Quell’Italia che ha voltato le spalle al “bene comune”

bene comuneSapete quelle inchieste demoscopiche, che ti fanno delle domandine da niente, del tipo: sei triste o felice, Dio esiste, cosa serve all’Inter per vincere la coppa dei campioni? Se ne facessero una chiedendo agli Italiani qual è il problema principale dell’Italia, un leghista esclamerebbe: gli immigrati! Il razzismo! Replicherebbe la pasionaria. E ognuno ne indicherebbe a casse: la mafia, i politici corrotti, la polizia assassina, le tasse, il fascismo, l’antifascismo, l’antiantifascismo. A seconda di orientamenti più o meno ideologici, del mestiere, del sesso, della religione e perfino del numero di scarpa, si sentirebbero risposte varie e variopinte. Io dico che il problema dell’Italia sono, semplicemente, gli Italiani: o, meglio, sarebbero gli Italiani se esistesse questa categoria fenomenologica. Perché gli Italiani, in realtà, non esistono: esiste, senza dubbio, l’Italiano, come archetipo, ma gli Italiani come popolo, lasciatemelo dire, non ci sono e, forse, non ci sono mai stati. L’archetipo è quello delle barzellette: ci sono un Italiano, un Tedesco e un Francese…

E’ un’idea astratta, un’immagine translucida che ci fa intravvedere una specie di beduino che, invece del burnus ancestrale, indossa un ‘vestito gessato sul blu’ e s’ingozza di pizza e di spaghetti. Al di là di un certo folklore da film americano degli anni ’50, di quelli in cui il gondoliere veneziano canticchia “Santa Lucia” mentre rema, noi, in quanto comunità, non esistiamo proprio. E questo, a mio parere, è il motivo di ogni nostra sfiga: tutti i nostri dolori, piccoli e grandi, ci riconducono a questo difetto originario. Perché, in una comunità, la gente ha delle direttrici comuni di pensiero: ha, per così dire, un concetto di fondo, che è, magari, un tantino egoista, ma che serve a difendersi, che è quello del bene comune. Noi questa parola, comune, non sappiamo nemmeno cosa sia: per noi, il mondo si divide in due sole categorie che corrispondono a ciò che è mio e a ciò che non è mio. Ciò che è mio è il mio minimo ‘particulare’: la mia villetta d’angolo, ingresso indipendente, tavernetta e doppio box. E’ tutto ciò per cui vale la pena di ottenere vantaggi, raccomandazioni, spintarelle e scorciatoie. Ciò che non è mio, ossia tutto il resto, esula da ogni mio interesse: è pubblico, per cui, in quest’ottica distorta, non è di nessuno, è res nullius. Perciò non mi importa di buttare una cartaccia in terra: la terra non è di nessuno, visto che non è mia. Per questo sporco i muri dei gabinetti, rompo le cabine telefoniche, parcheggio come mi pare: perché è tutta roba non mia, ossia di nessuno. Se dovessi dirla in maniera un po’ meno ciabattona, dovrei scrivere che lo Stato, da noi non esiste, perché ne mancano i presupposti fondamentali.

Il primo è di rappresentare l’unione dei cittadini, mentre in Italia lo Stato rappresenta qualcuno che cerca di rubarti il portafogli: non solo un estraneo, ma anche un estraneo da cui guardarsi. In secondo luogo, perché, dopo decenni di antitalianismo, di contropatriottismo, di deculturalizzazione, l’idea stessa di Stato appare come un rottame di un buio passato: la gente si identifica di più in una squadra di calcio, in un cantante, in una cartolina, che nella propria bandiera. Infine, perché non avere uno Stato, anche se, alla lunga, si paga, sulla breve distanza è più comodo: nessuna responsabilità, nessun dovere, nessun sacrificio. Un pubblico ufficiale, ad esempio, non si sente investito da una responsabilità individuale: per capirci, è l’esatto contrario del burocrate asburgico, che credeva di rappresentare fisicamente l’imperatore e, quindi, doveva esprimere decoro e rettitudine assoluti. Da noi, un funzionario dello Stato rappresenta il nulla cosmico: che gli frega del decoro e della rettitudine? Non vuole grane, non accetta di essere personalmente coinvolto: per quei pochi soldi che mi danno, deve pensare, chi me lo fa fare di assumermi questa responsabilità? E il dovere, quello proprio ce lo scordiamo: non supero la coda, perché non si deve, non frego sul resto perché non si deve, non sono un maleducato perchè non si deve: capite?

Perché non si deve: non perché è pericoloso né perché è poco redditizio. Semplicemente perché non si deve. Perché sono Italiano e gli Italiani non fanno certe cose: orgoglio, dignità, senso dello Stato. Kaputt: lo so bene, non statemelo a ricordare. Infine, il sacrificio: la parola, in sé, ha un senso ieratico. Fare qualcosa di sacro. Magari, semplicemente, fare delle cose normalissime, per uno scopo che sia sacro: per la tua famiglia e per quella famiglia più grande che è la tua Nazione, il tuo popolo. Parola abusata e, per questo, del tutto depotenziata. Oggi, se lo Stato ti domanda un sacrificio, t’immagini che i tuoi soldi finiscano in sprechi, privilegi, abbuffate. E il sacrificio equivale a un’asinata: chi me lo fa fare? L’Italia? Ma io sono cittadino del mondo: ascolto il rap, mangio street food e il mio inno nazionale è una canzone di Jovanotti. Il problema peggiore dell’Italia, dicevamo: no problem!