Il vino si compra al supermercato, ma su bottiglioni e brik vincono le denominazioni

vino supermercatoGli italiani comprano il vino soprattutto nei supermercati: nel 2016 hanno acquistato sugli scaffali 500 milioni di litri, spendendo 1 miliardo e mezzo di euro. E il 60% di questi acquisti è rappresentato dai vini con riferimento territoriale (Docg, Doc, Igt), il comparto che cresce di più: + 2,7% nel 2016 e + 4,9% nel primo bimestre 2017 (a volume). Si ricercano sempre più la qualità ed i legami col territorio. Cantine e insegne della Grande distribuzione sono pronte a migliorare la collaborazione per soddisfare questa domanda dei consumatori.

È quanto emerso oggi a Vinitaly nel corso della 13° tavola rotonda organizzata da Veronafiere sul tema del vino nella Grande distribuzione in cui sono state presentate la ricerca dell’istituto IRI e una relazione su Brexit e Vino di Alex Canneti, direttore delle vendite off-trade della Berkmann Wine Cellars di Londra.

La ricerca dell’IRI ha delineato i cambiamenti in atto nelle abitudini dei consumatori. Diminuiscono gli acquisti dei bottiglioni da un litro e mezzo, dei vini sfusi, delle damigiane, e dei brik, mentre la bottiglia da 75 cl è sempre più regina del mercato. I vini fermi sono più richiesti dei vini frizzanti, che probabilmente risentono del boom degli spumanti (+7% nel 2016). Crescono rapidamente anche i vini biologici, una proposta ancora di nicchia nella Grande distribuzione. Cambiamenti influenzati anche dal graduale ricambio generazionale e dal rinnovato interesse dei giovani per il vino. Gli studi IRI sul comportamento dei consumatori nella Grande distribuzione evidenziano che l’86% di essi è propenso a sperimentare nuovi prodotti, si informa sulle novità a scaffale, spesso sui siti web di settore (il 33%).

«Siamo sulla strada giusta, auspicata da tempo – ha detto Cesare Cecchi, consigliere di Federvini (Chianti Cecchi), nel suo intervento in tavola rotonda -. Non dobbiamo assolutamente tradire questa qualità che viene cercata dal consumatore, sarebbe un errore imperdonabile. Le cantine devono continuare a ricercare la qualità del prodotto, senza accettare scorciatoie, e i distributori devono incoraggiare la produzione a proseguire su questa strada».

Un rapporto, quello tra produttori e distributori, che è molto migliorato negli ultimi anni, ma è possibile fare di più, come ha ricordato Gabriele Nicotra, direttore Acquisti Unes Supermercati (Gruppo Finiper): «Persiste da parte di alcune cantine importanti una diffidenza verso la Grande Distribuzione, che evitano una relazione diretta con le insegne distributive pur sapendo che a volte il loro prodotto ci arriva tramite canali non ufficiali. Questo è un peccato, soprattutto per il consumatore che ormai cerca anche i prodotti di pregio sugli scaffali dei supermercati».

Tuttavia l’asse portante della collaborazione tra cantine e insegne distributive è rappresentato dalle imprese medie piuttosto che dalle grandi case vinicole, secondo Eugenio Gamboni, direttore commerciale del Gruppo Vegè: «Un asse da consolidare, composto prevalentemente da piccole e medie imprese, legate da conduzioni famigliari, a volte provenienti da generazioni, con le quali si discute e ci si confronta liberamente, distanti dal mondo molto più complesso della grande industria e delle multinazionali».

Si è dichiarato ottimista il consigliere dell’Unione Italiana Vini, Emilio Pedron (Bertani Domains): «Negli anni di grande crescita, la proposta d’acquisto nella GDO è stata più facile e legata molto alla convenienza. Oggi anche il vino nel canale moderno si può definire un prodotto maturo e l’acquisto del vino nella GDO è lo specchio fedele del mutamento dei consumatori e dei loro stili di acquisto».

Tra le cantine espositrici a Vinitaly, intanto, è affiorata la preoccupazione sulla incertezza sui mercati britannico e statunitense, un tema affrontato da Alex Canneti della Berkmann Wine Cellars di Londra: «La Brexit è una sfida per le vendite dei vini italiani poiché l’Australia, il Sud Africa e la Nuova Zelanda saranno i primi Paesi a istituire trattati bilaterali con il Regno Unito. L’unica soluzione a questa minaccia è consentire al Regno Unito un periodo di 10 anni per condividere gli stessi oneri doganali dell’Unione e negoziare un trattato di libero commercio. Quindi tutto dipenderà da come evolverà il negoziato post Brexit tra UK e UE».

«Ma le potenzialità per l’export di vino italiano nella Grande distribuzione britannica (le insegne Majestic and Waitrose in primis) sono grandi – ha aggiunto Canneti – non solo per le bollicine, ma anche per il vino rosso. Pensiamo al Cannonau, al Passimento/Amarone, al Chianti Classico, al Veneto Classico e ai morbidi e succosi vini siciliani e pugliesi. Buone anche le prospettive dei nuovi bianchi di tendenza, come il Fiano, il Vermentino, il Pecorino e il Grillo. E non dimentichiamo il successo che si registra da anni delle “fantasy label”.

 


Auto, moto, elettrodomestici: a Bergamo consumi ancora con segno “più”

Cresce la spesa per i beni durevoli in Lombardia e a Bergamo lo fa con un ritmo ancora di più marcato. Nel 2016 – secondo la 23esima edizione dell’Osservatorio di Findomestic Banca, presentato oggi a Milano – le vendite di auto, moto, mobili ed elettrodomestici in Lombardia hanno raggiunto i 12,176 miliardi di euro, riportando un incremento del +6,9% sull’anno precedente, superiore alla media nazionale, che si è attestata a +6,4%.

In provincia di Bergamo i consumi complessivi hanno raggiunto quota 1,213 miliardi, per un aumento del 7,8%, secondo in regione solo al +8,5% di Brescia. L’aumento fa seguito a quello del 7,7% registrato lo scorso anno. Le spesa media delle famiglie Bergamasche sale da 2.438 euro a 2.615 (+7,3%)

auto-concessionari-autosalonisti-contrattiPer quanto riguarda i settori, la nostra provincia è la prima per incremento delle immatricolazioni di auto, passate in un anno da 26.905 a 32.340 (+20,2% – la media regionale è del 16,2%) che portano il parco circolante a poco più di 587mila vetture (+0,4%). Del totale immatricolato, 24.375 auto sono quelle acquistate dalle famiglie e 7.965 dalle aziende. La spesa per le auto nuove è cresciuta del 18,9%, contro il +20,6% di Brescia. Sopra la media nazionale (+14,1%) anche Lecco (+16,1%), Sondrio (+15,7%) e Milano (+15,1%).

Sul fronte delle auto usate sono invece Lecco e Mantova a far segnare l’incremento di spesa maggiore: +6% per un totale di 88 milioni di euro a Lecco e +5,5% a Mantova (119 milioni di euro). Bergamo è terza (301 milioni di euro per 46.406 passaggi di proprietà pari ad un +5,4%,). Seguono Como (+4,5%, 154 milioni di euro), Brescia (4,2%, 367 milioni di euro) e Milano (4%, 1.727 milioni di euro). Chiude la classifica Lodi con +2,7% e 54 milioni di euro di spesa.

Nei motoveicoli, Bergamo è seconda dopo Milano (17.412) per numero di vendite nel 2016 (4.471) e per parco circolante (151.146 mezzi). In quantità, la variazione rispetto all’anno precedente è +3,4%, mentre in valore l’incremento è del 7,1% (nel 2105 era +10,4%). A crescere di più nella spesa sono state Pavia (+17,9%), Varese (+12,9%), Brescia (+12,5%) e Mantova (+11,3%).

mobili - elettrodomesticiNegli elettrodomestici (grandi e piccoli), i consumi complessivi a Bergamo salgono dai 98 milioni del 2015 ai 104 del 2016 (+5,3%). Il maggiore incremento si è registrato a Cremona, con il 6,2%, mentre la media regionale è +5,7%.

Stabili le vendite nell’elettronica di consumo: 44 milioni sono stati spesi a Bergamo nel 2015, altrettanti nell’anno da poco concluso. Il dato è però migliore di quello dell’anno scorso, che aveva visto la nostra provincia perdere il 4,4%, per altro in un contesto regionale tutto negativo. Nel 2016 è Como ad aver messo a segno la migliore performance (+1,3%), il dato lombardo è +0,8%.

Si affievolisce la spinta per i mobili, con un +0,3% rispetto al +2,7% dello scorso anno. Che significa anche ultimo posto nella classifica regionale, dove l’incremento medio è stato del 2,1% (in linea con il dato nazionale, +2%). Per volumi venduti siamo comunque terzi (281 milioni di euro), dopo Milano e Brescia.

La voce più negativa del rapporto è quella dell’information technology (riferita ai consumi delle famiglie). La Lombardia ha perso il 2,7% e Bergamo, passando da 40 a 38 milioni di spesa, è scesa del 4,3% (dato peggiore rispetto al -2,3% del 2015).

Intanto la differenza di reddito pro capite nelle diverse province lombarde resta ancora molto alta. Milano è in testa (anche a livello nazionale) con 29.929 euro, seguita da Sondrio, seconda provincia con 19.881 euro. Bergamo è a centro classifica con 17.006 euro, inferiori sia alla media regionale (22.259 euro, sia a quella nazionale 18.658). Nell’ultimo anno, comunque la disponibilità dei bergamaschi è aumentata del 2,2%, come la media Lombarda (mentre in Italia l’incremento del reddito è stato del 2,4%). Il minor reddito pro capite è quello di Lodi, 14.386 euro (+2%).

consumi beni durevoli - tabella Osservatorio Findomestic su 2016

 


Il gelo e i prezzi dell’ortofrutta / «Ma quale speculazione? I consumatori sanno scegliere»

Il freddo delle ultime settimane ha fatto impennare i prezzi dei prodotti ortofrutticoli ma ha anche alimentato l’allarme speculazione. La denuncia di rincari ingiustificati è arrivata dalle associazioni degli agricoltori, dei consumatori e anche da una parte dei dettaglianti.

Di diverso avviso è Livio Bresciani, presidente del gruppo Fruttivendoli dell’Ascom di Bergamo che guida anche la categoria a livello nazionale in Fida Confcommercio. «Operiamo in un contesto di libero mercato dalle dinamiche chiare e note – ha dichiarato a Italian Fruit News, in un faccia a faccia con il presidente di Assofrutterie Fiesa Confesercenti Daniele Mariani -. In situazioni come queste si cerca di vendere al meglio, ma riteniamo non ci siano operazioni speculative di significativa entità. Anche perché il consumatore è maturo e consapevole, boccia eventuali situazioni estreme limitando o allontanandosi dall’acquisto fino a quando non tornano condizioni normali: si può vivere tranquillamente senza comprare un determinato ortaggio per qualche giorno». Per Bresciani, infine, «questa ondata di gelo sta destando scalpore, ma non va dimenticato che siamo in pieno inverno, un inverno rigido e non mite come quello cui forse ci si era abituati. E le conseguenze sono anche aumenti di quotazioni legate all’offerta esigua».


Fuori casa, l’avanzata dei take away

takeaway

Il Rapporto ristorazione Fipe 2016, presentato ieri a Milano, fa il punto sui pubblici esercizi italiani. Nel nostro Paese nel 2016 è proseguito, secondo le stime dell’ufficio studi della Federazione, da un lato il calo dei consumi alimentari domestici (-0,1%), dall’altro l’incremento di quelli fuori casa (+1,1%) peraltro ben rilevato dallo stesso Indicatore dei Consumi Fuori Casa (Iceo) che sale al 41,8% dal 41,6% del 2015.

Si conferma, inoltre, il trend che vede un’Italia in controtendenza rispetto al resto d’Europa, dove al contrario i consumi alimentari fuori casa hanno registrato una significativa contrazione. Guardando all’Europa nel suo complesso, infatti, i consumi alimentari valgono 1.541 miliardi di euro suddivisi tra il 64,2% nel canale domestico e per il 35,8% nella ristorazione, con differenze notevoli tra Paesi. Si spazia dalla Germania, dove i consumi alimentari nella ristorazione rappresentano meno del 30% del totale, al Regno Unito (47%), alla Spagna (52%) e all’Irlanda (57%).

In Europa tra il 2007 ed il 2015 si è registrata una flessione dei consumi pari a circa 22 miliardi di euro ma nel nostro Paese la contrazione degli alimentari ha riguardato quasi del tutto il canale domestico, a differenza di quanto successo ad esempio in Spagna (-14,3 miliardi di euro) o nel Regno Unito (-7 miliardi di euro).

Ma chi sono gli avventori dei pubblici esercizi in Italia? Nel 2016, 39 milioni di italiani hanno consumato pasti fuori casa, così divisi: 13 milioni di heavy consumer, coloro che consumano 4-5 pasti fuori casa a settimana. Per lo più uomini (53,9%) di età compresa tra i 35 e i 44 anni (23,7%) e residenti al Nord Ovest (29,5%) in centri abitati tra i 5.000 e i 40.000 abitanti (36,8%); 9 milioni di average consumer, quelli che consumano almeno 2-3 pasti fuori casa a settimana. Sono in prevalenza uomini (51,7%), residenti in Centro Italia (29,1%) in centri abitati tra i 5.000 e i 40.000 abitanti (37,9%); 17 milioni di low consumer, che consumano pasti fuori casa 2-3 volte al mese. In questo caso si tratta in prevalenza di donne (54,8%), di età superiore ai 64 anni, residenti nelle regioni del Nord Italia, in centri abitati tra i 5.000 e i 40.000 abitanti (40,1%).

La giornata degli italiani

A colazione

6 italiani su 10 fanno colazione fuori casa. 5 milioni di italiani non rinunciano a cappuccino e brioche 3 o 4 giorni a settimana

colazione-cappuccino-croissantIl Rapporto Fipe passa in analisi la ripartizione dei consumi fuori casa durante l’arco della giornata. Dall’indagine emerge che più di sei italiani su dieci consumano, con diversa intensità, la colazione fuori casa: cinque milioni di italiani consumano fuori casa la colazione almeno 3 o 4 volte alla settimana, per quattro milioni si tratta invece di un rito quotidiano. Il locale per eccellenza dove gli italiani consumano la colazione è il bar/caffè, senza alcuna distinzione di genere, età o area geografica. Il bar/pasticceria è secondo in classifica per preferenza, preferito soprattutto dalle donne (65% contro il 57% degli uomini) e nel Nord Est (64%). Le alternative restano esigue, come i distributori automatici, scelti dal 17% dei consumatori. A colazione gli italiani spendono in media 2-3 euro; solo l’1,5% spende meno di un euro e in questo caso si tratta di heavy consumer.

A pranzo

Il 67% degli italiani pranza fuori casa durante la settimana, per 5 milioni di italiani è ormai un rituale, almeno 3-4 volte a settimana

spaghetti-amatricianaPassando al pranzo, la tipologia di consumo e prezzo relativo dipende in larga misura di giorni della settimana. Al 67% degli italiani, pari a poco meno di 34 milioni, capita di consumare il pranzo fuori casa durante la settimana, e per cinque milioni si tratta di un’occasione abituale (3- 4 volte alla settimana). I tre profili di consumatori si caratterizzano per evidenti differenze: gli “heavy” consumano il pranzo soprattutto al bar, mangiando un panino o un primo piatto, gli “average” e i “low” scelgono sia il bar che il ristorante preferendo la pizza. La spesa durante la settimana si concentra prevalentemente nella fascia 5-10 euro (45,5%). Nel week end luoghi, prodotti e spesa cambiano significativamente: ristoranti/trattorie e pizzerie scalano la classifica, preferiti rispettivamente dal 56,2% e dal 39,5% degli intervistati. La spesa sale nella fascia 10-20 euro con il 42,2% delle risposte.

A cena

Il 61,7% esce a cena almeno una volta al mese, 2 milioni di italiani escono 3 volte a settimana, in particolare in osterie e pizzerie

ristoranteArrivando a sera, l’analisi Fipe rileva che il 61,7% degli intervistati ha consumato almeno una cena fuori casa con riferimento ad un mese tipo. Poco meno di due milioni hanno cenato fuori casa almeno tre volte alla settimana, prediligendo soprattutto le osterie e, in seconda scelta le pizzerie. La fascia di prezzo di una cena tipo è tra i 10 e i 20 euro, anche se più di un terzo degli italiani riserva ad una singola cena dai 20 ai 30 euro. Solo un intervistato su cento è disposto a pagare più di 50 euro per consumare l’ultimo pasto del giorno. La disponibilità a pagare degli heavy consumer risulta significativamente differente rispetto ai “low”: i primi pagano in media tra i 20 e i 30 euro, mentre più del 50% dei low consumer si accontenta di una cena compresa nella fascia 10-20 euro. I residenti nel Nord Ovest si dimostrano più propensi a spendere: il 13,2% paga più di 30 euro per una cena tipo, percentuale che nel Sud e nelle Isole è inferiore al 5%.

La “demografia” dei pubblici esercizi

Calano i bar del 3,9%, aumentano del 35% i take away

In continua espansione si è dimostrata anche la rete dei pubblici esercizi, con un aumento dell’8,1% nel 2016 rispetto al 2008, pari ad un valore assoluto di +20.184 imprese. Guardando invece alle tipologie di esercizi i bar hanno registrato un calo del 3,9% a fronte di un aumento dei take away del +35%. Puntando l’attenzione sui centri storici, si è confermata inoltre la tendenza, emersa negli ultimi anni, ad una dequalificazione dell’offerta commerciale, con il rischio concreto di vedere depotenziata la forza competitiva dell’Italia nel mercato turistico internazionale: fortemente rafforzata, infatti, risulta la presenza di esercizi take away (+41,6%), cui fa da contraltare il calo dei bar (-9,5%).

Le dinamiche dell’occupazione

L’input di lavoro del settore dei pubblici esercizi conta oltre un milione di unità, misurato in unità di lavoro standard, mentre le ore lavorate sono rimaste al di sotto dei livelli del 2008. Rispetto a sei anni fa, invece, il settore ha assorbito circa l’1% in meno del fabbisogno delle ore complessivamente lavorate. La produttività delle imprese della ristorazione non solo risulta bassa, ma anziché crescere è diminuita risultando inferiore di quattro punti percentuali rispetto al 2009 anche se nel corso del 2015 si sono registrati segnali di recupero.

I prezzi

Per quanto riguarda i prezzi, nel mese di ottobre 2016, l’ultimo rilevato nel Rapporto, quelli dei servizi di ristorazione commerciale (bar, ristoranti, pizzerie, ecc.) hanno registrato un aumento dell’1% rispetto allo stesso mese del 2015 mentre per la ristorazione collettiva l’incremento è stato del 2%. Prendendo in esame l’andamento dei prezzi di alcuni prodotti di punta del consumo alimentare fuori casa, negli ultimi giorni è stata dedicata grande attenzione alla variazione dei prezzi nei quindici anni che intercorrono dall’introduzione dell’euro: prodotti di punta del consumo alimentare fuori casa, dalla pizza alla tazzina di caffè, sono diventati i principali bersagli della denuncia di aumenti straordinari e ingiustificati. Ad un’attenta analisi dei dati, invece, si giunge a conclusioni assai diverse. Nel 2002 la rilevazione del prezzo della tazzina di caffè al bar effettuata sui listini dei bar in diverse città campione forniva un prezzo medio di 1.533 lire, che convertite in euro davano 0,79. I prezzi rilevati dall’Osservatorio Prezzi a novembre 2016 sulle stesse città indicano un valore medio di 0,98 euro: il risultato è un incremento del 24%.

 


Riscaldamento, il freddo di questi giorni costa a Bergamo 8 milioni in più

freddo casa calorifero
Poco più di due gradi sotto la temperatura media dello scorso anno (2,3 per l’esattezza) stanno costando 8 milioni di euro in più ai bergamaschi per il riscaldamento rispetto alle prime due settimane del 2016.

La nostra provincia è la seconda in Lombardia per spesa da gelo. Il freddo intenso nelle prime due settimane di gennaio costa ai lombardi 74 milioni in più di riscaldamento rispetto allo scorso anno, secondo una elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati Istat e meteo (periodo 1 – 12 gennaio 2017 e 2016 considerando un impatto omogeneo sul territorio). In regione sono circa 3 i gradi in meno rispetto alle temperature medie di gennaio 2016. Si tratta di 32 milioni in più di spesa su Milano, Monza e Lodi che hanno avuto una differenza di oltre 2 gradi in meno, 9 milioni per Brescia (-5,8 gradi), 8 milioni per Bergamo (-2,3), 7 milioni per Varese (-2,8), 4 milioni per Como (-2,8), 3 milioni per Mantova, Cremona e Lecco.

Ci si può consolare considerando che le belle giornate e le temperature quasi primaverili dei giorni attorno a Natale abbiano, al contrario, fatto risparmiare sulla bolletta.

Quanto alle imprese operanti nel settore riscaldamento, anche in questo caso la nostra provincia occupa il secondo gradino del podio regionale, questa volta dopo Milano, leader nazionale per concentrazione di aziende nel comparto, e il quarto posto in Italia.

Sfiorano quota 14.000 le imprese lombarde attive nel settore degli impianti di riscaldamento, secondo una elaborazione della Camera di commercio di Milano su dati del registro imprese 2015 e 2016. Si occupano in primo luogo dell’installazione (12.776 sedi d’impresa attive), poi del commercio all’ingrosso (649) e della fabbricazione dei condizionatori d’aria (399), rappresentando circa il 20% del totale nazionale. Milano è capofila della classifica nazionale del settore con circa 4mila imprese, poi Roma (3.833) e Torino (3.293). Tra i primi dieci territori in Italia, tre sono lombardi: dopo Milano che è prima, vengono infatti Bergamo, quarta con 1.847 imprese, e Brescia sesta con 1.749.

Per il riscaldamento, secondo un’elaborazione della Camera di commercio su dati Istat sui consumi energetici delle famiglie, prevale l’uso per i lombardi di un impianto centralizzato (29,4% contro il 15,7% nazionale), rispetto a quello portatile/fisso (8,9% contro 18,5%) e poco più basso anche l’uso dell’impianto autonomo (61,6% contro 65,8%). Più alto l’uso invernale degli apparecchi (9,01 ore di accensione contro 7,54). Più diffuso il metano (87% contro 70,9%) rispetto alle biomasse (7,2% contro 14,5%).


Elettrodomestici / «A Bergamo persi 10mila metri quadri di attività»

Il 2016 è stato un anno da dimenticare per i negozi di elettrodomestici. Armando Zucchinali, presidente della categoria Ascom, tira le somme dell’anno appena concluso. «Tra Bergamo e provincia – afferma – abbiamo perso 10mila metri quadri di attività, con chiusure eccellenti di insegne storiche come Trony (ex Cordani) in città e saracinesche abbassate nei centri commerciali, da Orio al Serio a Mapello. Questi sono gli esiti devastanti di un mercato in cui i margini operativi sono sempre più ridotti, mentre i costi gestionali continuano ad aumentare. Nonostante tutto i consumi tengono, ma specialmente nel comparto del “bruno”- dalla telefonia alla tv ai computer – i margini sono veramente risicati. Questo ha portato alla chiusura di molti negozi specializzati in telefonia».

Anche il web sottrae clienti e il mercato si assottiglia ulteriormente: «La concorrenza delle vendite on-line si fa sempre più sentire, con sottocosto senza regole. All’estero il mercato del web è più regolamentato – evidenzia – e non esistono come in Italia offerte totalmente fuori dai prezzi di mercato. È impossibile per un negozio proporre condizioni simili».

La crisi affonda l’intero comparto, dalle piccole insegne ai grandi gruppi: «Se i piccoli negozi continuano a soffrire e si ritagliano una nicchia con servizi e riparazioni, la crisi pesa sempre più nella grande distribuzione, che si trova ad amministrare enormi costi di gestione tra orari continuati e aperture domenicali. È tutta una guerra a suon di volantini e sottocosto che non porta da nessuna parte».

Quanto ai consumi, la voglia di hi-tech non tramonta ma cala il budget destinato agli acquisti: «Un fattore che si somma alla progressiva riduzione dei margini delle attività, che si trovano a lavorare sotto il limite della sostenibilità», fa notare Zucchinali. Cresce chi compra a rate, approfittando del costo del denaro vantaggioso, ma aumentano anche i finanziamenti rifiutati per rischio insolvenza:«Moltissime pratiche non vengono accettate, quasi il 60 per cento – continua -. Se aumenta il costo del denaro, come prevedono gli economisti, nel primo trimestre del nuovo anno, credo che sarà un vero e proprio disastro». E Natale non ha risollevato le sorti di un anno difficile: «Nella maggior parte dei casi il budget per i regali non ha superato i 100 euro», conclude.


Il Censis: «Il consumo di carne è minacciato da falsi miti»

carne-piatto-tavola

«Il consumo di carne in Italia non è eccessivo». A dirlo non sono gli allevatori, i macellai o i maestri della bistecca, ma il Censis.

L’autorevole istituto di ricerca ha effettuato nel settembre-ottobre 2016 lo studio “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando”, utilizzando i dati sulla dieta come chiave per raccontare i cambiamenti in atto nella società.

Ne è emerso un vero e proprio allarme sul rischio che l’equilibrio nutrizionale delle famiglie italiane («quella dieta da sempre considerata nel mondo un modello a cui ispirarsi») possa essere compromesso dalla riduzione del consumo di alimenti come carne, pesce, frutta e verdura. Un fenomeno dettato in primo luogo dalla crisi, ma anche dalle «leggende metropolitane proliferanti sul web che demonizzano alcuni suoi alimenti di base (con la carne in testa)».

Tanto per cominciare, il Censis precisa che «i consumi “reali” di carne sono di gran lunga inferiori a quelli “apparenti”, che includono impropriamente anche le parti non edibili dell’animale e sui quali si basano le statistiche ufficiali. Studi scientifici hanno permesso di calcolare il valore reale di consumo stornando il peso delle parti non edibili: nel caso del bovino, tale valore corrisponde a poco più della metà (il 55%) del valore apparente, per un consumo reale pro-capite in Italia che si attesta tra i 10 e gli 11 kg ogni anno, ovvero circa due porzioni alla settimana, una quantità in linea con le raccomandazioni di medici e nutrizionisti».

L’Italia, inoltre, è nella posizione bassa della graduatoria per consumo di carne tra i principali paesi Ue, con 79,1 kg pro-capite all’anno: solo Grecia e Regno Unito, con un consumo rispettivamente di 72,6 e 76,6 kg pro-capite all’anno, si posizionano al di sotto del nostro Paese.

«Mangiare carne – prosegue la ricerca – non è contro la buona nutrizione. Un moderato consumo di carne è previsto dalla dieta mediterranea, considerata la più efficace per migliorare la qualità della vita e prevenire le principali patologie. Le proprietà nutritive della carne sono uniche nel loro genere: contiene proteine nobili, vitamine (tra cui la B12), ferro altamente disponibile. Inoltre, è un alimento ad alta efficienza nutrizionale: a parità di nutrienti, apporta meno calorie rispetto ad altri, riducendo il rischio di sovrappeso».

Mentre viene ridimensionata la pericolosità sulla salute. «Le patologie del benessere – si spiega -, aumentate negli ultimi venticinque anni (sovrappeso e obesità +26,3%, ipertensione +92,9%, diabete +180,3%), spesso sono state erroneamente associate al consumo di carne rossa, il cui consumo negli stessi anni è, invece, diminuito (-29,4%). Rispetto all’allarme lanciato nel 2015 dallo Iarc sulla cancerogenicità della carne rossa, va detto che lo studio si esprime in termini di probabilità, non di certezza, fa riferimento a quantità medie di consumo di carne molto al di sopra delle quantità effettivamente consumate in Italia e si riferisce principalmente a carne e prodotti per composizione (grasso, ingredienti, ecc.) differenti da quelli regolarmente consumati nel nostro Paese. Infine, lega il consumo eccessivo di carne rossa non alla possibilità di sviluppare il cancro, ma al possibile aumento del rischio relativo di ogni individuo di svilupparlo (rischio legato a una molteplicità di fattori individuali, comportamentali e ambientali, quindi non solo ad un unico fattore)».

MACELLAISenza dimenticare che la carne italiana è controllata. «Il modello italiano di controllo e di tracciabilità delle carni è un’eccellenza a livello mondiale – ricorda il documento – e garantisce ai livelli massimi possibili l’assenza nelle carni di residui di sostanze vietate o oltre i limiti consentiti, come testimoniano i periodici controlli ministeriali che attestano una presenza di residui nelle carni pari ad appena lo 0,2% (Piano Nazionale Residui)».

Sfatata anche l’idea che la carne sia un alimento grasso, quindi con conseguenze negative sulla salute, «poiché, grazie a tecniche di allevamento, selezione della specie e dieta degli animali, si è nel tempo modificata la sua composizione lipidica, riducendo il grasso totale fino al 50% e la percentuale di acidi grassi saturi».

E rispedite al mittente pure le obiezioni sui costi ambientali troppo alti. «La filiera della carne in Italia è estremamente efficiente e virtuosa: incarna un modello di economia circolare, con riciclo e minimizzazione di scarti e rifiuti, che sono più che dimezzati rispetto alla filiera di frutta e verdura e quasi la metà di quella dei cereali.
Evidenze scientifiche mostrano che l’impatto sull’ambiente della produzione di carne, se calcolato sulla base della frequenza di consumo secondo le raccomandazioni, è allineato con quello di altri alimenti, consumati con maggiore frequenza e in maggiori quantità. Se assunti nelle giuste quantità, le varie categorie alimentari hanno, quindi, un peso ambientale molto simile. L’Italia, oltretutto, grazie alla combinazione di allevamenti estensivi e intensivi, ha una produzione di carne bovina a più basso impatto sul consumo di acqua (11.500 litri necessari per kg) rispetto alla media mondiale (15.400 litri): per la maggior parte (10.000 litri) si tratta di acqua piovana, fonte rinnovabile e sostenibile».


Carne, cala il consumo ma non per tutti allo stesso modo

Raw Meat

Il calo del consumo di carne c’è, ma non per tutti allo stesso modo. Lo ha evidenziato la ricerca “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando” realizzata dal Censis nel settembre-ottobre 2016, utilizzando i dati sulla dieta come chiave per raccontare i cambiamenti in atto nella società.

Il periodo preso in considerazione è quello degli anni della crisi (2007-2015), nel quale si evidenzia una riduzione da parte delle famiglie della spesa per i consumi alimentari del 12,2% e, in particolare, del 16,1% quella per la carne «l’alimento che nei decenni passati segnava simbolicamente l’ingresso delle famiglie nel benessere», sottolinea lo studio. Il fenomeno viene però analizzato più nel dettaglio e allora si scopre che, nella crisi, le famiglie meno abbienti, quelle operaie e quelle in cui il capofamiglia è in cerca di occupazione, che mediamente consumano meno carne rispetto a quelle degli imprenditori, hanno subito una più intensa riduzione della spesa, accentuando il divario. Si è perciò instaurata, secondo la ricerca, «la logica socialmente regressiva del “meno mangi carne, più devi ridurla”».

Carne, consumi a confronto

  • nel 2015 la spesa per acquistare la carne per i membri di famiglie operaie è stata dell’11,8% inferiore rispetto a quella delle famiglie di imprenditori, mentre la differenza si fermava al 6,9% nel 2007. Sempre nel 2015, le famiglie con a capo un disoccupato hanno sostenuto una spesa per la carne del 29,1% inferiore rispetto alle famiglie degli imprenditori, mentre era inferiore del 18,2% nel 2007;
  • in termini di variazione percentuale, nel periodo di crisi le famiglie operaie (-20,0%) e quelle con a capo un disoccupato (-26,7%) hanno ridotto la spesa per la carne in misura maggiore rispetto alle famiglie degli imprenditori (per le quali si registra un -15,5% di spesa in meno).

Sul consumo di carne bovina, in particolare, dai dati emergono tagli ancora più significativi nel periodo della crisi proprio da parte delle famiglie che già in precedenza consumavano quantità inferiori di questo alimento:

  • le famiglie operaie sostengono nel 2015 una spesa per la carne bovina del 16,7% inferiore a quella delle famiglie di imprenditori, mentre il divario era dell’11% nel 2007. Le famiglie con a capo un disoccupato registrano una spesa per consumo di carne bovina del 30,8% in meno rispetto a quelle degli imprenditori, divario raddoppiato rispetto al 2007, quando era del 15,7%;
  • in termini di variazione percentuale della spesa per la carne bovina, le famiglie operaie tagliano del 38,5%, quelle con capofamiglia in cerca di lavoro del 46,1%, mentre quelle degli imprenditori del 34,3%.


Macellerie / «Gdo e aumento dei “veg” ci mettono in difficoltà»

Crisi, cambiamenti nei consumi e nuovi regimi alimentari pesano sui bilanci delle macellerie tradizionali. «Nel 2016 si sono fatte sentire più degli anni precedenti la concorrenza della grande distribuzione organizzata e la crescita di vegetariani e vegani. La carne è stata a tal punto demonizzata da limitare di molto i consumi, fino ad eliminarla del tutto nei regimi più restrittivi, adottati da sempre più bergamaschi – spiega Ettore Coffetti, presidente del Gruppo Macellerie Ascom -. Con la gdo la concorrenza si gioca soprattutto sugli orari di apertura e sulla possibilità di parcheggio, perché in molti casi i prezzi sono superiori a quelli praticati nei nostri negozi. Il problema della viabilità e dei parcheggi, sempre più cari, penalizza pesantemente i commercianti del centro città».

Non manca un certo pessimismo per il futuro: «Sono pochi i giovani a rinnovare la tradizione del nostro mestiere. In assenza di un ricambio generazionale e con la stretta della crisi, credo che perderemo diverse insegne anche storiche. Le nuove generazioni poi cucinano poco o nulla e prediligono shopping center per gli acquisti settimanali. Per i grandi secondi della tradizione aspettano l’invito a casa di genitori e nonni». Per le occasioni importanti la macelleria resta però il punto di riferimento per le spese: «Lo scorso anno Natale è stato molto positivo rispetto agli ultimi 5 anni, tanto che speravamo fosse il segno di una ripresa che purtroppo non è mai arrivata. Quest’anno invece è mancato entusiasmo per le feste  e gli ordini per il tradizionale pranzo di Natale e per Capodanno sono stati inferiori al 2015».


Librerie / «Dopo anni difficili, finalmente il segno “più”»

Finalmente un dato positivo per il comparto di libri e articoli di cartoleria. Le cartolerie tengono rispetto al 2015, mentre le librerie registrano il primo segno “più” dopo anni difficili. «Anche se è solo un piccolo segno di ripresa, con un +2-3% in media, è il primo dato da anni in controtendenza – commenta Cristian Botti, presidente del Gruppo Cartolerie e Librerie Ascom -. L’e-book non sta sostituendo il libro, che non perde il suo fascino, tutto da sfogliare. Le cartolerie tengono a livello complessivo di fatturato, nonostante la concorrenza con la grande distribuzione organizzata si faccia sempre più pressante».

Il commercio on-line non arresta la sua crescita e la concorrenza del web si fa sempre più forte: «La vera sfida per la categoria è rappresentata dall’e-commerce – continua Botti -. Si fanno sempre più ordini da smartphone e tablet, anche per piccoli articoli di cancelleria. I punti vendita tradizionali si stanno attrezzando per sbarcare sul web: le realtà più grandi hanno un sito di e-commerce, i negozi più piccoli raccolgono ordini via internet e si sono attrezzati con pacchi e spedizioni».

Il 2016 promette di chiudersi al meglio, con un Natale di soddisfazioni commerciali per il comparto: «Anche quest’anno il libro è il regalo da scartare sotto l’albero. Le librerie stanno lavorando a tutto ritmo, in particolare le insegne che organizzano eventi e che da sempre sono più attente alla clientela. Tra gli articoli di cartoleria più venduti oltre a gadget e piccoli articoli di pelletteria, vanno a ruba – a sorpresa – le agende. Erano anni che non si vendevano tante agende in pelle, in particolare tascabili. E non si bada tanto a spese, con un budget che va dai 25 ai 40 euro fino ai 100 euro per le agende fiscali e gli articoli di maggior pregio».