naturale che viene normalmente utilizzato nell’industria alimentare, ma anche per la tintura tradizionale di tessuti.

 


Aglio orsino, un’erba spontanea sempre più amata in cucina 

Il suo aroma particolare lo rende perfetto nella preparazione di moltissime ricette

Sarà per l’aroma che ricorda l’aglio, sarà perché cresce facilmente in molte zone della penisola italiana, sarà che è facile da riconoscere, raccogliere e lavorare, ma l’aglio orsino sta avendo un grande successo tra cuochi e appassionati. 

Cosa è e dove si raccoglie

L’aglio orsino non è nient’altro che una spontanea che cresce bene nei boschi di tutta Italia: la nostra provincia ne è piena, soprattutto in concomitanza dei torrenti e dei corsi d’acqua, dove si creano zone vallive con acqua piovana stagnante. Le zone umide sono infatti quelle perfette per la sua crescita e il suo sviluppo. Passeggiando tra i boschi, quando la si incontra, si viene subito avvolti dal suo piacevole profumo, un po’ come avviene con l’erba cipollina.
Le foglie sono larghe e lanceolate, dalla consistenza carnosa e dal colore verde scuro lucente. Si riconoscono molto facilmente perché crescono fitte sul terreno senza lasciare spazio ad altre erbe e, quando si spezzano, rilasciano il piacevole sentore. Per il primo mese le foglie sono soggette a un rapido sviluppo, poi compaiono i bulbi che danno vita a l’infiorescenza. I fiori, piccoli e bianchi, sono perfetti per decorare e guarnire i piatti. Entrambe le parti possono essere utilizzate in cucina (così come il bulbo): oltre all’aroma, le parti fogliari presentano caratteristiche gustative molto simili all’aglio, senza però avere l’inconveniente della difficile digestione. 

È una delle prime specie aromatiche a comparire e già dalla prima metà di marzo si possono osservare le prime foglie spuntare dal terreno e, pian piano, coprire il terreno circostante. La fioritura invece avviene più tardi, verso la prima metà di aprile. Ci sono anche diverse aziende agricole dedite alla coltivazione delle erbe spontanee che stanno iniziando a coltivarlo, al fine di trasformarlo in conserva e renderlo disponibile così tutto l’anno. La sua raccolta è molto semplice: basta tagliare le foglie alla base e pulirle bene prima di lavorarle. 

 

I principali utilizzi in cucina 

Sono davvero molte le ricette che è possibile valorizzare attraverso il corretto utilizzo di questa erba spontanea, sia a crudo che cotto. Le sue foglie, ma anche i suoi fiori, si possono utilizzare a crudo, ad esempio, per guarnire un’insalata primaverile, ma anche per aromatizzare il burro da utilizzare in abbinamento a carni e pesci, specialmente dopo la cottura sulla griglia. Si prepara lavorando il burro con uno sbattitore elettrico e, successivamente, bisogna sminuzzare la foglia incorporandola al composto che va trasferito su un foglio di carta da forno, dandogli la forma desiderata. Si conserva in frigorifero e lo si utilizza tagliandone un pezzettino alla volta, secondo necessità: è perfetto, ad esempio, in abbinamento a una bistecca di manzo cotta sulla brace, ma anche a una braciola di maiale oppure a un branzino appena grigliato. È possibile anche insaporire una minestra di verdure, una zuppa oppure una vellutata. Ma anche saltato in padella con fresche mazzancolle dei nostri mari. Le foglie di aglio orsino, precedentemente cotte, sono perfette anche per guarnire la frittata, ma anche una torta salata o delle polpette. 

Ma proviamo a pensarlo anche come ingrediente in un risotto, in abbinamento a un formaggio erborinato o ben stagionato, ma anche a uno stracchino stagionato a dovere, dove gli aromi dati dalla proteolisi spinta ben si amalgamano a quello dell’erba. Oltre all’abbinamento con il formaggio, è perfetto anche quello con insaccati e salumi grassi, come una buona salsiccia artigianale oppure la pancetta croccante. La foglia, essendo resistente, è ottima anche per essere utilizzata per la preparazione di gustosi involtini, utilizzando le foglie più grandi che, dopo essere state sbollentate pochi minuti in acqua, sono da disporre a coppie formando una croce, pronte per essere farcite, poi ripiegate, legate e cotte a piacere. Infine, anche l’uovo vuole la sua parte: per un piatto rustico una ricetta di gran gusto potrebbe essere la polenta abbrustolita, con un ovetto perfetto (cotto a bassa temperatura, lasciando il tuorlo liquido) e un poco di aglio orsino, in crema o tagliato a listarelle. 

Il pesto di aglio orsino e la crema 

La pratica comune per l’utilizzo di quest’erba spontanea in cucina prevede la sua riduzione in pesto o crema. La procedura è molto semplice e può variare in basi ai gusti personali. Dopo aver raccolto le foglie fresche e averle mondate per bene, sono da pestare o tritare al frullatore con la frutta secca scelta. A differenza del basilico, le foglie di aglio orsino sono meno delicate e non anneriscono, anche se le temperature si alzano durante la lavorazione. È possibile utilizzare mandorle, ma anche pinoli, nocciole oppure noci.
Prima di procedere alla lavorazione delle foglie, è bene tritare la frutta secca che grazie al rilascio degli oli renderà il processo migliore. Infine, è necessario aggiungere abbondante formaggio grattugiato, come del Grana Padano Dop oppure del pecorino, ancora più saporito e aromatico. In questo modo andremo a ridurre la leggera pungenza della crema, rendendola davvero piacevole, soprattutto se abbinata a prodotti grassi, in grado di “arrotondare” e smorzare un po’ le caratteristiche gustative dell’erba spontanea. 

In Val Brembana una linea di conserve dedicate all’aglio orsino 

Dal 2012 in Valle Brembana opera l’azienda agricola Della Fara, nata da un’idea di Italo Della Fara, imprenditore innamorato delle erbe spontanee che ha iniziato il recupero di un piccolo appezzamento a San Giovanni Bianco e si è subito dedicato alla coltivazione del paruch, una spontanea molto diffusa sulle Orobie e notoriamente utilizzata in cucina. Oggi l’azienda ha investito nella coltivazione dell’aglio orsino e nella sua lavorazione. La spontanea, dopo essere stata raccolta, viene trasformata in due conserve, la crema di aglio orsino e l’arrabbiato: un condimento a base di aglio orsino, con l’aggiunta di pomodoro e peperoncino, perfetto per condire una pasta, ma anche per crostini e bruschette. Infine, la conserva leggermente piccante è stata utilizzata anche per la produzione di golosi grissini aromatizzati. 

 

Idee, abbinamenti e ricette

Il risotto con aglio orsino, lumache e arancia

Una ricetta dello chef Edo Codalli della cascina Belvedì di Ubiale Clanezzo unisce l’aromaticità dell’aglio orsino alle lumache trifolate e all’acidità dell’arancia. Per prima cosa è necessario preparare la crema con le foglie di aglio orsino, frullandole con del ghiaccio, un pizzico di sale e poco pepe. Nel mentre, si prepara il brodo per la cottura del riso a base di cipolla e i gambi delle foglie dell’aglio orsino. Quindi è il momento della preparazione del risotto, partendo dalla sua tostatura. Successivamente è bene sfumare con del vino bianco e procedere alla consueta cottura con il brodo preparato. A metà cottura si aggiunge la crema e, alla fine, si manteca normalmente con burro e abbondante formaggio. Al piatto si aggiungono le lumache precedentemente stufate in padella, un poco di polvere di porcini essiccati, della paprika e qualche cucchiaino di marmellata di arancia. In alternativa è possibile utilizzare semplicemente le sue scorze. Una ricetta che valorizza a spontanea e la rende elemento essenziale al fine di dare ulteriore valore a un “semplice”, ma non banale, risotto alle lumache. 

Cannelloni al farro, cime di rapa, patata e crema aglio orsino

Questa è la proposta vegan dello chef Francesco Locatelli, dell’agriturismo Polisena. I cannelloni sono preparati a partire da una pasta fresca a base di farro al 100% che permette di ottenere una sfoglia rustica che ben si abbina alle caratteristiche gustative dell’aglio orsino. Una volta preparata la pasta, unendo farina, acqua e un cucchiaino di curcuma, è necessario lasciarla riposare in frigorifero, per poi tirarla e ricavarne dei rettangoli della dimensione di 16 cm x10 cm. La pasta va poi sbollentata e fatta raffreddare in acqua e ghiaccio, asciugandola bene. Il cannellone è pronto per essere farcito con un ripieno a base di cime di rapa, patata cotta a vapore e successivamente schiacciata. Le cime vanno tagliate molto fini a coltello e saltate a temperatura medio alta in una padella. Una volta freddi vanno amalgamati con l’aggiunta della buccia grattugiata di mezzo limone, olio e un pizzico di sale. Per la crema, bisogna sbollentare le foglie, poi raffreddarle e tritarle con l’aggiunta di poco olio. Quindi passare i cannelloni in forno, spolverandoli con della mandorla tostata e olio di oliva extravergine. Quindi infornare per 10 minuti a 170°C. Da servire sulla crema di aglio orsino e da guarnire con le fogliette delle cime di rapa, erbette e fiori a piacere.

E sulla pizza è un perfetto alleato per una proposta fuori dagli schemi

Anche il condimento per la pizza può avere la sua stagionalità. Al fianco dei condimenti classici, sono sempre più i locali che propongono ricette con ingredienti stagionali, giocando sugli impasti ma anche su cotture, forme e colori. Ecco che le erbe spontanee possono quindi essere alleate vincenti quando si vuole proporre qualcosa di diverso. Il formatore e tecnico del settore pizzeria Pietro Tallarini, professionista presso l’azienda Laura Catering, ha pensato ad abbinamenti particolari partendo da una base pizza preparata con farina multi cereale: una base rustica che ben si presta a sostenere l’aroma intensa dell’aglio orsino. Ad esempio, condita con mozzarella fior di latte in cottura e poi farcita con lo stracchino del monte Bronzone, il pesto di aglio orsino e fiori di pancetta arrotolata. Oppure una base di focaccia rustica farcita con ingredienti a crudo: una fettina di burrata fresca, il pesto di aglio orsino, l’acciuga del Mar Cantabrico e un pomodorino semi dry. Infine, Pietro ha pensato anche a una ricetta tutta primaverile e estiva, a base di asparagi, uova, mozzarella, crema di aglio orsino tutto messo in cottura e – per finire – una polvere di bacon croccante.

 


Dessert ma non solo: in cucina è tempo di riscoprire le ciliegie     

Frutti belli da vedere ma anche preziosi alleati in cucina. E non solo per i dessert                      

Comporre una ricetta equilibrata in fatto di sapori e aromi non è cosa banale. Esistono alcune regole di base che permettono di abbinare diverse materie prime senza che le loro caratteristiche gustative si annullino a vicenda o, peggio, regalino sensazioni spiacevoli al palato. Una delle regole per effettuare abbinamenti corretti si basa sul fatto che si possono avvicinare alimenti con caratteristiche simili, quindi dolce con dolce ad esempio, ma anche per contrasto. Inoltre, il gusto acido è importante per bilanciare l’eccessiva rotondità, che potrebbe rendere il consumo del piatto quasi stucchevole.

Ecco perché la frutta, con il suo sapore dolce, si abbina bene a prodotti ad esempio sapidi, e la sua naturale acidità è perfetta, ad esempio, con ingredienti grassi come la carne di maiale. Pensando alla frutta spiccano le ciliegie che, per loro natura dolci e acidule, possono essere ben abbinate ai salumi preparati con carne suina come il prosciutto crudo, in maniera molto simile al più classico dei matrimoni: quello con il melone (un vero retaggio della cucina galenica). Oppure, sono perfette da utilizzare per un goloso piatto con formaggio tipo grana o un Quartirolo lombardo Dop, con le noci, per dare la giusta croccantezza, o un’insalata verde come la Soncino: tutti esempi di come potrebbero essere utilizzate a crudo.
E poi, ancora, in unione alle carni specie se bianche (pollo, tacchino e coniglio) o maiale: è infatti possibile preparare una composta senza zucchero in cui cuocere le carni, ma anche per accompagnarle. Meglio se si utilizzano miste, creando un mix tra ciliegie e amarene, per enfatizzare la freschezza data dalla spiccata acidità dell’amarena.


In alternativa è perfetta anche un’altra componente acida come un vino o dell’aceto di frutta. Un’idea carina? Ad esempio perché non preparare una versione primaverile del classico coniglio arrosto, ma cotto con una composta di ciliegie e vino liquoroso? Oppure, in abbinamento alle carni di maiale, un goloso filetto o un’arista (ma va bene anche la lonza, che differisce per l’assenza delle ossa), per donare quell’acidità sempre piacevole e perfetta per accompagnare questa tipologia di carni. E ancora, una preparazione buonissima e perfetta per le grigliate è un glassa per le costine simile alle varie salse a base di frutti di bosco. Si parte sempre dalle ciliegie fresche, ben lavate e private del picciolo e del nocciolo, le si mette in una padella con un poco di acqua, zucchero di canna e aceto balsamico. Si aggiusta quindi di sale e si cuoce il tutto per almeno 10-15 minuti o fino a quando la salsa si presenta densa. Si passa al setaccio o al frullatore per eliminare i pezzi di buccia, si lascia intiepidire e la si gusta glassando un carrè di costine appena tolto dalla brace. È possibile utilizzare la salsa anche durante la cottura, spennellando la carne prima della cottura e subito dopo. 

Perfette da conservare sotto spirito 

Ci sono specie di frutta che per loro natura possono essere conservate per lungo tempo, si pensi ad esempio alle mele oppure anche ai kiwi. Ne esistono altre, invece, che una volta mature e raccolte, sono da consumare entro un brevissimo periodo, perché giungeranno in pochissimo tempo a marcire. Normalmente  questa tipologia di frutta, se disponibile in quantità elevata da non consentire il consumo fresco immediato, viene spesso trasformata in confettura. Ma per le ciliegie e le amarene si ha una golosa possibilità in più: la conservazione sotto spirito, perfetta per la creazione di un fine pasto di gusto, ma anche per guarnire dolci e dessert. Notoriamente è una conserva che si prepara in casa; questo perché se ben preparate non mettono a rischio la salute di chi le andrà a consumare vista la grande presenza di alcol etilico. È praticamente impossibile sbagliare, a patto che si scelgano frutti non eccessivamente maturi (polpa dura) e assolutamente sani. La procedura è questa: sciogliere lo zucchero nell’acqua scaldandola un poco e poi, una volta raffreddata, versare tutto nel barattolo con le ciliegie (avendo cura di tagliare la parte legnosa del picciolo) e l’alcol che può essere un distillato come la grappa o l’acquavite, ma anche gin, vodka, brandy o whiskey.

Tortelli della Possenta di Ceresara, un piatto per valorizzare la ciliegia De.Co.

Per comprendere facilmente come si possano valorizzare le ciliegie in un piatto salato, basta volgere lo sguardo laddove la produzione del frutto è intensa: l’Emilia Romagna e il confine con la Lombardia. Esiste, infatti, un piccolo paese in provincia di Mantova conosciuto per la coltivazione delle ciliegie e dove è nato un piatto molto particolare: i tortelli della Possenta. Una pasta con un ripieno a base di ciliegie e ricotta. Un piatto preparato a partire dalla ciliegia protetta da una Denominazione Comunale.
La tradizione di associare la frutta ai formaggi è uso consolidato e antico e, probabilmente, sta alla base della nascita di questo goloso raviolo dal colore rosso della pasta che, in realtà, è dato dalla rapa rossa (la ciliegia è presente solo nel ripieno). La preparazione della pasta prevede l’utilizzo di farina di grano tenero, uova e qualche goccia di succo di rapa rossa che da semplicemente il colore. Una volta impastata e stesa, il ripieno è preparato utilizzando della ricotta freschissima di vacca, una composta o confettura di ciliegia preparata a partire dalle ciliegie fresche, il pane grattugiato, il formaggio a grana, le spezie a piacere e il sale. Da condire semplicemente con burro fuso e una generosa spolverata di formaggio grattugiato.

Ogni anno nel mese di giugno i tortelli vengono preparati e serviti in occasione della ‘Festa de la Saresa’. È una De.Co relativamente giovane quella nata a tutela della Ciliegia di Ceresara, è stata infatti presentata a marzo 2019, in occasione della locale Fiera della Possenta. La De.Co, che si fregia di un proprio logo, non riguarda una varietà particolare di ciliegia, ma tutte le cultivar che sono presenti nel territorio comunale: oltre 5.000 piante di diverse varietà dolci che aumentano di anno in anno. L’idea di mettere la composta di frutta nel raviolo può essere interpretata in tantissimi modi: l’ideale potrebbe essere quello di utilizzare come condimento una salsa agrodolce, sempre a base di ciliegia, oppure una crema di formaggio dolce, rotondo, come una fonduta di formaggio tipo Branzi o un Formai de Mut Dop.


Anche l’abito fa il piatto. E non è un vezzo di cucina gourmet

Un corretto impiattamento stimola i sensi, stuzzica l’immaginazione e crea una buona aspettativa. Ecco alcuni suggerimenti per una presentazione ad effetto

Che l’occhio voglia la sua parte ormai lo sappiamo tutti. Basta osservare il mondo attorno a noi per capire quanto l’immagine stia avendo un ruolo cruciale nella quotidianità. E così in cucina. Anche se la sostanza rimane sempre ciò che troviamo nel piatto, la sua presentazione è utile alla corretta percezione della proposta e, perché no, alla comunicazione vera e propria di un qualsiasi locale che si occupa di somministrazione: dall’alta ristorazione al bar, fino alla pizzeria e ai locali che si dedicano all’asporto come le gastronomie.

Basta scorrere la bacheca di Facebook o Instagram per comprendere quanto lavoro ci sia dietro un piatto ben riuscito. Si parte dalla materia prima, fino alla sua corretta trasformazione, la scelta del piatto giusto, le corrette scelte cromatiche, e così via.  Quando ci si trova davanti a un piatto poco attraente, la voglia di metterlo sotto ai denti non sempre è alle stelle, anzi. Anche se può succedere l’esatto opposto, e cioè che una preparazione molto bella da vedere ha creato aspettative talmente grandi da deluderle appena dopo l’assaggio. Però è bene tenere in considerazione che per gli esseri umani, la vista è un senso molto importante e regala tantissime informazioni che inconsciamente guidano le nostre scelte in modo più radicato di ciò che siamo portati a pensare.

L’importante però è anche non sottovalutare gli altri sensi: come è ovvio che sia, il gusto e l’olfatto entrano in gioco nella percezione di sapori e aromi, mentre il tatto ci regala altre sensazioni, tra cui la struttura e la temperatura. L’impiattamento è quindi uno dei tanti aspetti da considerare per la buona riuscita del nostro piatto che ha l’obiettivo di stimolare i nostri sensi, la nostra immaginazione e creare una buona aspettativa. E non è assolutamente vero che è un’arte propria dell’alta ristorazione. Il consiglio è quello di abbandonare questo preconcetto e, a qualsiasi tipologia di locale si faccia riferimento, ricordiamoci sempre che anche il vestito, purtroppo, fa il monaco.

Come nasce un piatto: la creatività

Ognuno ha il proprio processo creativo e tutti coloro che lavorano in cucina o che le dedicano buona parte del proprio tempo libero lo sanno bene. Non esistono, quindi, regole precise se non quelle relative al corretto abbinamento tra aromi e sapori, ma anche tra colori. È sempre bello stimolare i propri ospiti con nuove proposte, ma non sempre è necessario osare. Basta talvolta modificare ingredienti o metodi di cottura, per trasformare e personalizzare piatti della tradizione. Poi, la creatività non ha limiti e la piccola innovazione può trasformarsi in grandi piatti ben riusciti. In linea generale si comincia sempre da un singolo ingrediente, per poi costruire un piatto. In modo identico si lavora nella re-interpretazione delle ricette classiche: non sono necessari grandi stravolgimenti per rendere una ricetta unica nel suo genere. Basta un poco di voglia di osare.

Gli strumenti necessari: forme e tecniche

In realtà non è necessario avere grandi strumenti per impiattare in maniera creativa. Piuttosto, è fondamentale allenare la manualità. Nelle cucine professionali in genere gli strumenti non mancano. La base è sempre il piatto: è il nostro foglio su cui disegnare. DI conseguenza la prima cosa da fare è scegliere il piatto giusto, sia per la sua forma, che per il suo colore e materiale. Ne esistono di tutti i tipi, innanzitutto bisogna considerare le caratteristiche dell’ingrediente principale del piatto. Forma e dimensione dipendono principalmente da questo. E poi, i colori che saranno presenti per capire se è meglio scegliere una base nera, bianca oppure colorata. In presenza di salse o creme, è possibile utilizzarle per “disegnare” sul piatto creando spirali, punti, strisce o virgole (oggi un poco fuori moda). Ecco che saranno necessari flaconi dosatori in plastica oppure sac à poche per dosarle e definire anche la dimensione di punti o righe da creare.
Un altro strumento utile potrebbe essere un pennello per alimenti, il mestolo (per impiattare gli spaghetti,  ad esempio) oppure una spatola per realizzare strisciate o altri segni. Per impiattare una tartare, un risotto, ma anche una pasta, possiamo dotarci di coppapasta di diverse dimensioni. Infine, la pinza: è davvero essenziale per posizionare gli ingredienti nella posizione corretta con precisione e senza toccarli con le mani. Ecco quindi che con pochissimi euro possiamo contare su strumenti molto semplici utili per le nostre creazioni.

Impiattamento dolce

Come impiattare in modo corretto

Ci sono regole che valgono per l’alta ristorazione ma anche e soprattutto per chi si dedica alla cucina tradizionale. Anche un semplice (ma buonissimo) piatto di spaghetti al pomodoro, se ben impiattato, può rendere l’esperienza ancora più soddisfacente.

  1. Innanzitutto scegliere dove posizionare il nostro ingrediente principale. Dobbiamo immaginare di dividere il piatto in quattro parti e decentrare leggermente la nostra preparazione. In alternativa, è bene scegliere l’esatto centro, soprattutto se si utilizzano piatti fondi o se il piatto si sviluppa verso l’alto. Quanto alle decorazioni, per un piatto quadrato è opportuno prediligere forme a parallelepipedo, mentre con piatti tondi forme sinuose, punti, virgole o spirali.
  2. Le porzioni non devono essere eccessive, ma nemmeno troppo piccole. Un equilibrio è importante per raggiungere un impatto visivo che non spaventi e che renda confortevole il consumo.
  3. La distribuzione degli ingredienti deve essere tale da non dividere eccessivamente gli elementi, anche se a molti chef piace non rispettare questa regola e dividere in modo netto gli elementi.
  4. Piatti bianchi o neri aiutano. Si abbinano bene a qualsiasi preparazione, mentre quelli eccessivamente colorati sono più impegnativi.
  5. Il piatto deve essere ben pulito, non devono esserci sbavature o impronte. Attenzione nell’utilizzo di parti grasse come l’olio extra vergine di oliva. Qualora dovessero esserci sbavature basta intervenire con della carta assorbente.
  6. Non esagerare con i fiori, insalate o altro vegetale e non aggiungere elementi non commestibili. Attenzione con le polveri e le spezie macinate: a parte in rare eccezioni, bisogna evitare di sporcare i bordi dei piatti. Bandito l’uso del prezzemolo fresco sul bordo del piatto.
  7. Per distribuire il risotto nel piatto, basta battere sotto con la mano e si distribuisce in modo omogeneo. Possiamo completare il piatto aggiungendo ingredienti, salse o polveri in superficie
  8. Gli spaghetti sono stupendi se serviti a nido: basta arrotolarli con l’aiuto di forchettone e mestolo prima di appoggiarli sul piatto. È possibile sviluppare il nido in orizzontale, come fosse sdraiato, oppure in verticale.
  9. Prevediamo infine uno sviluppo del piatto possibilmente in altezza, dandogli più volume possibile.
  10. Pizze e panini non sono esenti dal seguire queste regole. Un buon panino o una buona pizza devono prevedere una buona distribuzione degli ingredienti, in maniera tale che ad ogni morso o su ogni fetta vi siano tutti gli ingredienti scelti per la farcitura.

Queste poche e semplici regole di base per impiattare a dovere. Ovvio che le regole, in questo caso, sono anche fatte per essere infrante con creatività, partendo sempre dal presupposto che semplicità non è banalità.


Balsamico, invecchiato o tradizionale? Conosciamo l’aceto

Aceti con caratteristiche organolettiche e metodi di produzione diversi: fare chiarezza è importante per scegliere al meglio

Forse parlare di aceto, al singolare, non rende davvero l’idea di quanto questo mondo sia vasto e diversificato. In commercio ne esistono tante tipologie, essenzialmente perché alla base c’è una reazione fermentativa ad opera di microrganismi, gli acetobatteri, che lavorano molto bene in presenza di alcol etilico, trasformandolo in acido acetico. Condizione importante perché questi microrganismi prendano il sopravvento e trasformino l’alcol in acido è la presenza di ossigeno. Senza aria non si sviluppano e l’alcol etilico manterrà le sue caratteristiche.

È facile pensare, quindi, a una produzione che derivi dall’utilizzo di mosto oppure vino, ma sono altresì molto diffusi gli aceti prodotti dalla fermentazione alcolica di frutta, cereali, malto oppure miele. Non entrando nel merito di quest’ultimi, anche se sempre più diffusi e utilizzati non solo in cucina, il metodo tradizionale per la produzione di aceto parte dalla diluizione del vino, che non dovrebbe superare gli 8-10 gradi alcolici per poi essere messo in grandi barili con bocche di areazione, e la presenza della cosiddetta “madre”, in cui sono concentrati gli acetobatteri che trasformeranno l’alcol etilico presente nel vino in acido acetico. Ma esistono prodotti assolutamente unici e di alta qualità: parliamo degli aceti balsamici e i balsamici tradizionali, attorno cui spesso vi è molta confusione, anche fra gli addetti ai lavori.

Aceto balsamico: cosa è e come si produce

Purtroppo, molti degli aceti denominati “balsamici” in commercio, non sono nient’altro che normalissimi aceti di vino aromatizzati e colorati. In realtà l’aceto balsamico proviene da lavorazioni specifiche che partono dalla cottura del mosto di uva, fermentato naturalmente, che viene poi acidificato molto lentamente attraverso un processo chiamato “metodo Solera” che consiste nel mettere l’aceto in piccole botti di legni diversi, disposte a piani, e ogni anno una parte dell’aceto viene messo nella botte sottostante, creando nel tempo un perfetto blend tra i vari mosti fermentati e acidificati.

Dopo l’acidificazione, il balsamico si presenta leggermente denso e di colore scuro, con aromi complessi, terziari e persistenti. Al sapore spiccano la dolcezza e la piacevole acidità, mentre a livello tattile stupisce la piacevole sensazione vellutata, rotonda.  Tralasciando i “balsamici” a buon mercato, simili ad aceti di vino normalissimi ma semplicemente colorati e aromatizzati, esistono diverse possibilità per scegliere un aceto balsamico di qualità senza spendere necessariamente una follia. Innanzitutto i regolamenti ci vengono in aiuto: esistono, infatti, certificazioni e disciplinari di produzione a garanzia del prodotto che ci aiutano nella scelta.

Aceto balsamico di Modena IGP: un balsamico prodotto secondo il metodo

L’aceto balsamico di Modena ha una storia davvero lunga e, fin dal 2009, la sua provenienza è tutelata dal marchio europeo IGP (Indicazione Geografica Protetta). Per disciplinare, la sua zona di produzione ricade nelle province di Modena e Reggio Emilia. Viene prodotto attraverso la cottura dei mosti parzialmente fermentati (in quantità minima del 20%) di uve delle cultivar Lambrusco, Sangiovese, Trebbiano, Albana, Ancellotta, Fortana e Montuni con l’aggiunta del 10% minimo di aceto di vino, ma anche di vino e aceto balsamico invecchiato. Dopo l’acidificazione, il balsamico viene affinato per un minimo di 60 giorni e, a discrezione, invecchiato per un tempo variabile. Oltre i 3 anni potrà fregiarsi della dicitura “invecchiato”. La certificazione garantisce che tutto il processo di lavorazione e trasformazione (fermentazione, acidificazione e invecchiamento) abbia luogo nelle province di Modena o Reggio Emilia.

L’aceto Balsamico di Modena IGP è un buon prodotto, perfetto anche per aggiungere bontà a molti piatti senza avere dei costi proibitivi; questo lo rende adatto ad essere utilizzato in quasi tutte le tipologie di ristoranti, non andando a incidere eccessivamente sul food cost. È estremamente versatile e perfetto ad esempio per guarnire insalate, primi piatti come paste all’uovo o risotti, ma anche carni bianche o di maiale, senza andare ad appesantirne sapore e aroma.

Aceto balsamico tradizionale di Modena e di Reggio Emilia: il più pregiato

Da non confondere con l’altro, il “tradizionale” gode della Denominazione di Origine Protetta nelle sue due indicazioni geografiche: Modena e Reggio Emilia. È prodotto grazie alla parziale fermentazione e poi alla cottura di mosti provenienti esclusivamente da uve di Trebbiano e Lambrusco prodotte nei due territori provinciali di riferimento. Non va confuso con il normale balsamico: il tradizionale è infatti prodotto a partire esclusivamente dal mosto cotto delle due cultivar autoctone. Anche il processo di invecchiamento è molto più lungo e lento. Questo giustifica la differenza di prezzo, ma anche di sapore, consistenza e aroma. L’aceto balsamico tradizionale DOP esiste poi in due versioni: l’affinato, con almeno 12 anni di invecchiamento, e l’extravecchio, con almeno 25 anni, da non confondere con l’aceto balsamico di Modena IGP invecchiato.

Si tratta di un prodotto sostanzialmente diverso, molto più complesso e, di conseguenza, anche l’utilizzo e l’abbinamento diventa ancora più difficile. Ovvio che è perfetto con i formaggi a grana molto stagionati, come il Parmigiano Reggiano DOP nelle versioni riserva. È abbinabile alle carni crude che hanno subito un’importante frollatura, ma anche a guarnire dolci a base di fragole. Insomma, la sua aromaticità importante lo rende adatto ad abbinamenti che lo possano innanzitutto sostenere a livello gustativo, ma anche che non lo snaturino in tutta la sua complessità, frutto dei lunghi anni impiegati per la sua produzione.

 


Cinque ingredienti insoliti e difficili da trovare. Chi li conosce?

Avete mai provato il pandano? Sapete cos’è la lattuga sedano? E il fagiolo di Goa? Una guida su delle vere e proprie chicche da scovare

Il fagiolo di Clüsven

Il fagiolo di Clüsven fa parte del progetto di ricerca europeo Increase: prende il nome dalla località nel territorio di Gandino dove è stato coltivato, da oltre un secolo, dalla famiglia contadina Bonazzi. Roberto Colombi, già sindaco a Gandino, a inizio degli anni ’60, sposando una delle figlie Bonazzi, ha ricevuto dai suoceri i semi che ha piantato in località Rastei. Nel 2016 è stata avviata la coltivazione associata di mais spinato e fagiolo seriano. Si gusta nelle minestre di verdura, con la pasta e in umido con pomodori e spezie. 

 

Le foglie di pandano

Ce ne sono 600 varietà e in cucina la più utilizzata è la pandanus amaryllifolius: in Oriente si utilizza per dare un tocco di sapore a pietanze salate e per addolcire creme, dessert e bevande. Ottima fonte di aromi e profumi, le foglie di pandano sono ottime per aromatizzare il riso o per creare degli involucri all’interno dei quali cuocere le carne. Il sapore a metà tra vaniglia e mandorla rende il pandano ottimo anche per i dessert, (la pandan chiffon cake è molto soffice e profumata e colpisce per la sua insolita tonalità verde). È perfetto anche per la preparazione di smoothie. Dove si compra? Lo si trova solo nei market orientali, spesso in polvere.

 

La lattuga sedano

Celtuce, lattuga sedano, lattuga cinese, lattuga asparago: tanti nomi diversi per un ortaggio molto diffuso in Cina e che sta attirando la curiosità di chef di tutto il mondo grazie alle sue proprietà benefiche. La lattuga sedano è infatti un vero e proprio toccasana, ricco di sali minerali e vitamine. Della pianta si consuma lo stelo, wosun in Cina, ma anche le foglie crude sono commestibili e sono ottime per le insalate. In cucina, la lattuga sedano può essere poi bollita, grigliata e accompagnata da diversi tipi di condimenti o salse. Una volta pelato, il gambo si consuma sia crudo che cotto: ha un lieve sapore di sedano, molto croccante e succoso.

 

Il fagiolo di Goa

Per la sua forma bizzarra viene chiamato fagiolo alato ed è noto anche come pisello asparago per il gusto dei suoi baccelli. Originario della Nuova Guinea e diffuso in Indonesia e Thailandia, dove può raggiungere i 4 metri di altezza, il fagiolo di Goa è uno scrigno di usi culinari: le foglie si consumano come gli spinaci, lesse o saltate, i graziosi fiori rossi sono usati come colorante, le radici si consumano previa cottura i semi, una volta essiccati, sono usati per preparare una bevanda simile al caffè, mentre con la granella secca si prepara un alimento fermentato detto tempeh. Un must da provare sono i suoi baccelli saltati in padella con del burro e serviti caldi. La nota dolente? Trovarlo nei market è un’impresa. Coltivarlo è l’unica soluzione (i semi si possono ordinare su internet).

 

Il kiwano

Chiamato melone cornuto il kiwano piace per la delicatezza del sapore, la nota esotica del suo gusto e le sue proprietà idratanti. Benché in molti paesi africani venga cucinato intero (arrostito o bollito con altre verdure), il kiwano è ideale per un consumo fresco. La polpa può essere aggiunta ad insalate, creme, yogurt, smoothie, macedonie e può diventare anche l’ingrediente segreto di un cocktail: provate ad aggiungerlo, ad esempio, a un Margarita o a un Mojito. Oltre alla polpa, anche la buccia, ricca di vitamina C, può essere consumata (previa cottura).

 

 

La ricetta della Chiffon Pake al Pandano

Ingredienti

240 g di farina
300 g di zucchero
8 g di cremor tartaro
8 uova
2 pizzichi di sale
60 ml di latte di cocco
4 cucchiaini di estratto di pandano
125 ml di olio di semi di girasole
50 ml di acqua

Montate a neve ferma gli albumi e metteteli da parte. Montate i tuorli da soli fino a che non risulteranno chiari. Nel frattempo in una terrina setacciate la farina, lo zucchero, il sale e il cremor tartaro e mescolate. In una ciotola mettete il latte di cocco, l’estratto di pandano e l’acqua. Versate la crema verde ottenuta nei tuorli, aggiungete l’olio e montate per qualche minuto, unite gli ingredienti secchi e mescolate bene. Unite per ultimi gli albumi montati. Versate il composto in uno stampo apposito. Cuocete a 170° per circa 50-55 minuti.
Quando la torta sarà pronta, toglietelo dal forno e capovolgetela a testa in giù direttamente sul piatto dove desiderate servirla, lasciatela raffreddare e non appena sarà fredda si staccherà da sola. Spolverizzate con zucchero a velo e decorate con foglioline di menta.


Paese che vai, Pasqua che trovi: la rinascita sulla tavole del mondo

Dalla Croazia alla Spagna, dalla Grecia alla Germania: andiamo alla scoperta delle ricette tipiche che arricchiscono le festività pasquali

Paese che vai, tradizioni, ricette e (soprattutto) menu che trovi. Le abitudini degli europei in tavola nella settimana di Pasqua non fanno certo eccezione: ognuno ha le sue e, a voler vedere, come ci si sposta di latitudine, sanno modificarsi in modo così radicale che in certi casi si fa persino fatica a raccoglierle tutte. Eppure, ci sono almeno un paio di capisaldi della tradizione che sono comuni a tanti Stati del Vecchio Continente. L’agnello, per esempio, ma specialmente le uova – seppure preparate in modi anche diversissimi da un Paese all’altro – potrebbero farci sentire un po’ più a casa se, in occasione della Pasqua, dovessimo trovarci seduti a tavola in qualsiasi altro posto in Europa, lontano dall’Italia. Dall’Osterlamm tedesco al Gigot d’Agneau alla francese, fino allo stufato portoghese, il piatto forte della tradizione pasquale in Francia, in Germania e in Portogallo è senz’altro l’agnello che – attenzione – nei Lander tedeschi è declinato anche nella versione da dessert. 

Da quelle bollite a quelle decorate a mano, proposte alla fine del pranzo oppure, come in Croazia e in Polonia, fin dalla prima colazione, le uova sono senz’altro le protagoniste della Pasqua non solo in Italia e in Europa, ma un po’ in tutto il mondo, e il perché è presto spiegato: associate spesso alla fecondità della primavera, le uova – anche per la loro forma molto particolare – hanno sempre rivestito un ruolo unico, quello del simbolo della vita in sé, ma anche del mistero, quasi della sacralità. Nell’iconografia cristiana, l’uovo è il simbolo della Resurrezione (leggi, della Pasqua), dove il guscio rappresenta la “tomba” dalla quale esce un essere vivente, mentre per i pagani l’uovo è il simbolo della fertilità e dell’eterno ritorno alla vita.

Ma torniamo alla tavola e alle tante specialità che arricchiscono dalla notte dei tempi i banchetti delle famiglie europee: c’è chi, come in Russia, festeggia con il porcellino al forno e chi invece, come greci, rumeni e spagnoli, si prepara ad abbuffate (anche di dolci) con zuppe dai mille, caratteristici, sapori. Vale la pena, dunque, iniziare una sorta di rapido viaggio per l’Europa, immaginando di salire su un moderno Orient Express, che ad ogni fermata ci fa visitare un Paese diverso e conoscere alcune delle sue specialità.


Spagna

Immaginiamo di partire a ovest del Vecchio Continente, e di cominciare a indagare tra le specialità della caliente Spagna. Qui ci si prepara alla Pasqua durante la Settimana Santa che, per rispettare la tradizione di magro (i giorni che precedono la Pasqua fanno pur sempre parte della quaresima), concede alla tavola zuppe all’aglio o alle cipolle, con pane raffermo e paprika e una speciale “zuppa della vigilia” con baccalà, ceci e spinaci. Protagonista dei giorni che precedono la festa, il baccalà è spesso cucinato anche sotto forma di crocchette o in frittelle ed è presente anche nel Pa torrat del Venerdì Santo, un pane tostato al forno, con olio, aglio e formaggio, oppure con acciughe fritte e cipolle. Un po’ meno magro, è invece l’Hornazo castigliano, una torta di pane ripiena di uova, lombo di maiale e prosciutto, di cui c’è anche una versione dolce a base di mandorle, zucchero, anice e uova. Sempre in Castiglia la specialità è il Cochinillo asado, un maialino di 6 settimane preparato al forno.
E non c’è pranzo delle feste che non si concluda con uno o più dolci della tradizione. La Mona è una torta tipica catalana decorata con nocciole e uova colorate, ci sono poi le Torrijas, fette di pane fritto spolverate di zucchero e cannella, le Flores de Semana Santa, dolci croccanti a forma di fiori fritti in olio; i Bartolillos, ravioli fritti ripieni di crema pasticciera, le Rosquillas (ciambelle fritte aromatizzate all’anice), il Pestiños, dolce di origine araba tagliato a quadrato con due lembi ripiegati e bagnato con miele. E ancora: i Buñuelos, simili alle nostre frittelle e la Leche frita, crema fritta tagliata a pezzetti. 

Francia

Dalla Penisola iberica ai cugini francesi, per trovare il classico Gigot d’Agneau, che altro non è che il nostro cosciotto d’agnello che viene marinato nell’aglio, sale, pepe e olio d’oliva e poi arrostito al forno. È servito tradizionalmente con fagiolini e patate stufate e, in Provenza soprattutto, è insaporito con le classiche spezie locali. Arrosto, in crosta, allo spiedo e stufato, a Pasqua l’agnello in Francia è un piatto che si declina in tante ricette, anche a mo’ di spiedino (le tipiche brochettes d’agneau).
E se in Italia spopola la Torta pasqualina, ad accompagnare l’agnello Oltralpe c’è il Pâté de Pâques, una sorta di timballo ripieno di carne e uova, anche questo declinato in molteplici varianti. Uova e agnello sono così popolari in Francia, che li ritroviamo anche nei dolci. In Alsazia, in particolare, si preparano anche dei biscotti a forma di agnello.

Germania

Prossima fermata Germania, dove l’agnello pasquale è così tradizionale che lo si ritrova anche alla fine del pasto. L’Osterlamm (letteralmente, appunto, agnello di Pasqua) è un tipico dolce, preparato in molte varianti diverse. A parte i piatti tipici come l’Hefezopf (un tipo di brioche) e le uova bollite e colorate a mano, le tradizioni moderne si sono spostate da qualche tempo a questa parte verso il cosiddetto brunch, dove non possono mancare omelette e uova in salsa verde. Un’altra tradizione riguarda invece il giovedì santo, giorno in cui c’è l’abitudine di servire in tavola una zuppa di cerfoglio.

Inghilterra

Prima di proseguire verso Est, immaginiamo di continuare il nostro viaggio puntando a Nord. E così dalla Germania ci trasferiamo in Inghilterra, dove l’agnello arrosto tradizionale è senz’altro il piatto più tipico delle feste pasquali. Gli amanti del cioccolato non possono sfuggire ai Brownies con le uova di cioccolato cremoso. Gli Hot cross buns sono invece dei panini al latte aromatizzati con cannella o chiodi di garofano, arricchiti con uvette e con una croce di pastafrolla in superficie. Ha invece un richiamo più religioso la Simnel cake, una torta la cui decorazione richiama i 12 apostoli: è un dolce arricchito da due strati di marzapane, ripieno di bucce di limone candite e di frutta secca.

Finlandia

Una delle tradizioni più popolari in Finlandia è mangiare il Mämmi, un budino al malto servitor con panna o gelato alla vaniglia. Il piatto viene di solito consumato durante il venerdì Santo e, in generale, durante il periodo di digiuno, di certo molto più che nel resto dell’anno.
Tra i piatti tipici della festa il Pasha, a base di formaggio simile al quark, analogo alla Pashka russa e alla Pasca rumena, di forma circolare con al centro una croce di pasta, e il Mammi, un budino di farina di segale condito con melassa che si consuma freddo con panna e zucchero.

Russia

Dal Nord ci spostiamo verso est e più precisamente nella sconfinata Russia, dove la Pasqua è sinonimo soprattutto di dolci. In tavola, al posto del coniglio, non può mancare il porcellino al forno, fatto marinare con succo di limone, pepe e alloro, quindi salato, imburrato e cotto in forno. Ma è appunto al termine del pranzo che le famiglie russe danno il meglio di sé. Il dolce principe dai monti Urali al confine con la Cina è senz’altro il kulish o koulich, un grosso muffin lievitato coperto con glassa di zucchero o zucchero a velo.

Polonia

Dalla Russia torniamo a spostarci di nuovo verso ovest e ci fermiamo in Polonia, un Paese prevalentemente cattolico, in cui piatti tipici come la Pasha, simile alla Paska russa, e il Mazurek, sono serviti di solito nei giorni di festa. Il Mazurek è una torta sottile realizzata con uno strato di frolla e uno di una pasta diversa, più morbida. Il dolce può essere guarnito con marmellata, cioccolato o con altre creme. Le uova sono invece le protagoniste della mattina di Pasqua: accanto a loro, per una colazione-pranzo molto ricchi, compaiono prosciutto cotto e salsicce, un po’ come avviene in Croazia.

Romania 

In Romania a Pasqua si cucina il Kozunak, una sorta di panettone preparato in diverse varianti, la più comune sembra essere quella con i semi di papavero. Un’altra specialità molto diffusa è la Ciorba, una zuppa acida cui vengono accostati generalmente arrosti di manzo e sformati di agnello. Il dolce tipico di Pasqua è la Pasca, una torta al formaggio.

Croazia

Il nostro viaggio in giro per l’Europa volge quasi al termine, ma prima del capolinea è d’obbligo una fermata in Croazia dove, come in gran parte del Nord Europa, le uova bollite e decorate a mano non mancano mai. Con una variante del tutto particolare: ogni commensale ha un uovo nella mano e deve colpire l’uovo dell’avversario per vedere quale dei due ha il guscio più duro. Vince chi possiede l’uovo che resiste meglio all’urto. Durante la Pasqua, tra i cibi più utilizzati ci sono il prosciutto cotto, le cipolline dolci, il radicchio e il rafano. Ma il piatto davvero tipico è il Pinca, un tipo di pane dolce, simile al Hefezopf tedesco. 

Grecia

L’ultima fermata del nostro immaginario Orient Express ci porta in Grecia, dove si festeggia la Pasqua ortodossa con la zuppa Maghiritsa, preparata con interiora di agnello tagliate finissime e lessate con cipolla, aneto, riso. Accompagna tutto una salsa a base di uovo e di limone. Le interiora d’agnello possono essere gustate anche allo spiedo (il piatto si chiama Kokoretsi), mentre il dessert tipico si chiama Tsoureki ed è un pane dolce lievitato, aromatizzato con semi di ciliegio selvatico e decorato con uova sode. Il pandolce è tipico anche in Olanda, dove prende il nome di Paasbrod: è arricchito all’interno con uva passa e ribes, ed è morbido come una ciambella.


I brodi di carne e i consommè Preparazioni invernali tutte da assaporare

Con l’inverno cresce il piacere di assaporare quei cibi in grado di regalare una piacevole sensazione di calore. Tra questi, anche loro, spesso meno considerati, ma alla base di numerose preparazioni anche natalizie: i brodi. Ne esistono di ogni tipo, in relazione alla tipologia di materie prime utilizzate,, ma anche e soprattutto per il  loro utilizzo finale. Dai fumetti a base di pesce, fino a quelli di verdure e di carne. Il denominatore comune è la loro lunga cottura che permette alle sostanze idrosolubili presenti nella materia prima di trasferirsi in acqua arricchendola di molti principi nutritivi. 

Scegliere la carne, cuocere e sgrassare

Questa è tradizionalmente la stagione dei brodi di carne, protagonisti anche di una delle ricette tipiche del Natale italiano: i tortellini in brodo. Ma in realtà è scorretto parlarne al singolare, meglio invece parlare di brodi. Non è difficile prepararli, serve tanto tempo, ma il processo è essenziale e semplice. Una volta scelta la tipologia di carne (l’unica da non utilizzare è quella di maiale), basta metterla in cottura sommersa dall’acqua aggiungendo eventuali verdure a piacere. In alternativa è possibile aggiungere le carni una volta raggiunto il bollore: non vi sono infatti evidenze scientifiche che dimostrino differenze nell’estrazione dei principi nutritivi, se non nella prima mezz’ora circa di ebollizione. E’ possibile preparare brodi di carne mista, oppure esclusivamente a base di pollo o di manzo. Il brodo va lasciato sobbollire per almeno 3 ore ed è fondamentale schiumare spesso durante la cottura. Una volta pronto e filtrato, dopo essersi raffreddato, è giunto il momento di sgrassare. Se lo si lascia riposare in frigorifero, la procedura è molto veloce perché in superficie si formerà uno strato di grasso di consistenza gelatinosa da eliminare. Per eliminare qualsiasi traccia di grasso dal brodo, basterà inserire della carta assorbente per alimenti, ripiegata su sè stessa: assorbirà velocemente tutto il grasso rimasto.

Il consommè: ossia il brodo chiarificato

Una preparazione molto in uso in passato, ma che sta velocemente riprendendo piede, è il consommè, un brodo concentrato, molto chiaro e senza impurità alcuna servito in genere come apertura di un pasto, eventualmente con l’aggiunta di una guarnitura. La tradizione vuole che originariamente il consommè venga preparato a partire da un brodo di carne, ma in realtà è possibile prepararlo a partire dalla materia prima che più piace, come pesce, verdure, alghe oppure funghi. La guarnitura è rappresentata da un elemento in aggiunta come verdure, pasta, carne e molto altro ancora. Il procedimento di base, prevede una lenta cottura del brodo con cartilagini e parti tendinee delle carni precedentemente lessate, ben tagliate. Inoltre si aggiunge anche un poco di carne trita per dare ancora più vigore al consommè. A questo punto, si aggiungono gli albumi leggermente sbattuti di un paio d’uova ogni 3 litri di brodo mescolando energicamente. Una volta portato il composto a ebollizione, si procede con la cottura a fiamma bassa per almeno un’ora e mezza. Una volta pronto, il brodo concentrato va filtrato con l’aiuto di un colino e un asciugamano da cucina bagnato e, una volta freddo, lo si sgrassa un’altra volta eliminando l’eventuale grasso che si accumulerà in superficie (o con il metodo della carta assorbente). Il consommè è pronto per essere assaporato tal quale, guarnito ad esempio con erbe aromatiche fresche, una brunoise di verdure oppure in accompagnamento a dei golosissimi tortellini.


Non solo lombate: scegliere le carni è una questione di gusto e sostenibilità

Spesso non si fa troppo caso alla scelta dei tagli carnei da mettere sulle nostre tavole. Si sceglie per abitudine, in base ai tagli più conosciuti (di prima categoria) e che tradizionalmente vengono preparati con determinate parti dell’animale. 
«In realtà un poco di conoscenza a riguardo può permettere la scoperta di parti sconosciute ai più, – racconta il macellaio Danilo Cazzamali, una vera istituzione nel mondo delle carni, che ha fortemente stimolato la ricerca della qualità nell’allevamento e la valorizzazione della razza Piemontese e nella lavorazione delle sue carni- con le relative preparazioni». Conoscere l’animale e le caratteristiche dei tagli specifici può portare vantaggi di diverso tipo. «In primis quelli economici, importanti sia nella cucina di casa che, soprattutto, in una cucina professionale: – sostiene ancora Danilo – è possibile ottimizzare al meglio il food cost non solo del piatto specifico, ma più in generale della carta stessa. L’altro vantaggio è legato alla sostenibilità del consumo di carne, alla sua produzione e al suo allevamento». Ormai è risaputo che è necessario porre molta attenzione all’argomento. Consumando tutte le parti, è naturale che il costo ambientale legato all’allevamento e all’accrescimento non si riduca di certo, ma venga ottimizzato in modo migliore. Ecco che quindi non esistono solo lombate, fiorentine e filetti. Molti sono i tagli spesso poco conosciuti, da utilizzare in modo alternativo. 
Oltre al quinto quarto, composto prevalentemente da frattaglie, ci sono parti poco valorizzate che meritano davvero tanto. Uscire un poco dalle convinzioni comuni può anche dare la possibilità di sperimentare e stupire i propri ospiti e la propria famiglia, senza dover necessariamente sostenere grandi spese. Partendo dal presupposto che i muscoli meno soggetti al movimento sono quelli più teneri, è facile capire il motivo per cui tagli come lombate, costate e filetto siano i più teneri in assoluto, mentre i tagli della parte anteriore e posteriore, dediti al maggiore movimento, siano più tenaci e ricchi di tessuto connettivo.  In linea generale, si tende ad utilizzare sempre tagli di prima o massimo seconda categoria, dimenticando e non valorizzando tutto il resto. 

 

Classificazione dei tagli di carne di manzo

In base alle caratteristiche, esistono tagli di prima, seconda e terza categoria. La classificazione non riguarda necessariamente il modo in cui vengono poi utilizzate, infatti tra i tagli di prima categoria ci sono i pregiati filetto, controfiletto, lo scamone, la noce, la fesa e la sotto fesa, il girello di coscia e gli altri che comunemente si utilizzano per preparare bistecche, ma anche arrosti: carni tenere e in genere magre. Poi ci sono i tagli di seconda e terza scelta, in genere provenienti dall’anteriore (i tagli della coscia sono più pregiati) e dalla pancia, come il cappello del prete, il reale, la pancia (o biancostato), il diaframma, ma anche il muscolo di spalla, il petto, il fesone di spalla, il geretto (in genere conosciuto come ossobuco) o la bavetta. Tutti tagli che di norma sono utilizzati per i bolliti, per stufati, brasati oppure tritati e ridotti ad hamburger, polpette o macinata per sugo. Questi tagli hanno anche un prezzo inferiore rispetto ai pregiati, con caratteristiche uniche che, se ben cucinate e trattate, danno grandi soddisfazioni.

 

Per le lunghe cotture: tagli perfetti, ma poco utilizzati

Ecco che pensando di assecondare familiari o ospiti, spesso si scelgono carni pregiate anche per le preparazioni che prevedono una medio-lunga cottura, come arrosti, spezzatini o brasati. Spesso le carni vengono cotte meno, con il risultato di proporre un piatto eccessivamente asciutto, magro e poco saporito. Questa è purtroppo ciò che succede spesso, troppo spesso. Ma Danilo Cazzamali consiglia un’altra soluzione: «per preparare brasati, ma anche gustosi spezzatini come il gulash, l’ideale è quello di scegliere tagli di seconda o terza scelta ricchi di tessuto connettivo e grasso di marezzatura. Dal costo inferiore, ma dalla tenerezza e bontà infinita». Unica prerogativa, il tempo: si devono cuocere lentamente e con tanta pazienza. «Per un brasato è perfetto il cappello del prete, ma anche il muscolo, la gallinella o il fesone di spalla oppure il reale sezionato nelle sue aree. Per preparare un gulash perfetto invece è consigliato l’utilizzo del geretto disossato o del muscolo: dopo qualche ora di cottura proporrete un piatto indimenticabile. Oppure, perché non utilizzare la punta di petto (in Italia destinata al bollito) per un perfetto arrosto al forno?» consiglia il macellaio. Nella tradizione del barbecue americano è utilizzata per il famoso brisket, una lunga cottura a bassa temperatura del pezzo intero, che permette lo scioglimento del poco connettivo e grasso, per un risultato da leccarsi i baffi. Anche la coda, cotta lentamente è perfetta per essere mangiata tal quale o come base per dei sughi da far girare la testa.

 

La bistecca che non ti aspetti

Sono ancora molti quelli che pensano che una buona bistecca al sangue a si possa preparare esclusivamente con i tagli pregiati e teneri come la lombata (fiorentine e costate) o i filetti. Vero che questi tagli, se ben cotti e frollati, sanno regalare grandi emozioni gustative. Ma ci sono anche altri tagli che non godono di successo nella Penisola, ma che potrebbero sostituire di diritto i più conosciuti. Ad esempio, il diaframma di manzo, considerato di terza scelta, è il pezzo ideale per gli amanti della carne rossa al sangue. Basta scottarlo sulla griglia da entrambi i lati e servirlo come una tagliata, magari accompagnata da una buona sala chimichurri, una goduria. E’ conosciuta anche come skirt steak. E ancora, il codone di manzo, famoso in sud America per la picanha cotta sulla famosa spada. Ebbene, è possibile utilizzare questo taglio sia intero che a fette spesse avendo cura di cuocere bene lo strato di grasso che lo ricopre in superficie: un concentrato di sapore e succulenza. E ancora, sempre da oltre oceano, l’Asado, preparato con il biancostato, che si utilizza comunemente per la preparazione dei brodi. Invece di tagliare i pezzi parallelamente all’osso, si tagliano fette perpendicolarmente alle ossa. Pochi minuti sulla brace ed è perfetto per essere gustato. Oppure, la flank steak preparata con la bavetta, un taglio poco pregiato, ma tra i più gustosi e saporiti del manzo. Infine, la flat iron steak, preparata con il cappello del prete, privato della grande striscia di tessuto connettivo e cotto al sangue. In questo caso, il consiglio è quello di fare un  reverse searing prima della cottura sulla brace, che consiste nel mettere in forno il taglio intero a bassissima temperatura, fino a quando raggiunge i 50°C interni. A questo punto, lo si griglia bene da entrambi i lati e lo si serve a tagliata: rosa e tenero, dall’aroma “ferroso”: una bistecca perfetta per chi soffre di anemia.

 

La tartare: non solo filetto di manzo

Il presupposto è uno: cosa si cerca quando si sceglie una tartare? La consistenza? Il colore? Il gusto? In relazione all’obiettivo, Danilo ci svela alcuni segreti per preparare una tartare perfetta, in relazione alle aspettative. «Per quanto riguarda la consistenza, dipende sì dal taglio utilizzato, ma anche dalla dimensione del cubetto: più il cubetto è piccolo e più la consistenza del taglio originale viene meno, più il cubetto è grande e più si esalta la tenerezza o la croccantezza del taglio scelto». Tralasciando i tagli più conosciuti come filetto o controfiletto, per tartare croccanti meglio scegliere la bavetta, la punta di codone o il fusello di spalla; mentre per tartare morbide il fesone di spalla, la sottofesa o la fesa. E poi, il colore: «per aver un bel colore rosso, il muscolo utilizzato deve aver lavorato quindi deve essere stato utilizzato durante la vita dell’animale. Il filetto serve per far alzare l’animale su due zampe e…. non mi sembra di aver visto tanti bovini in giro eretti sulle zampe posteriori». Per tartare più rosse quindi, meglio scegliere la bavetta, la punta di codone oppure la parte esterna della sottofesa. Mentre per tartare più chiare, la parte interna della sottofesa, il magatello o il cuore di fesa. Quanto al sapore, tutto dipende soprattutto da cosa ha mangiato l’animale. Ogni tipo di alimentazione dona sfumature diverse alle carni. Per gusti più intensi, meglio scegliere il fesone di spalla, il fusello o il fiocco di punta, mentre per sapori più delicati, la parte interna della sottofesa, il magatello o il cuore di fesa.

 

I tagli poveri da utilizzare 

per brasati: muscolo, gallinella, musone di spalla, fesone, reale 

per Gulash: geretto disossato, muscolo, 

per arrosti: punta di petto, 

per bisteche: diaframma di manzo, codone di manzo, bavetta 

per asado: biancostato 

per tartare: bavetta, punta di codone, fusello di spalla, fesone di spalla, sottofesa, fesa