I ministri, i titoli di studio e il pessimo esempio al Paese

montecitorio-jpgCarlo Emilio Gadda, che oltre ad essere scrittore immenso, fu, forse, il più clamoroso esempio di italiano perbene del XX secolo, postulò, in una sua celebre pagina, che i caporali di giornata potessero anche avere la quinta elementare, ma che i marescialli di campo dovessero possedere tutte le cartebolle in ordine. Insomma, che uno che possieda una cultura, diciamo così, un tantino risicata, sarebbe meglio che non si occupasse di massimi sistemi. Questo, evidentemente, non per la nauseante albagia da pezzo di carta, che talvolta affligge capifamiglia pieni di aspettative per la prole o burocrazie dementi, ma per un’ovvia ragione di ampiezza di vedute, di preparazione di base, di senso elementare della cultura. Oggi, vige un equivoco che rischia di travolgere ogni differenza di merito e di talento: l’idea sacrosanta che tutti, nei confronti dello studio, debbano vantare eguali diritti, si è trasformata nell’idea, viceversa demente, che tutti siamo uguali davanti a Minerva. Che il figlio del contadino debba avere le stesse possibilità del figlio del barone di diventare neurochirurgo è cosa giustissima e bellissima: che sia obbligatorio che il figlio del contadino valga quanto il figlio del barone, per inclinazione allo studio e volontà nel medesimo, è stupidaggine sesquipedale. E viceversa, intendiamoci: uno può essere figlio di un premio Nobel e dimostrarsi un idiota formidabile: come è ben dato a tutti di constatare.

Ciò detto, che uno venga dalla malga o dal palazzo, se deve rivestire incarichi di comando e di vertice, deve dimostrare capacità davvero fuori del comune o possedere, quantomeno, un curriculum eccellente. Invece, nel mondo ribaltato e surreale della politica, tutto questo pare non conti nulla: la politica, oggi, è un’occupazione per prescelti, per unti del Signore, non mai per persone serie, competenti, umili. Può capitare, quindi, che un luminare dell’urologia, con tre lauree e venticinque master, debba attenersi ai Diktat di una signora che ha nel cassetto uno striminzito diplomino liceale, e che non distingue una vescica da un cavatappi: con che spirito il luminare accetterà i dettami della diplomata e, soprattutto, con quale ampia e circostanziata visione dei problemi deciderà in materia di salute pubblica la suddetta, non è mestiere dire. Può, del pari, accadere che un signore che, per tutta la vita, si è occupato di cooperative, dall’alto del suo bel diploma di perito agrario, si metta a discettare di lavoro, a fare scelte determinanti per milioni di persone e, quel che è peggio, a proferire apoftegmi destituiti di senso comune su quei giovani laureati che, spinti dalla necessità di trovare un Paese meno ingrato verso i propri figli migliori, se ne vanno a cercare miglior fortuna (e migliori ministri) all’estero.

In altri luoghi e in altre epoche, una simile cialtroneria sarebbe stata rimeritata con decine di calci nell’ampio preterito del farneticante, fino a ricacciarlo tra i banchi, a studiarsi l’abbiccì. Qui da noi, invece, tutto tace, tutto si placa: e gli asini continuano a ragliare, dai loro scranni dorati. Dulcis in fundo, nel Paese delle banane, può accadere che, in un crescendo da comica finale, venga nominata al dicastero che sovrintende, appunto, all’educazione pubblica, ovvero alla formazione culturale, civile e professionale delle future generazioni, una signora che proviene dal sindacalismo tessile (che sarebbe come mettere una baby sitter a comandare un incrociatore) e che, in un primo tempo, risulti essere laureata, poi diplomata e, infine, dotata di attestato triennale di maestra d’asilo. Quindi, per la formazione culturale chiudiamo un occhio, per quella professionale chiudiamone due e per l’educazione alla legalità che è alla base dell’educazione civica dei giovani, dobbiamo ricorrere al buddhismo e chiuderne un terzo: detiene il ministero della Pubblica istruzione una signora che non solo non è laureata né diplomata (adducendo a giustificazione il fatto che, ai tempi del Carlo Codega, quel titolo di laurea non esisteva: oplà!), ma che, dopo aver millantato titoli, peraltro del tutto estranei alla bisogna, anziché domandare scusa e ritirarsi in qualche opificio a veder girare gli amati telai e a cantare “Sciur padrùn dali beli braghi bianchi”, ha proclamato orgogliosamente di essere pronta a qualunque sfida didattica, essendo fieramente sindacalista.

Ora, mi domando e vi domando, quale esempio possono trarre da un comportamento del genere i nostri studenti: quale lezione ne dovrebbe conseguire? Che studiare non serve a niente? Che il sindacato è la nuova università? Che raccontar balle è il modo migliore per far carriera? Che, se fai parte della conventicola giusta, nessuno ti può toccare? Ditemi voi, perché io, sinceramente, non ho più parole per valutare questa politica e questo governo. E, se Atene piange, Sparta singhiozza: nella stessa ridente cittadina della Bassa che ha dato i natali alla nostra sindacalista-maestra d’asilo-ministra, fa l’assessore alla cultura un altro signore, di tutt’altra parrocchia politica, che aveva fatto il preside per anni, dichiarando una laurea inesistente, accoppiando questa benemerita attività educativa al ruolo di sindaco. Tutta gente che avrebbe dovuto, perlomeno, declinare, abbozzare, andare a nascondersi e che, in virtù delle arcane e contorte leggi della politica, cavalca, comanda, legifera: ministri, assessori, senatori e marescialloni vari. Gadda, poveretto, dorme nel suo loculo a Prima Porta e, per sua fortuna, non deve vedere realizzati i suoi incubi peggiori. Noi, invece, sì, purtroppo.