Quando Bergamo era terra di ulivi. Anche Petrarca se ne fece inviare uno

Immagine mostra: Roma in tavola nel MedioevoRiferiscono i biografi di Francesco Petrarca che nell’aprile del 1357 il poeta, indossate le inusuali vesti del giardiniere, trapiantò nel verziere della Basilica di Sant’Ambrogio un ulivo che si era fatto inviare dalla finitima Bergamo. Poco sorprende che l’audace tentativo di acclimatazione dell’arboscello alle brume milanesi non fosse coronato da fausto esito. L’umanista ritentò l’esperimento un paio d’anni più tardi, nel glaciale marzo del ’59, ma anche stavolta la pianticella rinsecchì nel volgere di qualche settimana. “Sono fermamente convinto che codesta terra sia ostile a quest’albero”  – concluse scorato il dafneo cantore, irriso dal rigoglioso verdeggiare dell’oleacea sui colli appena al di là dell’Adda.

La Milano dei cimenti botanici petrarcheschi non doveva differire molto da quella magnificata una dozzina di lustri prima nel De magnalibus Mediolani di Bonvesin de la Riva. Ad onor del vero il panegirico del Magister di Porta Ticinese andrebbe sfrondato da qualche iperbole di troppo, frutto della già all’epoca proverbiale inclinazione meneghina alla spacconeria. La megalopoli da duecentomila abitanti di cui scrive Bonvesin in realtà albergava, a prestar fede all’autorevole storico Jacques Le Goff, non più di ottantamila anime. Ed il cronista medievale l’aveva probabilmente sparata grossa anche nel computo di macellerie e forni del pane – enumerati in oltre quattrocento per ambo le categorie – se è vero che oggi ne bastano meno di un terzo per sfamare più di milione e trecentomila bocche. E’ comunque indiscutibile che proprio in quei decenni la roccaforte dei Visconti avesse imboccato una spedita ascesa verso la supremazia sul quadrante nord-occidentale della Penisola. “Terrestrium decus urbium” – l’aveva incoronata non senza calcolo politico il Petrarca, parafrasando fedelmente l’epifrasi bonvesiniana di “più splendida tra tutte le città del mondo”.

Nel corso della quasi decennale permanenza a Milano il poeta ebbe ricorrenti contatti con Bergamo ed il suo contado, freschi di assoggettamento alla serpe del blasone visconteo. Tra il 1357 ed il 1359 sono documentati almeno tre suoi soggiorni presso la rocca di Pagazzano, all’epoca circondata da secolari foreste che gli dovevano ricordare la silva ingens dell’Appennino parmense nei dintorni dell’amata Selvapiana. Durante l’ultima di queste villeggiature il cantore rese visita anche al capoluogo, su invito di un fervente ammiratore che vi risedeva. Le cronache narrano che al suo arrivo alle porte del centro abitato il Petrarca fosse accolto da una grande folla, tra cui spiccavano il governatore della provincia ed i podestà del comune. Per l’occasione fu anche imbandita una tavola degna di un re, ignorando forse che il frugalissimo ospite aborrisse i convivi troppo fastosi e le vivande elaborate.

Nonostante la benevola gaffe del nostri antenati, è comunque assai verosimile che la Bergamo di quei giorni non fosse affatto dispiaciuta al padre dell’umanesimo, antesignano tra gli estimatori del decoro urbano. Da ormai più di vent’anni le autorità municipali avevano infatti bandito dalla cerchia delle mura le torme di porci – al tempo abituali ospiti di ogni agglomerato – di cui il vate mal sopportava “la turpe vista e l’ingrato suono” (l’avanguardista Milano avrebbe adottato un analogo provvedimento solo due secoli più tardi). Con ampio anticipo su ogni altro comune Italiano di pari rango, nella nostra città era altresì elevato divieto di gettare lordure in strada dalle case e dalle logge, tutte le vie erano lastricate e le cloache fluivano ordinatamente nel sottosuolo.
Gli ulivi di cui il poeta aveva trapiantato i virgulti costituivano una nota tutt’altro che occasionale del paesaggio bergamasco dell’epoca. In particolare le alture tra Ponte San Pietro ed il capoluogo, secondo la descrizione che nel XII secolo ne forniva Mosé del Brolo, ne erano coperte  per estesi tratti, assai fitti tra Mozzo e Longuelo. Anche l’antica toponomastica di Città Alta comprendeva almeno un paio di riferimenti a poggi minori indicati come uliveto, segnatamente in Borgo Canale e nei pressi di Rosate. Per quanto a quei tempi tra i grassi alimentari primeggiasse incontrastato il lardo, l’imposizione ecclesiastica di un draconiano regime di magro per circa un terzo dell’anno assegnava un ruolo di rilievo anche agli oli vegetali. Tra questi quello di oliva si distingueva quale articolo di gran lusso, negoziato ad esorbitanti multipli di prezzo (sei volte tanto, secondo quanto rilevava qualche secolo più tardi Donato Calvi nell’Effemeride) dei più diffusi succedanei – l’olio di noci e quello di lino.
La diffusione della nobile pianta nel nostro circondario, consolidatasi nell’alto medioevo, si dimostrò ben altro che effimera. Ancora un secolo e mezzo fa il botanico Lorenzo Rota, nel suo Prospetto della flora della provincia di Bergamo, annotava che l’ulivo“percorre vigorosissimo la sponda bergamasca del Sebino, e s’avanza per ben quindici miglia verso Bergamo sulle colline di Gorlago e di Scanzo abbellendo di sua mansueta verdura la Valle Caleppio, e ricompare sull’amena costiera che sovrasta all’Adda tra Foppenico e Vercurago”. Ma proprio in quei decenni il diplomatico britannico John Bowring riferiva in una relazione sull’economia lombardo-veneta che sui nostri colli gli uliveti erano in via di espianto per essere rimpiazzati da più remunerative piantagioni di gelso, su impulso delle spietate leggi di mercato dettate dall’incipiente rivoluzione industriale. E rimorde davvero che ai nostri giorni solo pochi ettari di terreno restino ormai appannaggio della progenie dell’arboscello che, strappato ai feraci poggi di Bergamo, in spregio alle premure petrarchesche si lasciò morire di struggimento tra le fredde caligini dell’altera Milano.

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