Lavoro, nuovi voucher al palo. L’Ascom: «Servono correttivi»

Da sinistra: Vittorio Feliciani, Carlo Colopi, Enrico Betti, Orazio Pedalino
Da sinistra: Vittorio Feliciani, Carlo Colopi, Enrico Betti, Orazio Pedalino

Il paragone con i voucher non regge. I contratti introdotti per sostituire i buoni lavoro per le prestazioni occasionali, aboliti nel marzo scorso e spendibili sino a fine anno, hanno (almeno per quanto riguarda l’utilizzo in ambito aziendale, mentre per le collaborazioni saltuarie con i privati è nato il Libretto di famiglia) limiti, costi e per giunta una procedura di attivazione non sempre agevole che, nel tentativo di frenare gli abusi cui avevano dato luogo i predecessori, li ha resi davvero poco interessanti.

Lo hanno denunciato le imprese e le loro associazioni non appena sono stati presentati ed ora lo confermano i numeri. Nei primi tre mesi di vita, secondo i dati Inps pubblicati dal Sole 24 Ore, i nuovi contratti (si chiamano PrestO, da Prestazione Occasionale) hanno coinvolto 17mila lavoratori per un valore di circa 12 milioni di euro, nulla a che vedere con i circa 400mila lavoratori e i 360 milioni di euro di compensi fatti segnare dai voucher negli stessi tre mesi (luglio, agosto e settembre) del 2016. In pratica due strumenti nemmeno confrontabili tra loro.

tavolo con Malvestiti«Il colpo di spugna con cui sono stati eliminati i voucher ha rappresentato un grave danno per le nostre imprese che si sono trovate senza uno strumento per gestire con flessibilità picchi di lavoro e attività residuali», ha detto senza mezzi termini il presidente dell’Ascom e della Camera di Commercio di Bergamo, Paolo Malvestiti, aprendo il seminario che l’Ascom ha organizzato alla Fiera per fare chiarezza sui nuovi strumenti, in collaborazione con l’Ispettorato territoriale del Lavoro e l’Inps.

Carlo Colopi
Carlo Colopi

«La stretta si può capire solo considerando la crescita esponenziale che i voucher hanno avuto negli ultimi anni e l’ampio utilizzo improprio», ha ribattuto Carlo Colopi, capo dell’Ispettorato territoriale del Lavoro di Bergamo. «Casi tipici erano il pagamento a voucher di un’ora che metteva al riparo in caso di controlli e il pagamento del resto in nero. Oppure l’attivazione “lampo” con computer connesso al sito Inps in caso di accesso ispettivo – ha specificato -. I voucher inoltre venivano impiegati spesso senza garantire riposi settimanali e pause dei lavoratori, in settori non ammessi come l’edilizia, per scongiurare la maxi sanzione, e in maniera massiccia da grandi aziende».

I PrestO vogliono agire proprio su queste “derive”, fissano infatti un limite ai compensi che ciascuna azienda può erogare (5mila euro, non più di 2.500 per ciascun lavoratore), il numero massimo di ore (280 l’anno) per le quali i nuovi contratti possono essere utilizzati e anche la cifra massima che il lavoratore occasionale può percepire annualmente (5mila euro).

platea 3Il minimo retributivo – lo si ricorda – è di 9 euro, ai quali vanno aggiunti i contributi Inps, l’assicurazione Inail e il costo per la gestione del processo informatizzato da parte dell’Inps pari all’1%, per un totale di 12,41 euro (il costo totale dei voucher era 10 euro, la retribuzione netta 7,5). Il compenso, che viene stabilito tra le parti, non può inoltre essere inferiore a 36 euro giornalieri. Il lavoratore ha poi diritto ai riposi giornalieri e alle pause settimanali.

Non possono essere trasformati in PrestO rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa (è necessario che il rapporto sia cessato almeno sei mesi prima dell’attivazione) e sono vietati in settori come l’edilizia, l’escavazione, le miniere oltre che negli appalti, mentre ci sono vincoli più stringenti per l’agricoltura.

Vittorio Feliciani
Vittorio Feliciani

A finire sotto accusa è il divieto di ricorrere ai PrestO da parte delle aziende con più di cinque dipendenti a tempo indeterminato. Un limite che, solo in Bergamasca e nei settori del commercio e del turismo, ha escluso 2.300 imprese su un totale di 20mila e che anche il direttore provinciale dell’Inps Vittorio Feliciani ha indicato come principale freno ad un ricorso massiccio al nuovo strumento, insieme alla retribuzione minima giornaliera di 36 euro.

Orazio Pedalino
Orazio Pedalino

Come se non bastasse, anche la procedura informatica ci mette del suo. Chiariti ai 200 tra professionisti e imprenditori presenti in sala passaggi e gli accorgimenti per effettuare la registrazione, Orazio Pedalino, funzionario della Direzione provinciale dell’Inps, ha dovuto evidenziare i tempi lunghi per l’accredito nel portafoglio elettronico dell’azienda delle somme necessarie al pagamento della prestazione e degli oneri. «Se si utilizza il modello F24 – ha raccomandato – conviene tener presente che servono dagli 11 ai 15 giorni, più rapido, circa 3 giorni, il sistema PagoPA che vede ancora pochi istituti di credito presenti, ma funziona con l’addebito su carta di credito». Insomma, non certo l’ideale se un ristoratore o un barista deve rimpiazzare all’ultimo momento un dipendente malato o se in quel fine settimana ha un boom di prenotazioni.

Enrico Betti
Enrico Betti

Che non siano una risposta alle necessità di flessibilità delle aziende lo dice anche l’incremento del 60% dei contratti di lavoro a chiamata registrato dall’Ascom nei sei mesi successivi all’abolizione dei voucher, da aprile a ottobre 2017. «Ad optare per il contratto a chiamata non sono solo le imprese con più di cinque dipendenti ma anche quelle che potrebbero ricorrere ai PrestO, ma vi rinunciano vuoi perché la loro attivazione è più complessa, vuoi per i maggiori costi rispetto ai vecchi buoni», l’osservazione di Enrico Betti, responsabile dell’area Lavoro e Relazioni sindacali dell’Ascom. «Si è partiti PrestO e male – è il suo netto giudizio -. I nuovi contratti non sono uno strumento adeguato a rispondere alle esigenze delle aziende in merito a quelle attività residuali, di poche ore settimanali, per cui i vecchi voucher erano senza dubbio più efficaci. Ci auguriamo quindi che venga messa nuovamente mano alla normativa con risultati speriamo positivi e in grado di raccogliere le istanze delle imprese».

platea 2Inoltre l’attività se è da considerarsi occasionale lo deve essere sempre, senza limiti dimensionali, ha ribadito Betti: «La nuova normativa crea una discriminazione tra aziende con più di cinque dipendenti a cui i Prest0 restano preclusi e le aziende più piccole. Ciò determina un dumping organizzativo ed economico che per noi resta immotivato».

 

 


Il notaio Tucci: «Formula recepita in ritardo rispetto all’andamento dei mutui»

Tutti lo vogliono, tutti lo cercano, ma quando se lo trovano davanti decidono che, in fin dei conti, non fa al caso loro. Il rent to buy, sempre più richiesto e ricercato, stenta a farsi strada nel nostro mercato immobiliare, vuoi per la commistione tra due contratti, l’affitto e la vendita, che complica le cose, vuoi per la tassazione elevata. La nuova formula di origine anglosassone, entrata nel nostro ordinamento con il decreto “Sblocca Italia”, si scontra anche con una cultura come quella italiana fondata sulla proprietà immobiliare: «L’Italia è il primo Paese al mondo per proprietà privata e l’obiettivo per ogni italiano continua ad essere l’acquisto immobiliare, che all’ estero viene invece vissuto come un vincolo- commenta l’avvocato e notaio Marco Tucci, a margine del convegno organizzato da Fimaa Ascom-. Purtroppo il recepimento di questa formula contrattuale è avvenuto con un certo ritardo, visto che il rent to buy arriva in un momento in cui gli istituti di credito stanno tornando a concedere mutui». I dati dell’Abi evidenziano infatti un vero e proprio boom di mutui, anche attraverso al Fondo di Garanzia per la Casa che, nel suo primo mese di operatività, ha portato a febbraio 27,7 milioni di euro di nuovi mutui. Il Fondo- la nuova soluzione a vantaggio delle famiglie che ancora scontano gli effetti della crisi ma aspirano ad acquistare l’abitazione principale- rappresenta un’ulteriore spinta allo sviluppo del mercato dei mutui che già registra una fase di grande rilancio, con un’impennata relativa a tutto il 2014 del 32,5% rispetto al 2013 e un ammontare complessivo di circa 25,3 miliardi di euro. «La possibilità di detrarre gli interessi passivi del mutuo rappresenta inoltre un indubbio vantaggio sul rent to buy dove i canoni sono versati a fondo perduto e l’atto stesso comporta una più elevata tassazione di contratto che non si recupera, dall’atto iniziale a quello finale , alla doppia natura contrattuale stessa della nuova formula. La vendita immediata fa inoltre maturare in vista di un eventuale cambio di casa un credito d’imposta che si perde completamente nel rent to buy se ci si ferma all’affitto e non si arriva al riscatto». L’innamoramento per la nuova formula si rivela un’infatuazione passeggera: «In Italia ci si innamora spesso di formule anglosassoni, ma alla formalizzazione nero su bianco l’amore sfuma in fretta. Fino ad oggi le trattative partite con convinzione con il rent to buy sono naufragate con questa formula contrattuale, cui sono state preferite altre soluzioni già previste nel nostro ordinamento, come ad esempio il preliminare notarile trascritto per tre anni o la vendita con riserva di proprietà che ad oggi si presentano come le soluzioni giuridicamente e fiscalmente più vantaggiose». Ovviamente se si è interessati ad acquistare e vendere, perché altrimenti il rent to buy può rappresentare un’alternativa: E’ la formula perfetta per gli indecisi cronici, l’unica a garantire la possibilità di rinviare fino a dieci anni l’acquisto o di scegliere liberamente di limitarsi all’affitto senza riscattare l’immobile. Il venditore rischia di vincolarsi per dieci anni, un lungo periodo di tempo in cui può ricevere offerte di acquisto». Se, tra le formule mutuate dall’estero, il rent to buy e il trust godono di scarsa fortuna a queste latitudini, il leasing continua a confermare il suo successo: «La locazione finanziaria, una sorta di corrispettivo business del rent to buy, si è ormai affermata come formula contrattuale. Il conduttore ha la possibilità di detrarre i canoni di leasing e di riscattare rata dopo rata, in 12 anni, il costo dell’immobile. Molti acquisti di capannoni ed uffici avvengono ormai così, con tempi ridotti per la detrazione fiscale dell’acquisto, visto che si parla di 12 anni contro una media di 33 anni per poter scaricare l’acquisto dell’immobile. La formula può interessare oggi anche i liberi professionisti». Nella veste di notaio Marco Tucci non manca di ricordare l’importanza del ruolo nella trascrizione degli atti:«Il contenzioso sugli immobili gestiti dai notai è pari allo 0,0029 %, quindi nullo. Il sistema notarile garantisce le transazioni, mentre all’estero tutto è speculativo. Meglio di così è difficile fare. Per questo trovo assurda l’ipotesi ventilata dal disegno legge sulla concorrenza che sancirebbe la fine dell’obbligo dell’atto notarile per le operazioni immobiliari oltre che per la costituzione di alcune tipologie di società. In Italia la durata dei processi ci colloca al terz’ultimo posto in Europa (davanti solo a Cipro e Malta) e, secondo la classifica “Doing Business 2013” della Banca Mondiale al 160esimo posto su 185 Paesi analizzati. Con 5 milioni di cause pendenti che portano a sanzioni impressionanti europee per il ritardo di giudizio credo che sia bene iniziare a preoccuparsi dei costi che una soluzione come questa possa portare con sé».


Jobs Act, «persa un’occasione per favorire l’occupazione giovanile»

Emmanuele Massagli, 32 anni, è dal 2012 presidente di Adapt, associazione senza fini di lucro, fondata da Marco Biagi per promuovere studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro, ed è membro del collegio dei docenti della Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro dell’Università di Bergamo. Massagli, che è dottore di ricerca in Diritto delle Relazioni di Lavoro con una tesi sul lavoro dei giovani, nel commentare la nuova riforma non nasconde un certo scetticismo di fronte alle ricadute positive del Jobs Act sull’occupazione giovanile: «Mi aspetto senz’altro più assunzioni, ma dubito che interessino giovani o fasce deboli. L’incentivazione economica corposa della Legge di Stabilità rende di fatto più vantaggiosa l’assunzione a tempo indeterminato di lavoratori esperti». Il problema della disoccupazione giovanile continua così a crescere: «È paradossale, ma l’Italia che conta ormai 2 milioni e mezzo di Neet  (Not – engaged – in Education, Employment or Training) e ha un tasso di disoccupazione giovanile del 43% sta perdendo l’occasione di rilanciare l’occupazione degli under 30 messa a disposizione dal Piano Garanzia Giovani, con 1 miliardo e 500 milioni di euro di risorse europee».  L’ennesima opportunità Ue sfumata? «Fa rabbia perdere risorse destinate ad alleggerire una vera e propria emergenza sociale. Ma tra cambi di governo (il piano è nato con il Governo Monti, è stato approvato da quello Letta ed è diventato operativo con Renzi, ndr.) e gestione frammentaria delle Regioni che detengono la responsabilità delle politiche attive del lavoro, sono solo 12mila le offerte di lavoro ad oggi presentate. Bisognava coinvolgere le associazioni datoriali e fare una campagna di informazione forte rivolta ai giovani nei luoghi che frequentano».

Quali sono i reali benefici per le pmi della riforma del lavoro?

Il principale vantaggio sta non tanto nel Jobs Act ma nella Legge di Stabilità. Per la  prima  volta il contratto a tempo indeterminato diventa competitivo, arrivando a costare meno dell’apprendistato di durata inferiore ai due anni e sensibilmente meno di un inquadramento a  tempo determinato. Grazie all’incentivazione economica è previsto l’esonero dei contributi per tre anni consecutivi per ogni nuova assunzione a tempo indeterminato effettuata nel 2015. Si tratta di un risparmio di 8.070 euro annui per ogni neo-assunto. Anche la deducibilità ai fini Irap dei costi del personale a tempo indeterminato va a vantaggio sia delle imprese che del lavoratore, che vede una stabilizzazione degli 80 euro in busta paga.

Si intravedono già effetti sul mercato del lavoro?

Solo nella Provincia di Milano nel mese di gennaio sono cresciuti del 23% i contratti a tempo indeterminato. Ed è facile prevedere che con l’entrata in vigore del contratto a tutela crescenti si registri un ulteriore aumento di assunzioni: sono molte le imprese che stanno aspettando le nuove regole per assumere.

 Non c’è il rischio che come con altri incentivi si “dopi” il mercato del lavoro?

Come tutti gli incentivi altera il mercato, ma se l’economia riprende a partire dal 2016 ci sono buone speranze per i 200mila nuovi occupati che si stima di avere nel 2015. Non credo che le aziende – come paventano i sindacati – si mettano ad assumere per poi licenziare. Per le aziende il contenzioso rappresenta una perdita inutile di tempo e di risorse.

Crede che porti davvero una nuova svolta nell’abbattimento del contenzioso?

La semplificazione della disciplina in uscita è senza dubbio un vantaggio perché rende più quantificabile per le aziende i costi di una causa persa. Il Jobs Act è prevedibile che porti ad un abbattimento del contenzioso, anche se in realtà le cause ex articolo 18  sono solo 70mila l’anno e, in base ai dati del Ministero della giustizia pre-riforma Fornero, rappresentano il 12% dei contenziosi. Senz’altro cambieranno le strategie delle imprese per difendersi e licenziare, dato che il reintegro diventa un’eccezione.

 Quale valore assume la contrattazione aziendale con la riforma?

Tenderà a crescere e ad avere un ruolo sempre più importante. Il mercato del lavoro sembra però andare verso il contratto individuale data la crescita dei lavoratori autonomi. Il popolo delle partite Iva conta 5 milioni e 500mila lavoratori e senza dubbio uno dei limiti più grandi del Jobs Act è quello di essere stato costruito attorno ad un’idea di subordinazione, in un mercato del lavoro sempre più individuale.

Quali sono altri punti deboli e  zone d’ombra della riforma?

Oltre a non aver considerato i lavoratori autonomi, il Jobs Act ha dato una stretta sui contratti a progetto che comunque non spariranno come annunciato da Renzi. Infatti questa tipologia contrattuale che interessa circa 500mila lavoratori continuerà ad essere impiegata laddove è regolato da contrattazione collettiva. Il Jobs Act sembra inoltre avere come disegno un aumento dei contratti a tempo indeterminato per andare a creare una flexsecurity in linea con i Paesi del Nord Europa. Si va concretizzando una maggiore flessibilità ma mancano ancora i pilastri delle politiche passive, a partire dagli ammortizzatori sociali, e aspettiamo la bozza sulle politiche attive. Senza politiche passive e politiche attive efficienti diventa davvero difficile trovare un equilibrio.