Stagisti: raccomandare va bene, a patto che…

Berlin Mitte Is Home To Germany's LobbyistsDopo le vacanze di Pasqua entreremo improvvisamente nell’ultimo trimestre scolastico. Per gli studenti universitari significa soprattutto trovare uno stage estivo nel settore di interesse o dove poter raccogliere informazioni utili per stendere la tesi. Nei miei dieci anni di lavoro ho conosciuto molti intern – come li chiamano nel mondo anglosassone – che hanno trascorso con me e il mio team un po’ di tempo, da un paio di settimane fino a sei mesi. Cosa avevano in comune? Avevano tutti le giuste connessioni. Fortunatamente la maggior parte di loro aveva anche un ottimo titolo di studio, tanta energia e altrettanta dimestichezza con le tecnologie, mescolate a sicurezza in loro stessi. Il dibattito sul fatto se sia giusto o no aiutare chi si conosce – in certi casi i propri familiari – è un argomento sempre attuale. Se potessimo aiutare chi conosciamo e che reputiamo meritevole, non lo faremmo tutti? Io l’ho fatto, per una legge non scritta in cui credo: aiuta e verrai aiutato. L’ho fatto indiscriminatamente? No. Quando ho passato contatti utili, mi sono sempre assicurata che il beneficiario avesse le qualità giuste: un buon titolo di studio, capacità interpersonali, entusiasmo e desiderio di imparare.

Mi è inoltre capitato di lavorare con i cosiddetti raccomandati, figli di investitori, clienti importanti o personaggi influenti, come ad implicare che il servizio al cliente passa anche dall’offrire un paio di mesi di esperienza ai loro eredi. E quando ci si trova in queste situazioni, ad amministrare il tempo e le mansioni di questi stagisti, bisogna sempre muoversi con molta cautela. In un mondo dove il passaparola può determinare molte opportunità lavorative, le connessioni giuste possono fare, o disfare, una carriera. Le storie di “figli di” sono tante, specialmente quando si parla di dinastie imprenditoriali: da Santander, dominata dalla famiglia Botin, a Sky, dove Murdoch senior e i figli si spartiscono le responsabilità direzionali, sono solo i primi esempi che mi vengono in mente.

Reclutare tra chi si conosce, sia famiglia o compagni di scuola o di chiesa, garantisce che le responsabilità ricadano sulle persone migliori? La risposta ovvia è: non sempre. La verità è che il mondo lavorativo anglosassone garantisce spesso un biglietto di ingresso ai privilegiati, ma con una data di scadenza. Una volta entrati, si deve dimostrare il proprio valore per poter restare. Alcune grandi aziende, per proteggersi dall’accusa di nepotismo e favoritismi, hanno adottato delle politiche di reclutamento del personale molto rigorose: chi assume non può vedere il nome completo e la scuola frequentata dal candidato, per non fare discriminazioni di nessun tipo, aprendo la strada al multiculturalismo. Tuttavia questi criteri non sono a prova di bomba.

Esistono poi altri tipi di raccomandazioni, chiamate invece referral: chi si candida per una posizione e compila la propria candidatura on line, è invitato a menzionare il nome di chi si conosce in quell’azienda. In caso di assunzione, il contatto di riferimento si vede riconosciuto un gettone, un bonus che molto spesso vale dai 2 ai 5 mila Pound, soldi che l’azienda avrebbe invece pagato ai cacciatori di teste o alle agenzie di trova lavoro.

Il colosso della consulenza E&Y ha stimato che – su 14mila persone all’anno che si candidano per lavorare per loro – solo l’1 per cento ha un contatto interno, insomma una percentuale del tutto trascurabile.

 

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