Se anche l’abbigliamento “maschera” la falsa austerità

Si è conclusa di recente la prima London Fashion Week del 2016. Se dovessi scegliere una parola per riassumere quello che ho visto, sceglierei frugale. Ho visto scendere dalle auto sponsorizzate e lucidate donne e uomini vestiti come se fossero dei senzatetto. In questo periodo dell’anno tutto è enfatizzato, ma non serve essere parte di questa selettiva tribù per abbracciare questo stile. Basta camminare su una strada qualunque, da Castione a Barletta, e accorgersi che jeans strappati con buchi enormi in zona ginocchia, orli sbrindellati, magliette con il buco, giacche con le toppe attaccate, sono la norma.  In Giappone vendono jeans che sono prima stati dati in pasto alle tigri, e poi rivenduti a caro prezzo. No, non si tratta di uno scherzo. Adidas vende scarpe con delle finte macchie di fango, Diesel propone jeans spuzzati di vernice e pittura, come se fossero stati usati per tinteggiare casa. Chi ha un budget limitato può trovare nella rete istruzioni dettagliate e suggerimenti per invecchiare, sgualcire, e direi rovinare, un paio di pantaloni nuovi e perfetti, usando lamette da barba, carta vetrata e candeggina.
Lo stile “usato e martoriato” non si ferma agli abiti. Ho perso il conto di quanti amici hanno in cucina una credenza strappata alla discarica e ritinteggiata, o le cassette della frutta del mercato smaltate e trasformate in porta oggetti. Nessuno sceglie il marmo per il bagno o i pavimenti. Si preferiscono le assi di legno vissute, i rubinetti di metallo opaco e i mattoni a vista, come se non ci si potesse permettere di rifinire i muri.

jeansPer la maggior parte della storia, abiti vecchi e consumati erano l’unica opzione, e chi si poteva permettere bei vestiti li indossava con orgoglio. Il fenomeno di apparire dimessi è relativamente recente e portatore di rottura e contestazione delle regole. Pensiamo al look libero e trasandato degli hippy, i tagli e le spille da balia dei punk, i grunge degli anni ’90. Il denominatore in comune è il momento storico in cui sono nati, segnato da pace e prosperità, in un’era che si può permettere il lusso di scegliere. Se per i nostri nonni abiti dimessi erano un segno di tempi di guerra, fame e ristrettezze, il look stressato e dimesso tanto di moda adesso può rappresentare diverse cose: lo stato d’inquietudine e afflizione nella quale si trova la nostra società, la risposta ad un contesto che ci bombarda di nuove tendenze ogni tre mesi, istigando una fame insaziabile al consumo, abiti prodotti a costo bassissimo, di altrettanto bassa qualità, spesso in condizioni di lavoro disumane. Se una maglietta costa quanto un gelato, il motivo lo sappiamo bene. Un altro motivo è invece la “sindrome di Maria Antonietta”, dove chi ha troppo di tutto, si diverte a travestirsi da povero solo per il gusto di apparire diverso e interessante, o perché ha già indossato velluti, pizzi e sete e desidera qualcosa di diverso. Basta pensare ai guru della Silicon Valley, tutti in felpa sgualcita e maglietta, cercano di apparire modesti quando hanno un conto in banca a sette zeri e l’aereo privato. Oppure non c’è nessun significato sociologico ma è solo e semplicemente moda.