Buoni pasto a doppia velocità

Nel pubblico le commissioni non possono oltrepassare il 5%, mentre nel  privato arrivano a sfiorare il 20%. La sfida è quella di cercare di uniformare i due settoriLa questione è delicatissima ed intricata quanto basta per creare più di qualche pensiero ai tanti ristoratori che da tempo stanno interrogandosi sull’effettiva opportunità di continuare o meno ad accettare i buoni pasto. Diciamolo subito: una risposta giusta, capace di soddisfare esigenze ed aspettative di tutti non c’è. Da una parte serbatoio di clientela che facilmente può fidelizzarsi al proprio locale, dall’altra i buoni pasto rappresentano un prezzo a volte troppo alto da pagare, se si vuole restare sul mercato: commissioni esorbitanti, tempi di pagamento molto lunghi (si parla di settimane per ricevere il corrispettivo in denaro) e in alcuni casi anche l’incertezza della tenuta delle società emettitrici (leggi: fallimento di Qui! Group, che nel 2018 finì a gambe all’aria con 325 milioni di euro di debiti, pagati in gran parte proprio dai commercianti, che per molto tempo avevano continuato ad accettare ticket che non sono più stati rimborsati).

Chi è del mestiere questi meccanismi li conosce bene: chi acquista i buoni pasto dalle società emettitrici, lo fa chiedendo sconti anche a doppia cifra, che poi si traducono in commissioni fino al 15-20% a carico dei titolari di bar e ristoranti, sottoforma di commissione. Lo scorso mese di marzo un primo, importante passo per sbrogliare la matassa è stato fatto, grazie anche al meticoloso lavoro ai fianchi della Fipe, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi. Nell’ultima gara d’appalto che si è chiusa a inizio primavera, la Consip – società per azioni del Ministero dell’Economia che si occupa della gestione dei servizi – ha fissato al 5% il tetto massimo delle commissioni che le società emettitrici di buoni pasto possono chiedere ai commercianti.

Una svolta (quasi) epocale, che però non risolve del tutto il problema. Questa condizione vale infatti solo per il mercato pubblico, che pure vale un miliardo e 250 milioni di euro l’anno, pari a poco più di un terzo del giro d’affari complessivo. Resta dunque scoperto il settore privato, che di miliardi ne vale addirittura 2, e sul quale il peso dello Stato non può farsi sentire. Oggi il rischio più evidente per il titolare di un locale è quello di ricevere buoni pasto di Serie A e buoni pasto di Serie B, ovvero ticket sui quali si ritrova a pagare il 5% di commissioni e altri sui quali la percentuale può arrivare a sfiorare il 20%, con ripercussioni non solo sul cassetto del ristorante, ma anche sul servizio ai clienti (a tutti i clienti, ovviamente, non solo quelli che si presentano coi buoni). E vedremo come. 

Nel frattempo aver «sistemato» il comparto pubblico rappresenta un primo obiettivo raggiunto: «Si era arrivati a condizioni di vendita con sconti a monte troppo alti, che generavano commissioni ancora più elevate e, dunque, insostenibili per i commercianti – spiega Oscar Fusini, direttore di Ascom Confcommercio Bergamo –. Lo Stato risparmiava tanto, ma tutti questi soldi venivano poi ricaricati sugli esercenti». Ora le cose sono cambiate: nella commissione massima del 5% rientrano anche gli eventuali servizi aggiunti (ad esempio i pagamenti più veloci o anticipati), che normalmente le società si facevano pagare con ulteriori ritocchi alle loro percentuali. Tutto questo è senz’altro un bene: si stima che solo in Lombardia la mossa di dare un freno alle commissioni per il settore pubblico genererà un risparmio di 14,1 milioni di euro all’anno per i commercianti. «Siamo di fronte a una manovra importante – dice ancora Fusini –. Resta però ancora da definire il mercato privato e con esso altre questioni legate all’innalzamento della qualità del servizio e al superamento del concetto del massimo ribasso». Altri nodi da sciogliere sui quali però l’impressione è che non sarà così facile intervenire, non almeno nel breve periodo. 

Il fenomeno dei buoni pasti non è affatto marginale: nella sola provincia di Bergamo sono circa 59mila lavoratori tra settore pubblico e privato a riceverli, e sono sempre più numerosi: dopo la pandemia il numero di coloro che riscuoto i ticket ogni mese è cresciuto di 2mila unità per effetto dell’incremento dei servizi legati al welfare aziendale. Il valore complessivo si aggira intorno ai 70 milioni di euro all’anno in Bergamasca, con una media di poco superiore ai 1.200 euro all’anno per lavoratore, pari a 5,36 euro al giorno, di certo non il valore di un pasto, ma un buon contributo (il buono mutua il valore di un pasto servito in una mensa aziendale). I punti vendita che accettano i buoni pasto sono circa 800.

«Stiamo parlando di uno strumento che risulta essere ancora efficace – spiega Fusini–; al lavoratore piace perché è molto spendibile: serve per mangiare, ma anche per fare la spesa, ed è un’integrazione al reddito del tutto defiscalizzata. I buoni pasto piacciono anche perché sono molto flessibili nell’utilizzo, basti pensare che tanti di coloro che non li hanno, vorrebbero beneficiarne. Per il datore di lavoro è innanzitutto uno strumento che fa parte del welfare aziendale e che serve in qualche modo a fidelizzare i dipendenti e a gratificarli, con un onere contributivo e fiscale davvero minimo per l’azienda». Al netto delle difficoltà che permangono in un contesto ancora troppo variegato, i benefici ci sono e «pesano» non poco sulla circolazione dei buoni pasto e sulle loro prospettive future. «Con l’ultima gara Consip è stato ottenuto un primo risultato, ma occorre sistemare l’impianto normativo per migliorare l’equilibrio della filiera anche nel settore privato– insiste Fusini, richiamando l’obiettivo sul quale è necessario continuare a lavorare–. Si deve impedire, per esempio, alle aziende di spuntare il massimo ribasso, che si traduce in commissioni insostenibili per i commercianti, puntando in questo modo ad aumentare il livello della qualità e della fruibilità del buono pasto». 

Commissioni ragionevoli e dunque più sostenibili, insieme a tempi di pagamento più certi: sono questi i prerequisiti necessari per indurre ad accettare i buoni pasto anche chi attualmente preferisce non averci a che fare. Spesso si tratta di locali di un certo livello che se entrassero nel giro dei buoni pasto, potrebbero contribuire a trascinare verso l’alto la qualità media dell’offerta, ma che in questo momento non hanno interesse a farlo. «Per questo motivo – conclude il direttore di Ascom – si deve lavorare per rendere sostenibile a lungo termine tutto il processo di filiera, a vantaggio di chi acquista i ticket, di chi li compra e degli esercenti che li accettano».

Eccola, dunque, la sfida per il prossimo futuro: provare a metter mano alla giungla del settore privato che viaggia ancora con commissioni «libere». E qui la palla passa di nuovo tra i piedi della Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi: «Stiamo lavorando su più fronti – spiega Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi di Fipe –. Siamo impegnati innanzitutto in un’azione di “persuasione morale” nei confronti dei datori di lavoro privati e in particolare delle grandi aziende che acquistano i buoni pasto per i loro dipendenti, Stiamo cercando di sollecitarli a un’assunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli stakeholder della filiera. Se loro pretendono dagli emettitori uno sconto esagerato, è chiaro che l’emettitore lo ribalta a sua volta sugli esercizi convenzionati».

Per l’azienda, vale la pena ricordarlo, sono totalmente deducibili e decontribuiti i buoni pasto fino a 8 euro (se elettronici; quelli cartacei lo sono fino a 4 euro). «Stiamo lavorando anche per capire quale potrebbe essere lo strumento più adatto per regolare il sistema. La verità è che il codice degli appalti non vale per i contratti privati e il tetto del 5% che abbiamo ottenuto sulle gare pubbliche non si applica alle aziende». In altre parole, una soluzione ancora non c’è: compito della Fipe è quello di trovarne una per fare in modo che anche ai contratti privati si possa applicare una commissione massima che non superi il 5%. Se la cosiddetta «moral suasion» sulle aziende sortirà qualche effetto lo vedremo nei prossimi mesi, ma probabilmente non prima della fine dell’anno, quando si avranno – è questo l’auspicio – i primi risultati di un’iniziativa di comunicazione in programma per la ripresa delle attività lavorative dopo l’estate. 

«Il rischio al quale siamo esposti con queste commissioni non è tanto quello di ritrovarci con dei buoni pasto a doppia velocità – è l’opinione di Luciano Sbraga –. Semmai stiamo registrando lamentele da parte dei lavoratori rispetto al fatto che alcune tipologie di buoni non vengono accettate nei locali. Alcune commissioni sono troppo alte e gli esercenti possono decidere di non prendere alcuni ticket, rinunciando però a dare un’opportunità in più ai loro clienti. Il danno è per entrambi: il lavoratore sa di non poter avere un servizio, mentre per l’esercente essere costretto a rinunciare a un cliente è sempre un problema».

In alcune regioni è anche possibile che una stessa azienda emettitrice abbia sottoscritto contratti sia con lo Stato che con qualche datore di lavoro privato: e così buoni pasto apparentemente uguali possono avere un peso anche molto diverso per le tasche dei ristoratori.

Il fatto è che quando una vendita presenta più costi che benefici, al titolare di un bar o di un ristorante non resta che farsi due conti in tasca e per mandare avanti l’azienda può vedersi costretto anche a rinunciare a qualche coperto. L’alternativa è quella di trasferire i costi anche sugli altri clienti, ma ciò vorrebbe dire aumentare prezzi per tutti, anche per chi paga in contanti (o comunque senza buoni pasto). «Ma anche in questo caso non è facile prendere una decisione – dice ancora Sbraga –. L’esercente deve fare i conti con il mercato, e non può permettersi né di aumentare i prezzi in modo indiscriminato, né tantomeno di abbassare troppo la qualità, rischiano di perdere i clienti».

Un equilibrio che non è per niente facile da raggiungere; la soluzione meno indolore, al momento, resta dunque quella di non prendere i buoni pasto che hanno commissioni insostenibili. Fare leva sui lavoratori non è possibile perché, a parte il disagio di non vedersi accettare i propri ticket in alcuni locali, per loro il valore del buono pasto resta quello nominale, a prescindere dalle commissioni. Anzi, molto spesso coloro che usufruiscono dei ticket non sono a conoscenza delle dinamiche che s’intersecano dietro il blocchetto dei loro buoni pasto, «e non si rendono conto che l’eventuale disservizio non è altro che il risultato finale di una scelta che fa il suo datore di lavoro quando vuole risparmiare eccessivamente sull’acquisto di quel servizio – puntualizza il direttore del Centro Studi di Fipe –. Da parte loro, anche gli emettitori hanno una parte di responsabilità, poiché rappresentano la cinghia di trasmissione tra il datore di lavoro e l’esercente, ma è evidente che se possiamo parlare di “ingordigia”, questa è tutta del datore di lavoro». E non sembra percorribile neppure la strada in una forma di tassazione da mettere in capo alle aziende private per scoraggiarle a chiedere sconti sempre più elevati.

In attesa di un non facile soluzione, un’altra questione ancora aperta e sulla quale la Fipe come rappresentante dei gestori dei locali è chiamata a fare una riflessione, riguarda i costi aggiuntivi legati alla gestione dei Pos. Nei bar e nei ristoranti ce ne sono ancora tanti e l’obiettivo è quello di riuscire ad avere un Pos unico per tutti. Un’opera di semplificazione, anche questa, di portata eccezionale, che però coinvolge anche gli istituti di credito, aumentando il coefficiente di difficoltà. «Ancora non si trova la strada per farlo – ammette Sbraga –, ed è un altro motivo per cui molti esercenti sono scoraggiati dall’accettare i buoni pasto. Ormai sulla questione dei buoni pasto elettronici la strada è tracciata: lo sono tutti i ticket oggetto dell’ultima asta pubblica, e parliamo già di un terzo del totale, e anche nel privato la percentuale di chi li adotta in questa forma è sempre più rilevante».

 


Buoni pasto, il tetto al 5% delle commissioni in capo agli esercenti vale un risparmio di 1,5 milioni

Fusini: “Maggiore sostenibilità per gli esercenti e miglior servizio per i lavoratori”

Il taglio alle commissioni per i buoni pasto dei dipendenti pubblici fissato al 5% sta per diventare realtà. Con le aggiudicazioni della gara Consip “BP10” (ancora non efficaci, ma rese pubbliche al 27 febbraio, aggiudicate in Lombardia da “Up Day” e “Welfare Pellegrini”) Fipe- Federazione italiana pubblici esercizi italiani stima un risparmio per gli esercenti per il 2023 di circa 150 milioni di euro a livello nazionale e di 14,1 milioni in Lombardia.  Un primo importante  risultato del lavoro che ha visto unite le associazioni della ristorazione e del commercio per rispondere al disagio di migliaia di imprese costrette a pagare una tassa occulta del valore di centinaia di milioni di euro per assicurare il servizio ai lavoratori che utilizzano ogni giorno il buono pasto. Basti pensare che le commissioni della precedente gara lombarda erano al 16,17%, con punte in altre regioni dal 19,80% in Sicilia e Campania al 21,07% in Calabria. Ascom Confcommercio Bergamo esprime tutta la sua soddisfazione per questo primo risultato raggiunto. L’associazione ha diffuso un vademecum per informare dell’importante novità tutti gli accettatori di ticket (esercenti, bar, ristoranti,  esercizi di vicinato a supermercati) . I nuovi contratti di convenzione legati a una committenza pubblica sia che si tratti di Consip che di altra amministrazione pubblica potranno richiedere una commissione massima del 5% del valore nominale del buono pasto senza alcun costo accessorio. L’emettitore non potrà infatti richiedere alcun costo aggiuntivo né per la dematerializzazione dei buoni cartacei, né per i Pos di lettura per i ticket elettronici, né per la gestione di fatture ed emissione.
La normativa  secondo le stime Ascom interessa circa 21mila lavoratori pubblici bergamaschi ( il dato, su elaborazione dato Inps non comprende i dipendenti scolastici, universitari e altri comparti che normalmente non percepiscono buoni) e oltre 800 tra trattorie, bar, ristoranti e negozi di alimentari che accettano ticket. Il risparmio complessivo per gli esercenti bergamaschi stimato da Ascom è di circa 1,5 milioni di euro. Una cifra considerevole in un mercato dal valore complessivo (includendo tutti i lavoratori beneficiari, pari a 58.200, di cui 21mila pubblici) di oltre 70,3 milioni di euro (dato 2022, in crescita di oltre 4 milioni di euro rispetto al 2021, secondo stime Ascom).  In tempi di costi e burocrazie crescenti è un primo segnale di tutela degli operatori commerciali e, di pari passo, dei beneficiari e utilizzatori dei ticket. “ Dare sostenibilità all’esercente significa migliorare la qualità del servizio e aumentare il valore reale del buono anche per il lavoratore- sottolinea il direttore Ascom Confcommercio Bergamo Oscar Fusini-.  Resta comunque la necessità di una riforma strutturale del sistema dei buoni pasto, per intervenire anche sulle gare private che oggi non sono interessate dal provvedimento  e che, tuttavia, valgono quasi  due terzi del mercato. Occorre adottare modelli di regolazione mutuati da altri Paesi europei, mettendo al centro la salvaguardia del valore reale del buono pasto, da quando viene acquistato dal datore di lavoro a quando viene speso dal lavoratore. Ed è bene ricordare che questo strumento prevede già importanti vantaggi sia per il datore di lavoro con la decontribuzione, sia per il lavoratore con la defiscalizzazione”.


Buoni pasto, ecco le novità in vigore dal 9 settembre

buoni_pastorthg.jpgIl 9 settembre entra in vigore il decreto del Ministero dello Sviluppo economico (7 giugno 2017 ai sensi dell’articolo 144 del Nuovo codice degli appalti) che disciplina alcuni aspetti e caratteristiche dei buoni pasto.

La normativa non incide sui contratti in essere, ma porta con sé alcune novità:

  • l’ampliamento dei soggetti che possono ricevere buoni pasto (agriturismo, ittiturismo, spacci aziendali, imprese alimentari artigiane, agricoltori per la vendita al dettaglio e il consumo sul posto)
  • la cumulabilità fino a otto buoni pasto
  • la possibilità di acquistare prodotti alimentari anche per il consumo non immediato.

Per quanto riguarda il rapporto tra società emettitrici ed esercizi convenzionati, è introdotto il divieto di ritardare o negare il pagamento di fatture oggetto di contestazioni parziali e l’obbligo di pagare almeno la parte non contestata. La nuova normativa prevede anche misure che depotenziano i servizi aggiuntivi, voci che, secondo quanto denunciato a più riprese dagli esercenti, fanno lievitare, spesso immotivatamente, i costi.

L’aver chiarito e regolato alcuni aspetti del rapporto tra le società emettitrici e le attività convenzionate non ha tuttavia risolto il problema della sostenibilità degli strumenti. «La modifica del Codice degli Appalti avvenuta a maggio scorso – spiega la Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi – ha introdotto una dirompente novità relativamente allo sconto che la società emettitrice dovrà proporre alla Pubblica Amministrazione in sede di gara, che non dovrà essere superiore alla commissione proposta all’esercente». Una norma che potrebbe calmierare le commissioni o, al contrario, innalzarle fino allo sconto offerto nella gara d’appalto. Per questo l’associaizone guarda con preoccupazione al prossimo bando Consip, atteso per gennaio 2018, che potrebbe rafforzare il criterio del massimo ribasso degli appalti.


Buoni pasto, le nuove norme non risolvono i problemi. Anzi…

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di Oscar Fusini*

Quando si dice che la montagna ha partorito il topolino.

Il nuovo decreto del ministero dello Sviluppo Economico sui buoni pasto, in vigore dal 9 settembre, introduce la cumulabilità dei buoni ed allarga la platea di coloro che possono accettarli, ma non interviene sulla sostenibilità di questi strumenti da parte della filiera coinvolta.

Ci aspettava, dopo anni di ritardo e di difficoltà, una legge che risolvesse i problemi del settore ed invece il provvedimento rischia di aumentare ancora di più le criticità.

Certo, in alcuni ambiti come quello della trasparenza dei rapporti tra emettitori ed esercenti, la legge è un passo in avanti, ma il provvedimento non sana la grave lacuna della non sostenibilità economica del buono e, con questo, l’indebolimento qualitativo della rete degli esercizi e dei servizi erogati.

In primo luogo la tanto decantata cumulabilità non sembra una novità. Il nuovo decreto estende la cumulabilità fino a otto buoni senza chiarire se è per prestazione o giornaliera. Del resto, comunque, questa era una prassi già in uso e consolidata.

Il vero problema dei buoni pasto è a monte. Giusto per non usare giri di parole, occorre ricordare che lo Stato per i buoni pasto dei suoi 900.000 dipendenti vuole risparmiare qualche miliardo di euro e cerca di scaricare il suo onere innanzitutto sui dipendenti che li ricevono, consegnando loro buoni con valore facciale uguale ma con valore reale sempre più basso, e poi sugli esercenti, che devono o dovrebbero offrire un servizio adeguato a prezzi inferiori.

Questo spiega perché il Ministero abbia deciso di allargare la platea di chi li può accettare. Non era un privilegio che fin qui li potessero accettare solo bar, ristoranti ed esercizi limitatamente a piatti pronti per il consumo, dato che il buono rappresentava un servizio sostitutivo della mensa e per questo ha sempre goduto della detassazione che tanto piace a datori di lavoro e beneficiari.

Ora con i buoni si potrà comprare qualsiasi prodotto alimentare, anche materie prime, semilavorati ecc. non pronti per essere consumati.

Chiaro che da una funzione di servizio si è passati a considerare il buono pasto uno strumento di pagamento e qualche rischio sulla detassazione potrebbe esserci.

In realtà la manovra è più strategica. Dato che la rete dei bar e dei ristoranti fatica a sostenere il costo delle commissioni, si apre l’accettabilità anche alle altre categorie sperando di trovare nuovi accettatori.

Ben venga, allora, che anche gli artigiani, gli agriturismi, gli ittiturismi e tutti coloro che vorranno d’ora li possano accettare, sappiano però che si siedono ad una tavola molto imbandita dove uno solo mangia e tutti gli altri pagano.

In questo modo si rafforzerà il fronte di coloro che chiedono una reale riforma del settore a beneficio di tutti.

Il fatto è che il decreto ministeriale segue il decreto legislativo 50 del 2016 e il suo fatidico art. 144 comma 6 sulle gare d’appalto dei servizi di ristorazione che stabilisce che il ribasso sul valore nominale del buono non possa essere superiore allo sconto incondizionato verso gli esercenti.

Potrebbe avvenire che questa norma faccia da calmieratore delle commissioni – ipotesi molto difficile –, più facile che le commissioni per gli esercenti raggiungano e superino il 20% senza più possibilità di ritorno.

Ma chi potrà sostenere questi nuovi buoni pasto?

Verrebbe da dire nessuno ma qualche disperato lo si trova sempre. Temiamo sempre di più che precipiterà la qualità del servizio e aumenteranno i prezzi. A danno di tutti: consumatori, lavoratori esercenti con lo Stato l’unico che continuerà a risparmiare.

*direttore Ascom Bergamo Confcommercio


Buoni pasto, esenzione fiscale più alta per quelli elettronici

buoni pasto elettroniciDal 1° luglio le aziende che decidono di utilizzare per i propri dipendenti i buoni pasto elettronici ottengono l’esenzione fiscale e contributiva per i ticket fino a 7 euro, come previsto nella Legge di Stabilità. Per i buoni pasto cartacei invece il tetto defiscalizzato rimane invariato a 5,29 euro.

«I buoni elettronici, che garantiscono una maggiore tracciabilità, velocizzano la fatturazione ed evitano i falsi, non sono però utilizzabili in maniera cumulativa, oltre la soglia stabilita e nelle giornate non lavorative – evidenzia l’Ascom di Bergamo -. A fronte dei numerosi vantaggi, occorre segnalare che il buono pasto elettronico presenta alcuni costi di gestione superiori rispetto al buono pasto tradizionale, sia per le commissioni che per l’installazione di uno o più Pos in grado di leggere le card elettroniche emesse dalle diverse società fornitrici, una sorta di carnet virtuale dove le aziende caricano i buoni pasto ai propri dipendenti».

Oggi i buoni pasto elettronici rappresentano circa il 15% del totale.


Buoni pasto, «basta sconti o salta il sistema»

C’è ancora fermento intorno ai buoni pasto. Fipe Confcommercio dice basta e chiede un cambio di registro. «Lo sconto che i committenti, pubblici e privati, pretendono ogni anno sul valore dei buoni pasto immessi sul mercato è di 500 milioni di euro e il costo di questo gigantesco buco è stato finora coperto sacrificando i margini degli esercenti fino ad azzerarli – denuncia Aldo Cursano, vicepresidente vicario della Federazione dei pubblici esercizi -. Ma ora il sistema non è più sostenibile, non siamo disposti a scaricare i costi su lavoratori e consumatori in genere alzando i prezzi o abbassando la qualità del servizio».

L’ultima gara indetta da Consip per i buoni pasto della pubblica amministrazione è stata aggiudicata con sconti fino al 22% sul valore dell’appalto pari a un miliardo di euro. Il risultato è che in circolazione ci saranno buoni pasto che valgono un miliardo di euro ma sono stati pagati circa 800 milioni dalla pubblica amministrazione. I 200 milioni di euro di differenza li pagheranno di fatto gli esercenti che su ogni buono incassato si vedranno applicare la commissione necessaria a coprire la differenza. Oggi questa commissione, comprensiva di aggravi ingiustificati, arriva al 18%. Senza considerare i costi di gestione fatti di conteggi, fatturazione, spedizione, ecc.

«Non è questa la spending review che ci aspettiamo dallo Stato. Devono tagliare sprechi ed inefficienze – dice Cursano – non risparmiare facendo pagare il conto ad imprese e famiglie». «Chiediamo a Governo e Parlamento di intervenire per sottrarre un mercato speciale come quello dei buoni pasto a gare che non garantiscono il valore del buono lungo tutta la filiera. Ci aspettiamo che lo Stato, sia attraverso Consip che attraverso l’Antitrust, assuma comportamenti virtuosi per tutelare la sostenibilità delle imprese e i diritti dei consumatori» continua il vicepresidente Fipe.

In particolare, per la Federazione, occorre fare in modo che ci sia un terminale Pos unico in grado di leggere tutti i buoni pasto; eliminare i ribassi insostenibili sui buoni pasto mantenendo l’integrità del loro valore lungo tutta la filiera e garantire il corretto uso del buono pasto che va utilizzato solo per i servizi di ristorazione e, in generale, per il consumo immediato.

Nemmeno il passaggio dai buoni pasto cartacei a quelli elettronici sembra aver migliorato la situazione. «Speravamo che si eliminassero aggravi di costi e di adempimenti burocratici. L’effetto, invece, pare essere esattamente quello contrario» spiega Cursano. «Oggi i costi del buono elettronico sono fuori da ogni logica di mercato e sono scaricati interamente sull’esercente: basti dire che per ogni singola transazione si chiede fino a 0,48 euro a cui si aggiungono i costi di installazione del Pos ed il canone di noleggio. Inoltre, rischiamo di dover gestire 4 o 5 Pos, uno per ciascun emettitore. Così non va bene, bisogna riscrivere le regole, oppure salta il sistema».