Caffè al bar, «serve un rilancio di prodotti e servizio»

 

Un bar italiano serve in media 175 tra caffè e cappuccini al giorno per un incasso quotidiano di 184 euro. «Cifre che fanno ben comprendere quanto sarà complicato per colossi come Starbucks fare breccia nel mercato italiano» dichiara Luciano Sbraga, direttore dell’Ufficio Studi della Fipe, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi che ha fatto il punto su come si evolve il mondo del caffè in un recente convegno organizzato in collaborazione con l’Associazione Italiana Torrefattori.

«La caffetteria è il prodotto di punta del bar italiano e costituisce circa un terzo del relativo volume d’affari – dichiara Luciano Sbraga -. Si tratta di un bene dal consumo estremamente ampio su tutto il territorio italiano, ma che ha bisogno di un rilancio in termini di qualità, sia del prodotto stesso che del servizio. Questi attori sono spesso pregiudicati da una competitività serrata e dalla presenza di realtà poco qualificate lungo tutta la filiera produttiva e distributiva. Serve una svolta anche per quanto riguarda il rapporto con i fornitori che deve essere improntato ad una maggiore qualità degli approvvigionamenti, insieme all’esigenza di rinnovare il parco attrezzature, come ad esempio il bancone, l’attrezzatura più importante di un locale: secondo la ricerca Fipe “Il bar – I rapporti di filiera” infatti, nel 94% dei casi l’acquisto risale ad oltre 6 anni fa, e in 8 casi su 10 ad oltre 10 anni».

Entrando nel dettaglio delle vendite di caffè per tipologia di pubblico esercizio, le 175 tazzine di caffè e cappuccino sono così ripartite: una media di 220 è venduta nei lunch bar, seguita da 202 dei morning bar e 200 nei bar non specializzati. Chiudono la classifica con 170 tazze i bar multipurpose e solo 85 gli evening bar.

Dal punto di vista occupazionale, nel mondo del bar sono impiegate 363mila persone, di cui 206mila dipendenti (media annua 2014). Nel corso del 2014 il 18% delle richieste di personale espresse dalle imprese ha riguardato la professione del barista. In diversi casi le imprese hanno lamentato la difficoltà di reperimento del personale per l’inadeguatezza dei candidati.

I dati della Fipe toccano anche la questione dei rapporti di filiera, che registrano un elevato tasso di fidelizzazione: nell’80% dei casi infatti i fornitori sono gli stessi da oltre sei anni e nel 60% dei casi (più nel beverage che nel food) da oltre 10 anni. La fiducia è la parola a cui più ricorrono gli esercenti per descrivere i criteri sulla base dei quali seleziona i fornitori. Seguono professionalità e qualità dei prodotti; solo nel 16% dei casi i gestori fanno riferimento al prezzo che il fornitore pratica.

La multicanalità è un requisito a cui gli operatori non rinunciano alla ricerca della migliore opzione: il 60% infatti effettua confronti tra fornitori prima di acquistare la merce. Non manca tuttavia uno zoccolo di esercenti per i quali la ricerca di fornitori alternativi non ha motivo di essere, grazie alla piena fiducia nei confronti dei fornitori abituali.

Per quanto riguarda infine le attrezzature, le macchine del caffè nella maggior parte dei casi vengono prese in comodato d’uso dai torrefattori; in ogni caso per il futuro le intenzioni di investimento per rinnovare o arricchire la propria dotazione di attrezzature riguarda un buon numero di imprese. In particolare nel biennio 2015 – 2016 il 14% delle imprese ritiene di dover acquistare nuove attrezzature e nel triennio successivo la percentuale sale al 25%. In definitiva il 40% circa degli intervistati acquisterà nuove attrezzature nell’arco dei prossimi cinque anni.

Per quanto riguarda la catena del valore, infine, i dati di Fipe mettono in luce come il prezzo del caffè subisce un incremento di 9 volte nel passaggio dai crudisti ai torrefattori fino agli esercenti.


Artisan Café, il locale fatto in casa che punta su tapas e drink

Concept moderno, mobili d’ artigianato, drink originali preparati con mestiere, tapas, bevande e piatti vegani e uno spazio per eventi, riunioni, meeting, cene aziendali, corsi, ma soprattutto per laboratori destinati ai bambini. Stefano De Gaspari e la moglie Martina Mafezzoni, in via San Bernardino 53, a Bergamo hanno creato un locale all’avanguardia in tutti i sensi, che punta a tutto tondo sul “fatto in casa”.

Non a caso l’hanno chiamato Artisan Cafè, dove artisan sta per artigiano. Insieme hanno studiato e realizzato gli arredi, impiegando legni riciclati, bancali, ferro e cemento, recuperando divani e poltrone vintage in sala e stoviglie e bicchieri nei mercatini d’antiquariato. Stefano ha portato nel nuovo locale la sua passione per i mobili di design (particolarissime le sedie anni Settanta rivestite con manicotti antincendio o cinture di sicurezza e le lampade lavorate con tubi idraulici zincati a forma di omini e dinosauri) e il risultato è un bar bello, intimo e accogliente, un po’ nordico.

«Volevamo creare un nuovo concetto di locale – dice Stefano – un bar diurno dove gustare la colazione o il pranzo in compagnia in un ambiente caldo, ma anche uno spazio polifunzionale per ospitare feste e attività, e la sera un luogo per degustare cocktail particolari e di tendenza accompagnati da tapas».

A poche settimane dall’apertura, il locale, che ha preso il posto del Caffè Letterario, è già conosciuto e apprezzato da una clientela composta per lo più da professionisti e persone di passaggio in cerca di una pausa diversa e di qualità. Malgrado l’età, 39 anni lui, 36 lei, Stefano e Martina sono veterani del settore: nel 2004 hanno aperto lo Tsunami, primo sushi-bar della città, e nel 2008 la Cafeteria di Treviolo, ristorante e lounge bar molto frequentato dagli studenti.

Il loro nuovo locale è articolato in 97 metri quadrati di bar e 200 metri quadrati polivalenti. L’offerta food&beverage copre tutto il giorno ma si caratterizza soprattutto per la pausa aperitivo: cocktail anni Trenta rivisitati, infusi alcolici di gin, bitter e sciroppi aromatizzati preparati da loro. «I più richiesti – dice Martina – sono il Montegani a base di gin, bitter al cardamomo, sciroppo allo zenzero e spremuta di pompelmo; l’Honeyescape, brandy, sciroppo al miele, spremuta di arancia e bitter alla cannella; e il White Spritz rivisitazione personale dello Spritz, preparato con Biancosarti, Saint Germain, sciroppo al rosmarino e vino bianco». In accompagnamento, le tapas che spaziano dai sapori italiani alle novità dello street food e sono tutte preparate al momento. «Non ci piace il concetto dell’apericena – spiega Martina – l’aperitivo deve essere un aperitivo, inoltre odiamo gli sprechi. Abbiamo applicato il concetto di eticità al nostro cibo e proponiamo piattini diversi così le persone possono scegliere cosa e quanto mangiare e come e quanto spendere. Perché le tapas? Secondo noi, sono il giusto mezzo dell’aperitivo».

Il progetto Artisan non si ferma qui. Nel 2016 verranno inaugurati uno shop d’artigianato e un pagina di shopping online.

 


Stezzano, le merende “floreali” di Fiammetta e Roberto

Fiori a merenda - Stezzano - Fiammetta Dose e Roberto CarissoniI coniugi Fiammetta Dose e Roberto Carissoni non volevano aprire un bar tradizionale e amavano le sfide. Così sei anni fa hanno dato vita, a Stezzano, a “Fiori a merenda”, un laboratorio-bottega floreale (fiori, al piano di sotto) e un raffinato salotto caffè/merenda (al piano superiore). Il locale è una piccola chicca nel mondo dei pubblici esercizi della provincia di Bergamo e una sorpresa inaspettata per chi ci capita. «Abbiamo aperto nel periodo peggiore degli ultimi vent’anni anni – dice Fiammetta -. Io vengo dalla capitale e ho viaggiato molto, ho capito che la specializzazione è fondamentale. Aprire la stessa cosa che è presente nelle vicinanze non ha nessun senso».

Fiammetta amava i fori e aveva fatto dei corsi per conoscerli, suo marito Roberto aveva lavorato nella ristorazione e gestito con altri soci un bar, così pensarono di unire queste due passioni. «I clienti da noi trovano le stesse cose che trovano negli altri bar ma ricevono qualcosa in più, una coccola. Siamo una sorta di spa del buonumore – spiega Fiammetta -. All’inizio i clienti rimangono spiazzati, ma poi capiscono che queste attenzioni hanno un senso e ritornano. Non è più il momento di prendere in giro le persone, soprattutto se c’è da spendere qualche euro in più».

La cura per i dettagli e la ricerca della qualità si colgono nel modo in cui Fiammetta e Roberto scelgono e presentano le loro piante, nell’arredo retrò della sala da tè e nella raffinatissima proposta al bar. Oltre alla caffetteria più classica, si trova un’ampia scelta di tè e tisane, da quelle più classiche e immancabili, ai tè aromatizzati: il tè verde al cocco, all’ananas, allo zenzero, e il tè alle violette, un cult per i frequentatori del locale. Tutti sono serviti in tazze floreali, una diversa dall’altra, e con una camera di vetro dove il liquido rimane sospeso. Da provare anche il cappuccio al tè verde matcha giapponese. Fiammetta prepara i croissant e le torte nel laboratorio durante la pausa pranzo (dalle 12.30 alle 15.30 il bar è chiuso), con gli ingredienti di stagione: da non perdere, la caprese al cioccolato con fave di mandorle, la cheesecake, la torta con i semi di papavero e variegato al ribes rosso e i biscotti (anche bio e senza glutine).

fiori a merendaNon manca una proposta di vini e cocktail per la pausa aperitivo. «Prima di proporre nuovi prodotti ai clienti assaggiamo sempre noi – dice -. Non darei mai qualcosa che non mi piace o di scarsa qualità. Quando porto al tavolino il tè spiego sempre da dove viene, come è fatto e lo stesso faccio con le torte».

Il bar è lontanissimo dal sembrarlo: appare più come l’elegante salotto di una nonna nobile. «Desideriamo che i nostri clienti si sentano accolti come se fossero a casa e che trascorrano un momento di tranquillità circondati da cose belle e attenzioni. Anche solo per un caffè, si possono spendere cinque minuti e sedersi al tavolo. La fretta è una nemica».

Il locale è frequentato prevalentemente da una clientela femminile ma non mancano le famiglie con i bambini e i “forestieri” di soggiorno a Bergamo per lavoro. «Lavoriamo per lo più con clienti che vengono dalla città e dai paesi vicini, qui rimaniamo un po’ delle mosche bianche – confida Fiammetta -. Tanti ci chiedono perché abbiamo deciso di aprire questa attività in un paese e non in una città. Abbiamo due bambini piccoli, la famiglia di mio marito abita qui e andiamo al lavoro a piedi o in bicicletta. Avere una vita tranquilla non ha prezzo».


Bar e caffetterie, Beltrami: «È il momento di investire»

«È vero che c’è la crisi, ma non è vero che non c’è lavoro. Il problema è la crisi delle idee, e vale più di quella del mercato. Anche nei periodi difficili, se ci sono buone idee, si lavora». Giorgio Beltrami, presidente del Gruppo Bar e Caffetterie Ascom, è convinto: «Questo è il momento di investire perché una volta terminata la crisi economica chi avrà avuto il coraggio di farlo raccoglierà a piene mani».

Che momento è per il comparto? C’è interesse ad aprire i bar?

«Ce n’è troppo. La liberalizzazione ha creato un danno al nostro settore. Prima c’erano pochi locali, ma più qualità. Ora ce ne sono molti di più, ma la qualità è minore. Mi preoccupa continuare a vedere che spesso chi apre un bar non è abbastanza preparato. Invece è sempre più importante avere alle spalle una buona preparazione e trovare delle idee da portare avanti, sennò si rischia di entrare in un mercato saturo».

Alcuni locali sono alla quarta, anche quinta gestione, colpa dell’improvvisazione?

«Oltre alla scarsa preparazione, c’è un altro problema, quello di non far bene i conti. Molti imprenditori hanno ancora in mente che se la bibita costa 50 centesimi e la si vende a due euro si guadagna. Uno dei problemi che sta venendo avanti è la tendenza di alcuni bar ad abbassare i prezzi. Alcuni arrivano a proporre cappuccio e brioche a 1,50 euro. Non si rendono conto che più ne fanno e più denaro perdono. Io so esattamente che nel momento in cui compro un prodotto e costa 1 euro alla fine con tutte le spese il suo costo mi diventa 2,71, io guadagno se lo vendo a più di questa cifra. I commercianti devono fare questo conto, considerare le spese di gestione fisse del locale e suddividerle sugli acquisti. Prima di fare il corso per essere un bravo barman bisogna sapere fare i conti».

Che consigli darebbe a chi vuole aprire un bar oggi?

«Di fare una attenta analisi della zona in cui pensa di aprire: valutare che tipo di realtà è, quanti bar ci sono nel raggio di 300 metri, che tipo di offerta fanno, capire cosa manca e costruire un locale che, sia negli arredi che nella proposta, prima non c’era, o comunque migliorativo. È inutile fare doppioni. Mi ripeto. Alla base ci deve essere sempre la preparazione. Nel momento in cui si sono acquisite le nozioni alla base della professione, si capisce qual è l’offerta più conveniente e remunerativa, a seconda della zona dove si apre e delle attività che ci sono».

Quali caratteristiche deve avere un locale per avere successo?

«Rimango dell’idea che il bar debba avare una proposta a 360 gradi, che si modifica in base all’orario. Deve mutarsi tre/quattro volte al giorno, io lo faccio e il cassetto mi dà ragione, ma siamo in pochi; la maggior parte dei locali è tematica e punta a un momento specifico della giornata».

BeltramiLa professionalità del personale a che livelli è?

«In questi ultimi anni grazie alle forme di contratto più leggere si assumono spesso universitari. È una buona cosa, ma dovrebbero essere adeguatamente preparati e questo non avviene perché molte volte chi è a capo del locale non passa le nozioni o lui stesso non le ha. Un altro aspetto è quello dello stipendio. Per avere un buon risultato il personale deve essere adeguatamente pagato: è un personale soddisfatto che lavora bene e ti aiuta a guadagnare. Non tutti lo capiscono».

Quali sono i problemi del settore in questo momento?

«Uno dei più grandi è che ultimamente si tende a rivolgersi ai fornitori per avere finanziamenti, ed è una follia. In Ascom c’è Fogalco che ha proprio lo scopo di assistere i commercianti nell’accesso al credito».

Cosa avviene, esattamente?

«Molti baristi se hanno bisogno di fare un acquisto lo fanno fare ai fornitori che poi si rivalgono sul prezzo. Capita per il caffè, ma non solo. Il torrefattore dà la macchina del caffè in comodato d’uso e poi vende il caffè a un prezzo maggiorato anche di 10 euro al chilo. Fino a un certo punto può essere conveniente, ma se si lavora tanto conviene acquistare la macchina. Il primo guadagno è comprare bene. Per questo come associazione stiamo studiando un questionario da sottoporre agli associati per capire come si approvvigionano. L’intento è di far riflettere su quali sono i canali di vendita migliori e così ottimizzare gli acquisti nei pubblici esercizi».

I buoni pasto elettronici stanno funzionando?

«Sembrerebbe che siamo in dirittura d’arrivo con i pos. In città, stanno arrivando clienti con le tesserine, in provincia si stenta ancora ma qualche azienda si sta muovendo. Auspichiamo che presto si trovi un accordo per utilizzare il pos che si ha già in uso, è impensabile che ogni società di buoni pasto metta il suo. Il nuovo sistema elettronico ci consentirà di risparmiare sulle spese di spedizione».

Cosa cercano oggi i clienti? Che significa per un bar offrire un’esperienza?

«Cercano un locale con un’idea di offerta chiara. Ci sono troppi locali che guardandoli non si capisce a che clienti sono rivolti. Invece, la tipologica del locale deve trasparire in modo evidente, sia dagli arredi che dal menù. Chi apre un bar deve sapere a che clientela puntare e farlo capire».

Come vede il 2016 per chi fa questa attività?

«Potrebbe essere un anno buono. Qualche leggero segnale positivo c’è, ho l’impressione che la clientela nostra bergamasca abbia una capacità di spesa leggermente migliore rispetto agli ultimi anni. Inoltre la nostra provincia ha la fortuna di trovarsi su delle direttrici molto importanti. Grazie all’aeroporto di Orio al Serio sul nostro territorio si muovono molte persone. Poi sta a noi fare offerte per stuzzicare il cliente».

Che valore ha oggi associarsi a una organizzazione come l’Ascom?

«Dialogando con l’associazione si trovano gli stimoli, le idee per andare avanti, si ha il polso di come sta evolvendo il mercato e, importantissimo, grazie alla scuola di Osio Sotto si acquisiscono la formazione e la preparazione per stare sul mercato. Chi non l’ha capito, ha capito poco. Mai come oggi visto, con la crisi,  il cliente valuta come spendere il denaro».

 


Ludopatie, entro il 3 novembre il corso per i gestori di locali con slot

Entro il 3 novembre i gestori di sale gioco e di locali dove sono presenti slot machine devono aver frequentato il corso di formazione obbligatorio previsto dalla Legge Regionale n. 8/2013, come azione di contrasto alla ludopatia. Chi ha invece avviato una nuova attività deve farlo entro sei mesi dall’apertura.

I tempi si fanno perciò stretti e per rispondere alle necessità di adeguamento l’Ascom di Bergamo riparte con i corsi specifici di 4 ore, organizzati nell’ambito di un protocollo di collaborazione firmato con l’Asl di Bergamo.

Il coinvolgimento degli esercenti è un tassello ritenuto fondamentale nel contrasto alle forme di gioco patologiche. Dopo una parte dedicata alla legislazione, il corso si occupa perciò di illustrare i dati sull’incidenza del fenomeno e le conseguenze sulla salute e la qualità della vita delle persone coinvolte oltre che i costi sociali. Il confine tra l’attività piacevole ed occasionale e la deriva patologica può infatti non essere così immediato, mentre conoscere i rischi e saper riconoscere alcuni “sintomi” (aumento della frequenza delle giocate e degli importi, speranza di recuperare le perdite, nervosismo, fino ai riti scaramantici e alla richiesta di denaro in prestito) migliora la consapevolezza e la capacità di prevenzione degli operatori. I corsi permettono quindi di informare i gestori sulle modalità in cui si manifesta la patologia e fornire loro strumenti per affrontare in maniera efficace il rapporto con i clienti a rischio ludopatia.

Proiettando le stime nazionali sul territorio bergamasco, la platea dei giocatori patologici va da un minimo di 5.400 ad un massimo di 23mila persone, mentre la fascia problematica dalle 13.800 alle 41mila. Si parla di stime perché il problema resta sommerso ed è bassa, anche se in forte crescita, la percentuale delle persone che si rivolge ai servizi specialistici (nel 2014  il Sert dell’Asl di Bergamo ha seguito 228 casi). Di qui l’importanza di mettere a conoscenza i giocatori anche delle possibilità di aiuto e cura.

«La formazione obbligatoria – evidenzia Andrea Comotti, responsabile della area Sistemi Gestionali dell’Ascom – è un primo passo verso una sensibilizzazione ancora più ampia dei gestori sul problema. Il Tavolo Provinciale per la Prevenzione del Gioco d’Azzardo Patologico ha infatti predisposto un codice etico per i locali, con una serie di buone prassi in grado di migliorare l’informazione e ridurre i rischi per i giocatori».

A Bergamo si può frequentare il corso nella sede Ascom di via Borgo Palazzo 154 mercoledì 30 settembre o mercoledì 21 ottobre dalle 14 alle 18, mentre lunedì 12 ottobre l’orario è dalle 19 alle 23. In provincia il corso è proposto a Zogno giovedì 8 ottobre, ad Albino giovedì 15 ottobre e a Treviglio mercoledì 28 ottobre dalle 14 alle 18. Sono previste ulteriori iniziative in collaborazione con i Comuni e gli ambiti territoriali, rendendo ancor più capillare l’azione. La normativa prevede un aggiornamento biennale.

Visto che la scadenza si avvicina ed è probabile che aumenti la richiesta di adeguamento, l’Associazione ricorda che i corsi possono essere tenuti solo da docenti appositamente formati e presenti nell’elenco regionale dedicato ed erogati da enti accreditati dalla Regione Lombardia. Corsi realizzati con modalità diverse non sono validi.

Per gli esercenti che non ottemperano alla formazione è prevista una sanzione da 1.000 a 5.000 euro. Per essere ammesso al corso, il gestore deve avere compiuto i diciotto anni di età e per i commercianti stranieri è indispensabile una buona conoscenza della lingua italiana.

Per informazioni e iscrizioni contattare la segreteria organizzativa Ascom (tel. 035 4120325 – info@ascomqsa.it)


Birreria Belvedere, 50 anni e tante storie da raccontare

Bar birreria del belvedereLa Birreria Belvedere, aggrappata sul Colle di San Vigilio con la sua terrazza con vista mozzafiato, compie cinquant’anni.

Il panorama l’ha sempre reso uno dei localini più romantici e semplici della città, che ha visto nascere, crescere e diventare famiglia tanti amori, ma anche rompere fidanzamenti o assistere a qualche scenata o incontro furtivo. Continua ad essere uno dei locali preferiti per un aperitivo in terrazza, una merenda scaccia-caldo d’estate, una meta per i turisti più avventurosi che si spingono sul Colle, o una sosta d’obbligo per chi si è guadagnato in bici o a piedi la salita.

C’è anche chi si ferma per ore a leggere un buon libro. Eppure il locale a cui tutta la città e i bergamaschi sono affezionati probabilmente non avrebbe nemmeno aperto se non fosse stato per la caparbietà di Enea Giudici. «Dal 1961 al 1965 condusse una vera e propria battaglia con il Comune – evidenzia  la figlia Antonietta, che gestisce oggi  l’attività con il fratello Paolo -. Ricordo ancora le ore trascorse nel corridoio degli uffici comunali a giocare con la bambola in attesa di papà: avevo poco più di tre anni e impiegate ed uscieri mi avevano ormai adottato. Poi, una volta avuta l’autorizzazione, iniziarono le polemiche sul giornale: nessuno vedeva l’utilità di aprire un locale a San Vigilio. E mio padre non esitò a rispondere con una lettera».

A quel posto la famiglia Giudici era troppo affezionata per mollare la presa: «Abitavamo in Colle Aperto- racconta Antonietta Giudici- . Avevamo una salumeria a fianco de La Marianna: l’avevano aperta nonna Antonietta e papà e mia mamma Luisa dava un prezioso contributo nella gestione. Nel tempo libero, mamma e papà ci portavano sempre a San Vigilio per una passeggiata panoramica fino al Belvedere. E qui mio padre ebbe l’intuizione di aprire un locale dove ci si potesse rifocillare e fare una sosta».

La storia del locale inizia esattamente mezzo secolo fa, quando apre i battenti il 9 luglio 1965. Il locale diventa presto punto di riferimento per intere generazioni e la proprietà ha voluto che rimanesse sempre e solo uguale a se stesso: «Solo qualche intervento necessario e qualche piccolo ammodernamento, ma il locale non si può dire sia cambiato molto. Ci siamo tutti affezionati, così».

Il tempo qui si ferma e le tradizioni restano intatte, come quella dello “spirito in gabbietta”: «Mio padre fece realizzare una ventina di ceste di vimini per bottiglie di liquore. Ogni cliente che avesse acquistato una bottiglia, dal whiskey importante al semplice amaro, poteva avere a disposizione una “gabbietta” dedicata, sigillata con un lucchetto o qualsiasi altro segno distintivo. Ogni volta che tornava al Belvedere poteva chiedere la sua bottiglia, senza alcun prezzo aggiuntivo per il servizio. Negli anni Settanta non riuscivamo a gestire le richieste: tutti facevano a gara ad accaparrarsi una gabbietta, chi perché acquistava la bottiglia il giorno dello stipendio, chi per sfizio».

Ne capitavano anche delle belle: «Ricordo che due ragazzi, molto amici, acquistarono una bottiglia in società. Solo che uno continuava a venire a bere, l’altro venne una sera con una ragazza, probabilmente al primo appuntamento e senza una lira in tasca, e quando chiese la sua bottiglia scoprì che il suo amico se l’era scolata a sue spese. Per risolvere l’imbarazzo gli portammo lo stesso un’altra bottiglia, a credito».

Il locale, ancorato alle radici, propone ancora oggi, nonostante lo spazio interno ristretto, solo 20 metri quadri, una buona selezione di spiriti e distillati, oltre che di vino e birre: «I tempi sono cambiati: oggi i ragazzi  bevono dei grandi cocktail- continua Antonietta Giudici -. Ma fortunatamente c’è sempre chi si gode un buon bicchiere, un break di meditazione con vista. E, con i voli Ryanair, arriva anche qualche turista. Non sono molti a spingersi fino a San Vigilio, ma capita sempre più frequentemente di servire stranieri. E arrivano a gruppi, c’è il giorno dei francesi, quello degli inglesi, degli svedesi, degli spagnoli a seconda degli arrivi ad Orio».

L’anniversario è stato festeggiato con una serata speciale, con una carrellata di ricordi, fotografie e vecchi articoli, la torta celebrativa del mezzo secolo e naturalmente brindisi.


Cocktail e drink, è tempo di cucina liquida

blody mary più o menoNel mondo del bere mixato arriva una nuova tendenza che mischia le due arti portando tecniche, ingredienti e attrezzature dei ristoranti dietro il bancone dei bar. Si chiama “Cucina liquida”, arriva dagli Stati Uniti, spopola a Londra e Parigi, ed è la tendenza più trendy del momento.

Niente paura, non troveremo nel nostro bicchiere una porzione di risotto allo zafferano centrifugata: semplicemente, i cocktail vengono preparati secondo le tecniche di cucina e non quelle classiche da bar, e con prodotti destinati a un piatto e non a un bicchiere.

I cocktail tradizionali come i Martini e i frozen vengono reinventati in ricette nuove dove compaiono gelatine, spray, essenze, riduzioni, glasse, aromi e spezie. Il mixer e lo shaker fanno posto a piastre a induzione, pentole e omogeneizzatori. Il risultato sono proposte davvero insolite: Martini alle spezie, drink flambé, Margarita agli agrumi, Collins a base di centrifugati di verdura e frutta, cocktail con pomodori e persino con il cioccolato, il burro e la ricotta.

In Italia il precursore di questa nuova filosofia è Dario Comini, pluripremiato patron del Nottingham Forest di Milano, uno dei barman più quotati al mondo proprio per il suo estro innovativo. In “Mix and drink”, libro mastro della cucina liquida, spiega come ha adattato le tecniche della cucina molecolare alla stazione del bar, e realizzato nuovi cocktail con glasse, spume e gelatine, tutte realizzate in casa.

Gli accoliti di questa nuova filosofia sono ogni giorno di più: ciascuno ci “mette del suo” e dà vita a interpretazioni personali: c’è chi, come Comini, usa shaker e pentole per mixare marmellate, salse e puree e dar vita a sciroppi aromatizzati, riduzioni di liquori, infusi di distillati, spezie e puree; chi si rivolge agli amanti del bio con germogli e erbe da coltivazioni organiche; chi si ispira alle ricette della pasticceria e della cultura locale; e chi, addirittura, abbina liquori e vegetali in base a un’attenta analisi molecolare.

Il panorama spazia in tutta la Penisola: in Sicilia, a Castelvetrano, Gianluca Nardone all’Area 14 dà della Cucina liquida-Mixology l’interpretazione più golosa con i suoi “dessert drink” ispirati ai dolci tipici siciliani, il cannolo, la cassata siciliana e la cucchitedda. Gli ingredienti? Oltre a vodka e liquori vari, scaglie di cioccolato, ricotta di pecora, cubetti di latte, cannella e infusione di canditi.

A Brescia, Stefano Sabatti al Box&co Officine dello Spirito estrae dal cilindro ricette sempre nuove e su Facebook i clienti si propongono in massa per fare da cavie, mentre a Bergamo Fiorenzo Colombo, barman formatore, ha inserito la Mixology nelle sue materie di studio.

Milano, come sempre, è ancora più all’avanguardia: al Carlo e Camilla in Segheria (il locale di Cracco), Filippo Sisti alza il livello della sperimentazione con il Foodpairing, ovvero la creazione di cocktail a partire da un ingrediente a cui vengono abbinati, in base alla loro analisi molecolare, elementi del tutto insoliti. Qualche esempio? Il Blue Cheese Martini, una rivisitazione del classico Dry Martini, preparato con formaggio erborinato, vermouth, gin e un macerato di salvia e olive; lo Smoke Lavander, con noci pestate, burro caldo e whisky; e due versioni alternative del Bloody Mary, il Louisiana Soul (gin, carne salata, succo di pomodoro concentrato, pomodorini pachino, aglio, capperi, coriandolo, paprika affumicata e peperone), e il Celery Mary (centrifuga di sedano, cetriolo, pepe rosa, basilico, sale, erbe e pomodoro al naturale). La proposta più strana è però l’Easter-ismo, un drink servito nelle uova di struzzo.

Con la nuova tendenza si definisce una nuova figura professionale, il barchef, e nascono corsi che insegnano i segreti per diventarlo. Con una sorpresa inaspettata: la mixologymania sta catturando anche i bar dei piccoli paesi.

Nicola MorSpiega Nicola Mor, docente della scuola Cefos di Brescia: “Oggi, anche nel mondo del bere si tende a stancarsi presto e a cercare continue novità e nuovi gusti. Si beve e si mangia più per curiosità che per bisogno. I clienti vanno a Parigi, a Londra, assaggiano questi nuovi cocktail e quando tornano li chiedono ai loro baristi. Complici la crisi economica e i controlli alcolemici tendono a rimanere nel bar di paese, e così anche molti baristi di locali in provincia si stanno avvicinando a questa nuovo modo di lavorare”.

“Rispetto agli anni bui 80-90 quando il barman era lo studente universitario che lavorava per pagarsi gli studi – prosegue Mor – oggi c’è una riscoperta di questo mestiere, si cerca di essere sempre più preparati dal punto di vista tecnico e di creare nuovi sapori. Il nome di barchef è nato per differenziarsi, per far capire che si sta facendo qualcosa di diverso e nuovo. Dietro la tendenza della cucila liquida c’è il desiderio di preparare tutto da sé, di dare un’impronta personale al proprio lavoro”.

“Fare Mixology – chiarisce – significa lavorare con maggiore attenzione e ricerca, puntare sulla qualità delle materie prime utilizzate nella miscelazione. A partire dal bicchiere, dalla qualità del ghiaccio e degli altri ingredienti. Ad esempio, invece di usare il sale tradizionale sul bicchiere del Margarita si impiega il sale dell’Himalaya o il sale aromatizzato al pistacchio e i drink vengono accompagnati da gelatine o Lime essiccato, secondo la moda più in voga in questo momento all’estero. Il concetto chiave che sottende questa nuova filosofia è la possibilità di preparare le basi necessarie per i cocktail, e questo implica che si apprendano tecniche di erboristeria e di cucina”.

Potrebbe essere una tendenza temporanea (ma Mor è pronto a scommettere il contrario); una cosa è certa, si aprono nuove frontiere per il mondo dei bar, la via alla sperimentazione è aperta e i risultati sembrano piacere.


Espresso, gli errori più frequenti dei baristi

Bere un buon caffè, come segnalato da diversi lettori di Affari di Gola, ha ormai quasi il sapore dell’impresa. Dietro al servizio della tazzina italiana dal gusto e dall’aroma che non trova ancora eguali al mondo, c’è un lungo lavoro di filiera che parte dalle piantagioni e, passando dalla tostatura e torrefazione, arriva in chicchi selezionati sul mercato e poi nei locali. Ma qualcosa in uno di questi passaggi, dalla torrefazione al servizio nei pubblici esercizi, deve pur andare storto se l’espresso non è spesso all’altezza delle aspettative.

Luigi OdelloLuigi Odello, docente di Analisi Sensoriale presso università italiane e straniere, presidente dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè (oltre che  segretario generale dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano e dell’International Academy of Sensory Analysis) ci aiuta a mettere in luce difetti ed errori nella filiera del caffè.

Professore, il problema della qualità del caffè sta alla radice, nelle piantagioni?

«L’Arabica vuole il freddo (anche se non troppo) e il cambiamento climatico vorrebbe che la coltivazione salisse di quota, ma questo non è possibile. Così, per evitare l’azione nefasta dei patogeni che distruggono le piantagioni si fa ricorso a ibridi resistenti. In effetti, in tempi non lunghi potremmo trovarci ad avere caffè molto diversi dagli attuali con cambio di personalità sensoriale delle miscele alle quali siamo abituati. Non solo, ma nuovi ibridi brasiliani, in questo caso di Robusta, potrebbero essere coltivati in Amazzonia. Il caffè troverebbe quindi nuovi territori di enorme estensione nel paese più progredito in fatto di meccanizzazione. Oltretutto il caffè cresce all’ombra di altre piante e questo consentirebbe di evitare disboscamenti. Se questo è ottimo per il pianeta lo potrebbe essere un po’ meno per la qualità dell’Espresso Italiano, la preparazione che più di ogni altra al mondo necessita di una materia prima eccellente».

Quanto incide la torrefazione sul gusto? Quanto la mano del barista?

«La qualità sensoriale è determinata dal valore di tutti gli step di filiera ed è sufficiente che uno di essi sia pari a zero perché il risultato finale sia nullo. La torrefazione ha indubbiamente il suo peso. Oggi ci troviamo di fronte a tendenze estreme che tendono, per motivi diversi, a tostare velocemente. È come cogliere un frutto acerbo: se non abbiamo la fornitura della giusta quantità di energia in un determinato tempo otteniamo miscele che originano espresso deformi in cui gli aromi non sono sviluppati e l’acidità è elevata. Caffè che possono avere un senso per filtro e altre preparazioni, ma non per la tazzina nazionale. Ovviamente il barista deve fare la sua parte: più una miscela è elegante, complessa ed evoluta e più difficile è il suo trattamento in macchina».

Come si riconosce un buon caffè?

«Non serve essere esperti per riconoscere odori di muffa, medicinale, bruciato, fumo, e simili…  La qualità inizia dall’assenza dei difetti. Quando vi servono una tazzina di caffè non lasciatevi ingannare dalla vista: avvicinate la tazzina al naso e abbandonatevi alle sensazioni che vi procura. Cogliete sentori di fiori, frutta fresca, frutta secca ed essiccata, cacao e vaniglia, pepe e qualche altra spezia, o almeno alcune di queste? Al gusto è equilibrato (non molto acido e non molto amaro), sciropposo e setoso, senza un briciolo di astringenza? Perfetto, ora affondate la vostra mente nel piacere e aprite pure gli occhi. La crema è color nocciola con riflessi fulvi di trama finissima? Ci avrei scommesso».

Quali sono le regole per prepararlo al meglio?

«Per l’Espresso Italiano il barista è guidato da una formula inderogabile: 25 millilitri in 25 secondi usando 7 grammi di caffè per tazza. Quando la soddisfa ha buone possibilità di dare al cliente il caffè che desidera, sempre che abbia operato con attrezzature pulite e abbia scelto una buona miscela. Questa regola sembra una sciocchezza, ma se metteste alla prova il vostro barista come facciamo alla competizione “Espresso Italiano Champion” con un macinadosatore starato (che quindi fa granellini troppo piccoli o troppo grandi) vi rendereste conto che non è poi così facile. L’Espresso Italiano necessita sempre di un professionista per la sua preparazione».

Quali sono gli errori più frequenti che fanno i baristi?

«Ne commettono una quindicina almeno: scarsa pulizia delle attrezzature, mancanza di controllo della temperatura della macchina e del tempo di estrazione, pressatura del caffè nel filtro insufficiente, particelle di caffè sul bordo del filtro, abbandono dell’espresso sulla macchina per fare altre cose, servizio maldestro….  Il peggiore errore negli ultimi tempi  riguarda la scelta della miscela. Spesso il barista non giudica il caffè in base alle sue caratteristiche sensoriali, ma per la facilità di ottenere un risultato che soddisfi la vista, dalla crema alla struttura. Ecco perché invitiamo tutti a non guardare la tazzina quando ci viene servita. E tantomeno a valutare il tempo che impiega lo zucchero ad affondare: una delle peggiori indicazioni che sia mai stata data per confondere il consumatore».

Qual è il futuro dell’espresso italiano?

«Nei giorni scorsi è stato rinnovato il consiglio dell’Istituto Nazionale Espresso Italiano che certamente rappresenta l’organismo più operoso, determinato e coeso nella promozione e nella tutela della tazzina made in Italy. Il progetto di quest’anno ha come claim “Nel mondo, a fianco del barista”. Questo significa che si continuerà con la consueta fermezza a valutare la qualità delle attrezzature e delle miscele e ad abilitare baristi, per i quali sono previsti due concorsi: l’Espresso Italiano Champion e il Best Coffee Taster (il migliore assaggiatore). Ma parallelamente verrà aperta una finestra sui paesi produttori alla ricerca di caffè di alta qualità, una porta verso l’internazionalizzazione trasferendo la nostra cultura e un bacino di innovazione che non riguarderà solo la tecnologia, ma anche nuovi strumenti di marketing».

Siamo arrivati al paradosso di dover imparare dall’estero a servire un caffè perfetto?

«Direi proprio di no. Almeno per quanto riguarda l’Espresso Italiano che, quando fatto bene, vince. Alcune statistiche affermano che il canale dei caffè speciali rappresenta l’11% del mercato: l’Espresso Italiano si colloca in questo segmento. Sta a noi mantenerlo nella sua veste tradizionale che racchiude il perfezionamento di oltre un secolo prodotto da costruttori di attrezzature (macchine e macinadosatori) e di torrefattori che hanno saputo creare miscele in grado di sopportare forti rapporti tra polvere a acqua (7 grammi su 25 millilitri, contro 5 grammi su 100 o su 200 millilitri) e forti pressioni (9 bar) a temperature contenute».

 


Commercio cinese, «è vero che c’è il boom ma la crisi colpisce anche noi»

Non conosce sosta l’espansione del commercio cinese in Bergamasca, che non solo vede aumentare il numero di imprese, ma anche modificarsi settore di attività, dimensioni e organizzazione aziendale. E pensare che 15 anni fa (un tempo in fondo non così lontano) le insegne si contavano sulle dita di una mano. Secondo i dati elaborati dall’Ascom, erano infatti cinque le iscrizioni di imprese con titolare cinese attive nel registro della Camera di Commercio, mentre a fine 2014 il saldo è arrivato a quota 288, con un incremento di 84 unità rispetto al 2013, pari ad un sostanzioso 41,2%. Il balzo più ampio è stato per i negozi non alimentari, passati nel giro di un anno da 67 a 119 (+77,6%), seguiti dai ristoranti (da 27 a 39, +44,4%). Meno ampio in percentuale l’incremento dei bar (da 103 a 121, +17,5%), mentre non si è mosso il livello dei negozi alimentari (5). Ancora marginale il peso dell’imprenditoria con gli occhi a mandorla nei tabaccai, che però sta salendo: nell’ultimo anno le gestioni sono raddoppiate, passando da 2 a 4. Nella sola Bergamo è ancor più accentuata la dinamica dei negozi non alimentari, quasi raddoppiati in un anno (da 15 a 29, +93,3%), mentre il dato complessivo che riguarda bar e ristoranti registra 7 attività in più (da 25 a 32, +28%).

Attività in calo nelle Valli

I segni della crisi dei consumi si possono semmai cogliere nella distribuzione geografica. Le uniche due aree in cui c’è stato un calo di imprese nel 2014 sono la Valle Brembana (-22%, con attività scese da 9 a 7) e la Val Seriana (-10%, il totale è passato da 20 a 18), zone in cui le difficoltà del manifatturiero si sono fatte sentire con più intensità. Sono cresciute invece tutte le altre, con un autentico exploit della Bassa (40 imprese in più che portano il totale a 86, +87%) e, pur se su valori assoluti più bassi, della Valle Cavallina (da 10 a 18 imprese in un anno pari all’80% in più). Seguono la Val Calepio (+50%), la città (+46,7%), l’Isola (+35%) e l’hinterland (+16,3%).

Cambiano settori e dimensioni aziendali

Un’analisi a più ampio raggio e di tipo qualitativo, evidenzia anche come il commercio cinese abbia man mano cambiato pelle. «In provincia di Bergamo ha conosciuto tre fasi – sintetizza il vicedirettore dell’Ascom Oscar Fusini -. Fino al 2000 era presente solo nella ristorazione, con offerta esclusiva di cucina cinese. C’è stata poi un’espansione nei mercati ambulanti nel settore non alimentare seguita, tra il 2005 e il 2010, dalla crescita dei negozi, in particolare di abbigliamento, accessori e articoli per la casa. La fase attuale vede uno sviluppo esponenziale dei negozi e una crescita regolare di bar ristoranti e sale gioco». Settore quest’ultimo che è andato al di là della proposta etnica, che pure rimane. «Si tratta di gestori ben integrati – rileva -, con una buona conoscenza dell’italiano. La vocazione prevalente è per il servizio di vicinato e la ristorazione tradizionale o etnica, meno evidente la propensione per i locali serali o la ristorazione creativa. In genere i nuovi ingressi tendono a mantenere le caratteristiche e l’impostazione dei locali che rilevano e non mancano società miste, formate da imprenditori cinesi e italiani».

Per quanto riguarda i negozi, «la maggioranza riguarda l’abbigliamento – spiega Fusini -. Sono in crescita i punti vendita di casalinghi e le aperture di bazar ed empori dove è possibile trovare di tutto, le cosiddette cineserie. Limitata è invece la presenza nella pelletteria e scarpe, mentre il settore emergente è quello dei tabaccai, con numeri per ora contenuti, ma in crescita». Tra gli aspetti più degni di nota, il fenomeno abbigliamento, in netta controtendenza rispetto all’andamento generale, dove prevalgono le chiusure sulle aperture, e il fatto che ora la stessa impresa dà vita a più punti vendita. «L’incremento di negozi cinesi – ricorda Fuisini – è sempre stato legato all’apertura di piccole attività indipendenti o di punti vendita di grandi dimensioni, ora invece alcune imprese cinesi stanno aprendo in più sedi». A caratterizzare tutte le attività «c’è l’attestarsi su prezzi contenuti, che rappresenta per molte persone una risposta alla crisi, ma anche l’ampiezza dell’apertura, 7 giorni su7 e con orari estesi e un percepito spirito di servizio da parte della clientela».

Le testimonianze

Luigi - bar 24 rid   Anica Chirilla - cliente bar 24 rid

Risponde al compito del servizio di vicinato il bar “24”, al numero 24, appunto, di via Mazzini, in città. Ambiente luminoso, tocchi di design e dietro al bancone Luigi, il nome che il titolare Haijie, 25 anni, si è scelto, in assonanza, per facilitare la vita ai clienti. Che sono prevalentemente abituali e scambiano sempre qualche battuta, mentre lui, dal canto suo, cerca di prendere nota delle preferenze di ognuno per non far mancare ogni mattina la brioche preferita o preparare “il solito”. In Italia dal 2008, proveniente da Wen Zhou, da due anni gestisce l’esercizio dopo aver affiancato la cugina a Ponteranica. «La crisi dei consumi si è fatta sentire anche nelle nostre attività – precisa -. In genere, comunque, nei paesi della provincia il lavoro va meglio mentre in città è più difficile. C’è più concorrenza e c’è sempre qualcuno che davanti ad una conduzione cinese cambia strada e cerca un’alternativa. Anche a me capita: persone che aprono la porta e appena vedono che sono cinese fanno marcia indietro. Lo accetto. Ciò che cerco di fare quando entra qualche nuovo cliente è chiedere come si è trovato, se va tutto bene e prendere nota dei suggerimenti». Un aspetto apprezzato da Anica Chirilla, cliente fissa. «Vengo da Solza – dice -. Accompagno mio marito che lavora alla clinica San Francesco e vengo qui apposta perché è un locale tranquillo, c’è una bella atmosfera e Luigi ti mette a proprio agio. Non è invadente ma al tempo stesso attento, i prodotti sono di qualità ed i prezzi concorrenziali». Ciò nonostante Luigi vuole vendere: «Il fatto è che sono solo ed è perciò difficile ampliare la proposta». Ad esempio introducendo gli aperitivi per vivacizzare anche l’offerta serale, come vorrebbe un’altra cliente.


Slot machine, le buone regole per gli esercenti

vetrofania codice etico slot machineBastano anche piccoli accorgimenti per disincentivare o, se non altro, rendere meno travolgente il gioco d’azzardo. Le ha messe in fila il Tavolo Provinciale per la Prevenzione del Gioco d’Azzardo Patologico, in un Codice etico che viene proposto agli esercenti.

Il gestore che aderisce al codice, oltre a osservare in modo rigoroso la legge che vieta il gioco d’azzardo ai minorenni, si impegna a:

1.      non prestare denaro ai giocatori;

2.      adottare strategie per favorire il controllo del tempo (per es. apponendo orologi ben visibili se possibile orologi a timing sonoro);

3.      rendere effettivamente fruibili i giochi di intrattenimento alternativi, previsti dal comma 7art. 10 del TULP (per es. freccette, biliardino, tavoli da stecca);

4.      laddove possibile, a differenziare/isolare lo spazio slot machine dal resto del locale con elementi di separazione ambientale;

5.      sensibilizzare chi intende giocare con minori al seguito apponendo cartellonistica di divieto d’accesso ai minori agli spazi slot;

6.      disincentivare il consumo di alcolici nello spazio slot:

  • sensibilizzando i giocatori a non consumare alcolici durante il gioco,
  • somministrando alcolici esclusivamente al banco e al tavolo,
  • non somministrando/vendendo alcolici a chi sta giocando,
  • non predispondendo supporti per bicchieri in prossimità delle slot machine;

7.      non collocare le slot machine in aree fumatori;

8.      esporre in modo visibile le reali percentuali di vincita delle slot;

9.      esporre in modo visibile i materiali informativi messi a disposizione dall’ASL;

10.  collaborare a momenti di sensibilizzazione e prevenzione al Gioco Patologico;

11.  esporre in modo visibile il Codice Etico.