Buoni pasto, le nuove norme non risolvono i problemi. Anzi…

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di Oscar Fusini*

Quando si dice che la montagna ha partorito il topolino.

Il nuovo decreto del ministero dello Sviluppo Economico sui buoni pasto, in vigore dal 9 settembre, introduce la cumulabilità dei buoni ed allarga la platea di coloro che possono accettarli, ma non interviene sulla sostenibilità di questi strumenti da parte della filiera coinvolta.

Ci aspettava, dopo anni di ritardo e di difficoltà, una legge che risolvesse i problemi del settore ed invece il provvedimento rischia di aumentare ancora di più le criticità.

Certo, in alcuni ambiti come quello della trasparenza dei rapporti tra emettitori ed esercenti, la legge è un passo in avanti, ma il provvedimento non sana la grave lacuna della non sostenibilità economica del buono e, con questo, l’indebolimento qualitativo della rete degli esercizi e dei servizi erogati.

In primo luogo la tanto decantata cumulabilità non sembra una novità. Il nuovo decreto estende la cumulabilità fino a otto buoni senza chiarire se è per prestazione o giornaliera. Del resto, comunque, questa era una prassi già in uso e consolidata.

Il vero problema dei buoni pasto è a monte. Giusto per non usare giri di parole, occorre ricordare che lo Stato per i buoni pasto dei suoi 900.000 dipendenti vuole risparmiare qualche miliardo di euro e cerca di scaricare il suo onere innanzitutto sui dipendenti che li ricevono, consegnando loro buoni con valore facciale uguale ma con valore reale sempre più basso, e poi sugli esercenti, che devono o dovrebbero offrire un servizio adeguato a prezzi inferiori.

Questo spiega perché il Ministero abbia deciso di allargare la platea di chi li può accettare. Non era un privilegio che fin qui li potessero accettare solo bar, ristoranti ed esercizi limitatamente a piatti pronti per il consumo, dato che il buono rappresentava un servizio sostitutivo della mensa e per questo ha sempre goduto della detassazione che tanto piace a datori di lavoro e beneficiari.

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Oscar Fusini

Ora con i buoni si potrà comprare qualsiasi prodotto alimentare, anche materie prime, semilavorati ecc. non pronti per essere consumati.

Chiaro che da una funzione di servizio si è passati a considerare il buono pasto uno strumento di pagamento e qualche rischio sulla detassazione potrebbe esserci.

In realtà la manovra è più strategica. Dato che la rete dei bar e dei ristoranti fatica a sostenere il costo delle commissioni, si apre l’accettabilità anche alle altre categorie sperando di trovare nuovi accettatori.

Ben venga, allora, che anche gli artigiani, gli agriturismi, gli ittiturismi e tutti coloro che vorranno d’ora li possano accettare, sappiano però che si siedono ad una tavola molto imbandita dove uno solo mangia e tutti gli altri pagano.

In questo modo si rafforzerà il fronte di coloro che chiedono una reale riforma del settore a beneficio di tutti.

Il fatto è che il decreto ministeriale segue il decreto legislativo 50 del 2016 e il suo fatidico art. 144 comma 6 sulle gare d’appalto dei servizi di ristorazione che stabilisce che il ribasso sul valore nominale del buono non possa essere superiore allo sconto incondizionato verso gli esercenti.

Potrebbe avvenire che questa norma faccia da calmieratore delle commissioni – ipotesi molto difficile –, più facile che le commissioni per gli esercenti raggiungano e superino il 20% senza più possibilità di ritorno.

Ma chi potrà sostenere questi nuovi buoni pasto?

Verrebbe da dire nessuno ma qualche disperato lo si trova sempre. Temiamo sempre di più che precipiterà la qualità del servizio e aumenteranno i prezzi. A danno di tutti: consumatori, lavoratori esercenti con lo Stato l’unico che continuerà a risparmiare.

*direttore Ascom Bergamo Confcommercio


IL COMMENTO / Occupazione ai livelli pre-crisi, i “lati oscuri” di una buona notizia

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di Oscar Fusini*

La notizia rimbalzata sui media qualche giorno fa relativa al recupero dell’occupazione in Italia non ci ha affatto rinfrancato. I giornali hanno pubblicato i numeri diffusi dall’Inps secondo i quali il mercato del lavoro in Italia ha pressoché recuperato i posti (ne mancano solo 230mila) persi nella doppia crisi 2008-2012 ed ha raggiunto il massimo storico di lavoratori in attività da aprile 2008. La disoccupazione, sempre secondo le stime ufficiali, è calata sotto i 2,9 milioni di unità, valore più basso da dicembre 2012.

Se la notizia è positiva, dal nostro osservatorio la situazione non è però così rosea.

Senza essere pessimisti ad ogni costo, siamo preoccupati per la graduale ma continua riduzione dei lavoratori indipendenti, che in Italia sono passati, dal 2008 ad oggi, dal 35 al 31%.

C’è quindi, e prosegue, il ridimensionamento del mondo dell’impresa, con calo di unità, volume d’affari e, insieme, del numero delle persone, titolari e collaboratori, che lavorano nell’impresa stessa.

Per qualcuno questa concentrazione potrebbe rappresentare una risposta al problema del nanismo delle imprese italiane, per noi il dato rappresenta soprattutto il ripiegamento di un modello economico e sociale che ha garantito crescita e prosperità nel nostro paese. Quel modello ha sostenuto l’imprenditorialità diffusa e la classe media con il suo innalzamento della qualità della vita. E l’elezione americana è lì a confermare quanto la frattura e l’impoverimento della classe media possa determinare esiti inaspettati anche nella politica.

L’impoverimento non è solo quantitativo. Se il lavoro era già pesante per il piccolo imprenditore ieri, oggi è addirittura estenuante perché, a fronte di un ridimensionamento economico e di status, non è corrisposto un effettivo aiuto nella diminuzione degli adempimenti e della burocrazia. Difficile pensare che la spinta al lavoro in proprio come ricerca di uno status e di maggiore guadagno possa mantenersi anche nella nostra provincia ai livelli degli anni del boom economico. I numeri tengono in forza di un turnover di nuovi imprenditori che aprono e chiudono alla ricerca di uno sbocco occupazionale o come risposta alla precarietà del posto di lavoro.

Anche per i lavoratori dipendenti la situazione pensiamo non sia affatto migliorata in questi anni. Crescita inconsistente se non riduzione, mancanza di prospettiva delle imprese unitamente a obiettivi più complessi e budget ridotti hanno imposto impegno più snervante e remunerazioni più contenute per i lavoratori dipendenti. D’altronde sembra quantomeno difficile che un imprenditore che perde o guadagna molto meno possa pagare di più i suoi dipendenti.

Senza una crescita effettiva, di almeno il 2-3% annuo, difficilmente potremo invertire una rotta che offre poche prospettive ai titolari di impresa ed anche ai loro dipendenti. Occorre snellire, sburocratizzare e in generale offrire prospettive di lungo termine e di largo respiro agli imprenditori.

La partita si giocherà sui giovani, la formazione e il loro inserimento nel mondo del lavoro.

Il sistema educativo deve intensificare la crescita delle competenze e i ponti tra scuola e impresa. Il Job’s Act ha dato un segnale di discontinuità rispetto al passato nel rompere il modello dei compartimenti stagni formazione/lavoro/pensione verso un processo più liquido che immette la formazione nell’intero percorso lavorativo della persona. Segnale di cambiamento che deve tradursi in leggi, incentivi, sgravi per non restare nelle intenzioni del legislatore.

Le istituzioni e le scuole devono compiere i passi necessari per rendere realmente appetibile l’assunzione dei giovani. Infine il cambio culturale è anche del mondo dell’impresa che, al di là degli incentivi, deve saper rileggere i propri modelli di alternanza e di inserimento lavorativo che non possono essere interpretati in una logica solo conservativa ma di cambiamento e miglioramento continuo.

Insomma, numeri in crescita a parte, c’è ancora molto, ma molto, da fare.

*direttore Ascom Bergamo Confcommercio


Amazon, un modello perfetto. Ma è proprio quello che vogliamo?

di Oscar Fusini*

Dove stiamo andando? Ci soddisfa questo modo di “fare commercio”? Fino a quando sarà sostenibile? Sono le domande sorte dopo la visita al centro Logistico di Amazon a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, proposta dal Gruppo Giovani Imprenditori di Confcommercio Milano, alla quale abbiamo partecipato con una rappresentanza dei nostri Giovani Imprenditori.

Si tratta di un centro logistico moderno e integrato, diverso da come lo si potrebbe immaginare. La più grande internet company del mondo riserva agli ospiti un’accoglienza impeccabile, una visita guidata nel cuore della propria portentosa logistica – durata circa un’ora e un quarto – in perfetto stile americano: guida con microfonino, cuffie collegate di colori diversi a seconda del canale di frequenza, spostamenti precisi, nessuna pausa né fronzoli. Visita perfetta. Guida bravissima. Si è potuto assistere a tutte le fasi che si svolgono all’interno del grande centro, dall’arrivo della merce allo stoccaggio nel magazzino, al prelievo, all’imballaggio fino alla spedizione.

Non ci sono dubbi, ci si trova al cospetto di un meccanismo ben ordinato, con procedure standardizzate, in cui vengono valorizzate le idee e le proposte dei singoli dipendenti. Ma è proprio l’aver visto da vicino gli ingranaggi del colosso che sta rivoluzionando il modo di fare acquisti in tutto il mondo a far nascere alcune riflessioni – serene e lontane da una visione puramente conservatrice -, sulla moderna e modernissima distribuzione.

Ciò che ha colpito immediatamente è stata la differenza tra percezione e realtà. Un conto è infatti interfacciare una maschera internet di un’organizzazione leader, che vende milioni di articoli, che ha il più grande assortimento al mondo, che è uno dei più grandi magazzini commerciali e che gestisce ogni giorno decine di migliaia di spedizioni. Un altro è vedere all’opera questa realtà: percepire la velocità delle macchine, dei rulli e delle persone che si muovono all’unisono, in un sistema teso a ridurre i costi e i tempi. Questo è certamente il nuovo che avanza. Moderno, efficace, efficiente sempre più robotizzato e innovativo.

Ma a chi conviene questo progresso?

Certamente, in primis, ai consumatori che desiderano visionare l’assortimento massimo di ciascuna referenza e trovare il prodotto che cercano al prezzo più basso. L’idea che paga psicologicamente è di fare, o pensare di fare, un affare paga. Però è un’idea non è una certezza.

Il consumatore vuole poi una consegna rapida ed efficiente e Amazon la offre. Ma fino a quando questo sistema sarà sostenibile nel lungo termine? Perché corrieri diversi che arrivano alla stessa casa per portare pacchi diversi a più famiglie o alla stessa famiglia non è detto che sia, almeno da un punto di vista ambientale ed economico, sostenibile.

Il cliente però non si accorge che sta perdendo qualcosa: l’aspetto emozionale del fare l’acquisto, il sistema di relazione con le persone, l’empatia che unisce chi vende a chi compra, la consulenza preziosa di un venditore esperto. Perde, infine, la luce dei negozi sotto casa, che chiudono a favore di un maxicapannone agli imbocchi dell’autostrada, dove si lavora 7 giorni su 7 per 365 giorni all’anno.

Amazon “conviene” poi ai produttori, che trovano nel breve termine un partner commerciale efficiente e che per volumi è oggi un canale in fortissima crescita. Ma fino a che punto è opportuno per un produttore di marca avere uno o pochi clienti di questa dimensione con un potere contrattuale maggiore rispetto al proprio?

E poi, naturalmente, ci sono i posti di lavoro, fintanto che, nel nome di una maggiore efficienza, gli addetti non saranno sostituiti quasi interamente da macchine e robot. Quanto al tipo di lavoro – personalmente – fa pensare ad una catena di montaggio fordista, che lascia poco spazio a movimenti diversi da quelli stabiliti, secondo tempi ben regolati, sette giorni su sette, per tre turni (almeno nei giorni feriali) e che offre uno stipendio sicuro a molti e vera ricchezza a pochi.

La verità è che il modello di Amazon è vincente, ma completamente diverso da quello al quale siamo abituati e da quello che vorremmo. È un modello molto “americano”, così lontano da quello di sviluppo economico e sociale delle piccole e medie imprese, delle famiglie, dei collaboratori familiari, che ha creato la ricchezza diffusa e lo sviluppo economico del nostro territorio e che ha dato vita alle nostre città e ai nostri borghi.

Chi rappresenta questo mondo non può fare a meno di volere che anche i propri figli possano continuare a condividerne i valori e i vantaggi. Valori e vantaggi che, invece, stiamo rottamando a colpi di liberalizzazione selvaggia, deregolamentazione, recepimento di direttive europee “farlocche”. Pensiamo bene dove vogliamo arrivare o sarà troppo tardi.

È su queste riflessioni che come associazione intendiamo aprire un confronto serio e costruttivo per gettare le basi delle nostre azioni future.

* direttore Ascom Bergamo Confcommercio


Dopo la batosta / Renzi, difficile evitare un atterraggio di fortuna

Ce la racconti come vuole, Matteo Renzi, ma ha perso. E pure di brutto. Vada, se non l’ha già fatto, ad accendere un cero a Beppe Sala che, salvando la ghirba a Milano sia pure affannosamente, gli ha consentito di evitare la disfatta.

Magra consolazione perché il quadro che esce dal secondo turno delle elezioni comunali ci conferma in una ipotesi-sensazione che avevamo già espresso alla vigilia dei ballottaggi: è iniziata la Renzexit. Chi vuol sussultare, lo faccia. Chi crede che si tratti di un’esagerazione ha tutto il diritto di farlo. Ma solo gli illusi possono pensare che dopo una simile batosta (a Roma i grillini che il premier irrideva hanno preso più del doppio del suo candidato e a Torino una bandiera come Fassino è stata mestamente ammainata) il baldanzoso e irruente Renzi possa andare al referendum, da lui stesso già immaginato come il punto di non ritorno per la sua esperienza politica, con reali speranze di farcela.

Proviamo a riavvolgere il nastro. In poco più di due anni il segretario Pd ha aperto fronti di guerra in ogni dove. Prima dentro il suo partito, mettendo alla porta solo i cacicchi (D’Alema) più pericolosi ma non tutti. E ci stava. Ma quando ha messo il naso fuori si è immedesimato nel famoso draghetto Grisù, quello che voleva fare il pompiere ma che lanciava fiammate ogni volta che apriva la bocca. Giù legnate al sindacato e giù sciabolate alle organizzazioni di categoria. Poi caccia continua a (presunti) gufi, cornacchie e volatili vari. Il tutto scandendo ossessivamente il mantra “noi dobbiamo cambiare il paese, solo noi possiamo farlo. Gli altri pensano solo agli inciuci” (e lui trafficava con Verdini e con gli avanzi del berlusconismo).

Il 40 per cento che aveva conquistato alle Europee del 2014 lo aveva illuso (con la compiacenza, sia chiaro, dei giornalini e dei grandi commentatori sempre pronti a baciare la pantofola del capopolo di turno). Ci ha campato sopra per un po’, ma alla fine le chiacchiere, come icasticamente dicono a Roma, “stanno a zero”.

Il Pd è un partito a pezzi, non governato da una classe dirigente di yuppies dall’accento toscano, del tutto fuori controllo in periferia (così che incidentalmente possano emergere eccezioni sorprendenti come quella di Varese). Il governo è stato piegato a sprecare immani energie nella battaglia per il referendum costituzionale. L’economia non riparte, ai risparmiatori truffati dalle banche non è ancora stata data risposta, il malaffare continua a perpetuarsi mentre a Roma litigano sui tempi della prescrizione.

Di fronte a questo scenario un premier responsabile avrebbe dovuto rivoltarsi ancor più le maniche nel tentativo di mobilitare tutte le energie possibili per invertire la rotta. Al contrario Renzi, vittima del suo carattere da gradasso in giacca e cravatta, ha minacciato di imbracciare il lanciafiamme…

È davvero puerile, dopo quel che è successo a Roma e Torino, sentirlo commentare “vedremo cosa sapranno fare i grillini…”. Cosa ha fatto e cosa sta facendo lui gli italiani lo stanno vedendo e non pare che ne siano più così entusiasti. Forse è arrivato il momento di guardarsi allo specchio e di fare ordine in casa propria. Sempre che ve ne sia ancora il tempo. Perché la Renzexit è ampiamente avviata. Smarcamenti e riposizionamenti sono già iniziati poche ore dopo l’apertura delle urne. Allacciate le cinture, turbolenze in vista. L’equipaggio è pronto per un atterraggio di fortuna ad ottobre. Sarà molto difficile evitarlo.


Divieto ai minori e ticket d’ingresso a 80 euro. Quando il Vinitaly ci spiazza

Vinitaly rappresenta da 50 anni a questa parte l’appuntamento più importante per l’enologia nazionale ed internazionale. Anche quest’anno il Consorzio Tutela Valcalepio sarà presente al Pala Expo Lombardia quale unico rappresentante dell’enologia bergamasca, con il suo stand collettivo dal 10 al 13 aprile. Nello spazio dedicato a Bergamo non mancheranno poi gli appuntamenti con la gastronomia tipica, organizzati anche quest’anno in collaborazione con la Camera di Commercio. Numerosi anche gli aggiornamenti social, appositamente pensati per far vivere la frizzante atmosfera della fiera anche a chi non potrà essere fisicamente presente a Vinitaly.

A tale proposito, due sono le riflessioni che sorgono spontanee nel momento in cui si sceglie di informarsi meglio sul 50° Vinitaly: il costo del biglietto e un particolare divieto di accesso.

L’Ente Fiera ha scelto di posizionare il costo del biglietto giornaliero ad un livello davvero alto: 80 euro. Una cifra elevata che, nelle speranze degli organizzatori, dovrebbe decurtare il numero di avventori “non desiderati”. Una delle conseguenze sarà l’allontanamento di una parte del pubblico appassionato e non solo. Vero è che la manifestazione nasce come momento d’incontro a livello professionale ma, a mio parere, dovrebbe comunque mantenere il suo aspetto di importante appuntamento anche per le persone desiderose di apprendere e conoscere. Non vorremmo mai che il pubblico iniziasse a considerare il vino un bene di lusso, qualcosa di riservato ad un elite, errore già commesso in passato e da cui dovremmo trarre opportuno insegnamento. Non solo, se il fine fosse quello di elevare la “qualità” dei visitatori, la domanda che mi pongo è perché mai l’operatore professionale debba pagare questa cifra.

Nella stessa direzione va anche la seconda informazione che si apprende dal sito della manifestazione. Si legge esplicitamente che “Per il mantenimento dello standard professionale, Vinitaly è aperto esclusivamente agli operatori specializzati, maggiorenni: non è permesso l’ingresso ai minori di 18 anni anche se accompagnati”. Ancora una volta si sceglie la strada della demonizzazione di un settore, quello enologico, che, non va mai dimenticato, vive e cresce grazie all’apporto del pubblico consumatore. Importante, quindi, mantenere professionale la manifestazione ma fondamentale, a mio parere, è non perdere di vista la cultura e la tradizione che questo comparto rappresenta per noi. Da produttore (vale anche per i ristoratori) mi chiedo perché mai non possa portare con me i miei figli minorenni, per far vivere a loro una esperienza concreta

del lavoro che ci permette di vivere. Come recita il motto della fiera “Da un grande passato nasce un grande futuro”, mi chiedo, perciò, come possiamo trasmettere certi valori senza avere a fianco i nostri giovani. Non ci resta che aspettare Vinitaly e solo ad aprile potremmo trarre le dovute conclusioni.