L’assessore Fava: «Ai giovani consiglio di tornare a lavorare la terra»

Sono giornate campali per un assessore regionale all’Agricoltura che si ritrova l’Expo in casa. Cassa di risonanza mondiale, ma anche attenzione dei media al minimo passo falso. Eppure Gianni Fava va avanti per la sua strada, convinto che la qualità del sistema agroalimentare lombardo alla fine sarà la vera carta vincente della kermesse. Mantovano di Viadana, cresciuto nella terra dei meloni più buoni del mondo, il leghista Fava ha da sempre assaporato la genuinità dei prodotti della campagna: recentemente quando Parmigiano e Grana accusarono il colpo della crisi, con i prezzi in calo e l’embargo russo che tagliò le gambe ai produttori, propose al ministro Martina di ritirare migliaia di forme dal mercato per destinarle agli «indigenti e alla fasce più deboli della società». Solidale, ma non romantico, sa che l’agricoltura moderna deve soprattutto poggiare su una sostenibilità economica, su processi innovativi che pure non rinneghino la tradizione di prodotti secolari.

Gianni Fava - assessore regionale agricolturaAssessore, cosa l’ha colpita dell’avvio di Expo?

«Il grande flusso di pubblico e l’interesse nei confronti dei diversi modelli produttivi del pianeta e le diverse culture, che raccontano i popoli e i loro territori. Le aspettative, anche da parte di Regione Lombardia, il cui padiglione è stato visitato con grande interesse, sono molto alte. Spero che l’intero semestre mi colpisca per i risultati raggiunti in termini di attenzione verso problematiche la cui risoluzione è imperativa, come la tutela dei prodotti tipici, la lotta agli sprechi alimentari, una maggiore sinergia in chiave internazionale che, declinata banalmente in chiave comunitaria, significa più Europa delle Regioni e maggiore conoscenza delle diverse agricolture. Se così fosse, sono sicuro che in futuro Bruxelles ci risparmierebbe alcune aberrazioni legislative e burocratiche che derivano, essenzialmente, dalla mancata conoscenza pratica del settore primario».

Perché i nostri prodotti lombardi dovrebbero spiccare all’attenzione dei visitatori nella miriade di offerta Expo?

«Per la loro unicità. Non sono riproducibili altrove, per quanto qualche esponente dell’industria si ostini ad affermare che alcune produzioni possono essere replicate in qualsiasi parte del mondo. I nostri prodotti raccontano storie, culture, modi di vivere a volte anche millenari. Expo sarà l’occasione per raccontare ai visitatori di tutto il mondo cosa produciamo, come lo facciamo, con quali vantaggi in termini di controllo sanitario e quindi di sicurezza. Dalle indagini emerge sempre con chiarezza che i consumatori apprezzano il made in Italy, vissuto come elemento distintivo di una qualità più elevata, ma allo stesso tempo richiedono informazioni ulteriori in termini di origine dei prodotti, coltivazione, modalità di allevamento, benessere animale, alimentazione. Su molti di questi aspetti siamo in grado di offrire risposte esaustive».

Bergamo è stata definita dal ministro Martina, città di punta per l’Expo: quali secondo lei le eccellenze migliori tra formaggi, vino, salumi e tipi di mais?

«È tutta questa grande varietà a caratterizzare quella che l’amico ministro Martina ha definito città di punta di Expo. Oggi va di moda il termine biodiversità. Bergamo può vantare numerosi prodotti tra Dop, Igp e Doc ed è una delle grandi province lombarde dell’agroalimentare, sia in termini di biodiversità, appunto, che di gusto. Da lombardo sono orgoglioso della grande ricchezza di Bergamo e della Lombardia. Mi piace ricordarlo spesso, perché per troppo tempo la nostra regione è stata identificata come terra di industria, giornali, moda e design. Siamo la prima regione agricola d’Italia e anche la prima a livello europeo in termini di agroalimentare, con una produzione lorda vendibile che nel 2013 ha raggiunto i 13,3 miliardi di euro e nel 2014 ha registrato un incremento dell’1,3%. Bergamo è una delle città di punta, certo».

Lei parlando di Dop, in particolare dei formaggi, ha detto che devono essere sostenibili e su certe produzioni troppo piccole ha parlato di romanticismi, di posizioni da rivedere…

«In passato ho sottolineato che ottenere e mantenere una Dop comporta degli oneri finanziari e che, in alcuni casi, vi è sì da un lato la tipicità, la storicità e la qualità richiesta per fregiarsi del marchio, ma mancano le dimensioni per poter varcare i confini della regione stessa di produzione. La stessa Unione Europea si è dimostrata scettica a concedere il marchio di qualità, quando poi l’esiguità delle produzioni rappresentavano un limite considerevole. Detto questo, credo che in questa nuova fase che si è aperta con la fine delle quote latte, produttori e consorzi debbano fare sintesi e muoversi con l’obiettivo di mantenere i prezzi alti e garantire redditività a tutti gli anelli della filiera. Ciascuno però, e mi ripeto, nel rispetto delle proprie competenze».

Questione latte, a che punto siamo? Ci sono stati attriti forti non solo sul prezzo: ma questa diatriba finirà mai? E come?

«Da un lato sono soddisfatto che i produttori, la cooperazione e i consorzi del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano abbiano accolto favorevolmente la proposta che ho lanciato sulla possibilità di legare il prezzo del latte a un sistema indicizzato che tenesse in considerazione la valorizzazione conseguente al circuito delle produzioni Dop. Allo stesso tempo, mi preoccupa l’atteggiamento dell’industria di trasformazione. Questa chiusura rischia di condannare a morte il made in Italy lattiero caseario, con conseguenze irreversibili per la chiusura delle stalle, l’abbandono del territorio e la perdita di un patrimonio anche culturale. Se è questo che l’industria desidera, proseguano sulla linea del non dialogo. Ma a farne le spese saranno anche loro».

Lei non nasconde mai di venire dalla campagna: il contadino di oggi sta meglio di quello di ieri? E un giovane, visti i sacrifici che si facevano un tempo in campagna, perché dovrebbe essere invogliato a lavorare in agricoltura?

«Il contadino di oggi sta meglio in termini di fatica del lavoro. Le nuove tecnologie hanno rappresentato un notevole passo in avanti, anche se l’agricoltura ha i propri ritmi e i propri cicli, che dipendono dalle stagioni. In termini di burocrazia e redditività, non sono così sicuro che l’imprenditore agricolo di oggi stia meglio di quello di 30 anni fa. Negli anni Ottanta circa l’80% del bilancio comunitario era destinato alla Politica agricola comune, oggi la percentuale è scesa al 38%, con una platea di 28 paesi destinatari».

Quindi un giovane, visti i miglioramenti dettati dalla tecnologia e qualche delusione maturata in fabbrica, dovrebbe essere invogliato a lavorare in agricoltura oggi?

«Assolutamente sì, perché lavorare in campagna è tra i mestieri più belli in assoluto, con una grande responsabilità verso la società. Si produce per sfamare gli uomini e gli animali, in un mondo sempre più popoloso e con esigenze crescenti di sicurezza alimentare e qualità. Inoltre, gli agricoltori sono sentinelle dell’ambiente e del territorio. Un dato esemplificativo: gli agricoltori sono solo il 2% della popolazione lombarda, ma gestiscono l’80% del territorio. Dove mancano si innalzano in maniera esponenziale i rischi di catastrofe idrogeologica. Nel Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020 ai giovani assicureremo le giuste opportunità per l’insediamento e la crescita, ma è necessario che il mondo agricolo ritrovi margini di reddito, altrimenti suggerire ai ragazzi di diventare agricoltori rischia di essere un messaggio vuoto».