L’Italia vuole dare lezioni a Bruxelles, ma senza avere fatto i compiti a casa

bruxelles-unione-europeaSiamo in tempi di manovra. L’Italia sta litigando con l’Europa per qualche decimale di Pil (Prodotto interno lordo) in più di flessibilità, che poi vorrebbe dire avere la possibilità di fare più debiti. Formalmente questo viene richiesto per buoni motivi, come il riconoscimento delle clausole eccezionali per spese legate ad eventi (ci si augura) straordinari, come il terremoto e i migranti. Però si può pensare che per una ragione o per l’altra tutti i Paesi possono trovare eccezionali buoni motivi per spendere più del consentito e sforare dal piano di rientro. Niente di male, in questo, se però un piano di rientro lo si ha. Se dalle percentuali si passa ai numeri assoluti – e sarebbe bene che i valori andassero sempre di pari passo – sembra di capire che l’Italia non ce l’abbia e la spending review sia un bell’esercizio di stile, passato ormai nel dimenticatoio. E va precisato che non si sta ancora chiedendo un rientro dal debito pubblico, cioè del cumulo dei deficit, ma “solo” della tendenza alla riduzione del disavanzo annuale, in modo che il debito pubblico, che ormai sfiora i 2.250 miliardi di euro, cresca almeno un po’ meno.

Gli unici dati attualmente completi sono quelli del 2015. E mostrano, secondo quanto comunicato dall’Istat, che la spesa per interessi passivi (ovvero l’onere al servizio del debito pubblico), è scesa l’anno scorso di 6,12 miliardi, passando da 74,33 miliardi a 68,21 miliardi, che rappresentano il 4,2% del Pil, la zavorra che altri Stati con minor debito del nostro non hanno. Sessantotto miliardi, per dare l’idea, sono quasi due volte e mezza la manovra appena varata. Il “risparmio” per minori interessi realizzato nel 2015 non è insignificante: vale lo 0,4% del Pil ed è stato “regalato” dall’appartenenza all’euro che ci consente di godere di tassi ben più bassi di quelli che avrebbe l’Italia da sola, con la vecchia lira. Il governo può metterci del suo, normalmente in peggio – come ci si ricorda per i problemi legati allo spread, che essenzialmente è il supplemento che si paga negli interessi per il rischio Paese – ma se non ci fosse l’Europa con le sue regole, la manovra avrebbe dovuto essere più alta  almeno di 6 miliardi, da recupere in qualche modo, probabilmente maggiori imposte. Negli anni, l’appartenenza all’euro si può ritenere ripagata solo con i minori interessi sul debito pubblico, anche se quello dei tassi bassi è un beneficio che probabilmente non è per sempre: verrà almeno parzialmente ridotto quando il costo del denaro si rialzerà, ma al momento è quello che permette all’Italia di presentarsi, seppure con un po’ di faccia tosta, a chiedere una deroga sulla rigidità dei conti.

Il deficit netto del 2015 dell’Italia, infatti, è stato pari al 2,6% del Pil: in valore assoluto si tratta di 42,93 miliardi, una cifra che è ben più bassa di quanto si paga in interessi sul debito pubblico. Se ipoteticamente non ci fossero il debito e i relativi interessi, l’anno scorso l’Italia si sarebbe trovata con 25 miliardi da spendere (praticamente l’importo della manovra) in investimenti o in quello che gli pare. Eppure nel 2015, rispetto all’anno precedente il deficit è calato di circa 5,5 miliardi. Questo è l’elemento che permette di dire che qualcosa è stato fatto per la riduzione, ma in realtà se non ci fosse stato il calo degli interessi sul debito per 6 miliardi, dovuto all’Europa più che all’Italia, il deficit non sarebbe sceso. E in ogni caso il saldo primario (ovvero il deficit al netto della spesa per interessi), che pure è rimasto positivo, si è ridimensionato, confermando che l’Italia non ha contratto la spesa, ma l’ha allargata, anche quando non c’era di mezzo il terremoto.

L’Italia che vuole dare lezioni a Bruxelles, quindi, si presenta all’esame senza avere fatto i compiti a casa che le erano stati richiesti e per i quali si era impegnata, se si guardano i valori assoluti. Il quadro è un po’ migliore quando si guarda il rapporto sul Pil che però permette margini di movimento più discrezionali rispetto ai valori assoluti. Il rapporto deficit/Pil è il risultato di una frazione e per farlo diminuire si può ridurre il numeratore (la spesa finanziata a disavanzo) oppure aumentare il denominatore (ovvero il prodotto interno lordo). Se si parla di decimali, come si sta parlando (che poi si trasformano in miliardi di euro), decisiva è la crescita economica. Alzare il Pil può far diminuire il rapporto, anche mantenendo invariata la spesa o il deficit. Ma se non si è capaci di ridurre la spesa, come si è dimostrato anche nel 2015, si può ambire al massimo a mantenere invariato il rapporto. Potrà anche essere pensar male, ma la speranza del governo di un Pil in crescita maggiore di quanto viene creduto possibile da tutti gli analisti non è solo espressione di stimolo ottimista, ma è la strada per riuscire ad avere di più da spendere senza dovere intervenire con la sempre spiacevole e impopolare spending review. Sempre che poi non servano per finanziare gli eventuali interessi in più richiesti al servizio del debito pubblico.