Lavoro e competenze / Quanto è difficile metter da parte il “tu” e il “ciao”

pensareQualcuno annovera la “buona educazione” tra le competenza trasversali, ovvero quelle caratteristiche dell’individuo ritenute essenziali in ambito lavorativo e funzionali a trasformare una conoscenza in comportamento. Qualcun altro considera la “buona educazione” una competenza sociale, cioè l’insieme di capacità psicologiche, relazionali e comunicative, legate all’adeguata comprensione ed utilizzo delle regole di interazione. In realtà poco importa quale sia la definizione più corretta, perché diventa (forse) più utile comprendere per quale motivo alcune regole della buona educazione, applicate da sempre in certi campi professionali, sono andate quasi del tutto perdute. Un esempio? Il famigerato “Lei”. Qualche giorno fa ho accompagnato un’amica da un concessionario per vedere un’automobile: era la prima volta che mettevamo piede in questo posto e una volta entrati, siamo stati accolti da un giovane venditore, che ha esordito con un simpatico “ciao, cosa posso fare per voi?” Francamente mi è venuto da ridere per almeno due motivi: se penso ad un discorso di età anagrafica, potevamo essere i suoi genitori, magari due genitori che avevano bruciato le tappe, ma sempre i suoi genitori. In seconda battuta in questo salone volutamente arredato con eleganza minimalista per creare un’atmosfera prestigiosa, tutto era permeato da un clima di serietà e compostezza e il “ciao” è sembrato la cosa più inappropriata del mondo. Sia chiaro, non è successo nulla di così grave, solo che ho avuto la certezza che il “Lei” sembra bandito da qualsiasi contesto. Di sicuro una volta era diverso: si dava del “Lei” alle persone anziane, ai professori, a chi non si conosceva; era una regola, una consuetudine italiana, come quella di mangiare “di magro” il venerdì o di trascorrere le feste comandate con tutti i parenti. Ma oggi le nuove regole fanno appello ad un tono confidenziale dove tutti sono uguali, informali, ”easy” e il “tu” sembra essere l’unico modo di rivolgersi agli estranei, alla gente che vediamo una volta e che poi non incontriamo più e senza accorgersi è divenuto normale che in negozio la commessa mi accolga con “ciao” anziché con “buon giorno” anche se i miei capelli sono brizzolati e ho superato i quarant’anni da un po’. Personalmente la formalità, soprattutto in alcuni contesti, continua a piacermi e l’educazione ancora di più; perché essere educati non è una forma stilistica propria del bon ton, ma significa soprattutto “saper leggere il contesto”, che è una precisa competenza comunicativa. Quando ero all’università ricordo la veemenza del professore di Psicologia Sociale e la sua insistenza sull’importanza e sul ruolo delle competenza comunicativa, ripetendo fino allo sfinimento come fosse la “capacità di ricavare un numero di informazioni attraverso l’ascolto di alcune parole e l’interpretazione del contesto in cui queste frasi vengono emesse”. Se uno dei due elementi viene a mancare, è impossibile parlare di competenza comunicativa; e non lo dico io, lo dice la sociologia del lavoro da tanti anni. Ecco, quello che forse si è perso, è la capacità di utilizzare un linguaggio appropriato al contesto, perché è il contesto a non essere più considerato e tutto è generalizzato e accomunato all’interno di una quotidianità che divora e fagocita tutto e tutti. Quindi sarò demodè, ma continuo a nutrire un religioso rispetto per le competenze di ognuno e per quelle che ci si aspetta dai vari ruoli professionali. In pochi lo sanno, ma essere “competenti” è il regalo più bello che si può fare a se stessi e agli altri; il “tu” e il “ciao”, lasciamolo agli amici, alla fidanzata o a quelle persone che ce l’hanno espressamente richiesto.