Così, tra mille finte verità, ci ritroviamo nell’universo paralizzato

Il ministro dell'Interno, Angelino Alfano
Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano

Se lo chiedeva Pascoli, quando il suo Odisseo, pieno di dubbi e di stanchezza, giunse in vista dello scoglio delle sirene, immobili ed indifferenti al destino degli uomini. Se lo domandò Francesco Guccini, nell’enigmatico meriggio della sua ‘Bambina portoghese’. E mille altri con loro, se lo chiedono, ancora oggi, con sempre maggiore insistenza, con sempre minore speranza: qual è il vero Vero? In questo universo caotico di rumori ed immagini, come si fa a distinguere la verità tra le mille finte verità? Come spesso accade, l’ambizione positiva dell’uomo viene frustrata dall’esperienza delle cose: la gigantesca rete di comunicazione che è stata resa possibile dalla tecnologia non ci ha restituito più certezze, ma più dubbi. Al silenzio, come tecnica elusoria, si è semplicemente sostituito il concerto di mille frastuoni: ma l’esito è lo stesso, ingannare l’opinione pubblica. E, in questa colossale zona grigia, tra la realtà e la finzione, tra l’inganno e la verità, nuotano, apparentemente a bell’agio, malfattori ed imbroglioni, tutelati dagli scrupoli, del tutto comprensibili, di chi non vuole condannare senza sapere e non può sapere perché non c’è modo di distinguere l’accusa dalla calunnia. Se, ad esempio, fosse vero che il fratello del ministro Alfano abbia ottenuto incarichi ed assunzioni in virtù di poderose raccomandazioni e ad onta di una carriera universitaria imbarazzante e che la moglie del medesimo ministro sia stata scelta tra centinaia di avvocati, senza un criterio trasparente, per attività professionali legate alle istituzioni, non bisognerebbe chiedere le dimissioni di Alfano, ma chiederne la testa. Tout court.

Ma chi può sapere se le notizie che trapelano su queste spiacevoli anomalie siano autentiche o siano frutto di una campagna diffamatoria? Il garantismo vuole che sia meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Perciò, colpevole o innocente, Alfano continua ad imperversare con le sue banalità televisive: ma non si può condannare un uomo solo perché dice cose banali, neppure in circostanze serie come quelle che stiamo attraversando. Certo, io avrei scelto una persona meno inadeguata come ministro degli Interni, ma questa è una considerazione di altro genere, ed esula dal nostro discorso. Come quello di Alfano, si potrebbero fare infiniti esempi, tanto di colpevoli che evitano il “redde rationem” quanto di innocenti che subiscono autentici linciaggi, mediatici come giudiziari, salvo poi risultare estranei ad ogni addebito: e noi continuiamo a non capirci nulla, non riusciamo a distinguere il “vero Vero” gucciniano. Se la signora Kyenge, se il ministro Boschi, se la presidentessa della Camera Boldrini avessero detto veramente la metà delle criminali castronerie che vengono loro attribuite su internet, meriterebbero l’esilio coatto nelle isole Tuamotu: il punto è se le abbiano dette o meno. Alcune di queste affermazioni sono talmente demenziali che perfino il più accanito detrattore delle tre dame in oggetto durerebbe fatica a credere alla loro autenticità: altre somigliano di più al carattere delle tre, chiamiamole così, imputate, ma questo non basta affatto a darci la patente certezza della fonte.

Perfino le citazioni prette, una volta decontestualizzate e restituite come frammento, assumono significato affatto diverso da quello originario: a nulla si può credere serenamente. A nulla. Questo accade perfino involontariamente, coi titoli degli articoli sui giornali: a me capita con una certa frequenza di vedere delle mie bagattelle comparire sulla stampa con titoli ed occhielli del tutto fuorvianti. Così, quando mi arrivano commenti velenosi su questo o quell’articolo, capisco che il censore si è limitato a leggere il titolo, si è incazzato e ha reagito d’istinto: intendiamoci, io scrivo un mucchio di corbellerie che meritano altro che censure, ma, perlomeno, mi piacerebbe venissero lette, prima di essere stroncate. Invece, funziona così: il vero è sepolto da un mucchio di accessori, di applicazioni, che lo mutilano, lo camuffano, lo mimetizzano. E la fretta fa il resto: fretta di ingurgitare notizie, senza possedere i succhi gastrici del buon senso o della cultura. Ingurgitare, ingurgitare: internet ci impone questa bulimia mediatica. E, alla fine, non sappiamo più cosa abbiamo ingoiato: non sentiamo, per mantenere la metafora, più i sapori.

Rimane un grande “boh!”, un indistinto malessere politico e sociale, di cui percepiamo chiaramente il disagio, ma che non sappiamo circoscrivere o spiegare. Perché ci mancano i dati. Il fratello di Alfano sarà un manutengolo; la Boldrini sarà una sociopatica grave? La verità è che non lo sappiamo: non lo possiamo sapere. Perciò, o ci fidiamo ciecamente della nostra fonte, con un fideismo di matrice politica, ideologica, calcistica in definitiva, oppure ci asteniamo dal giudicare, costretti ad un ruolo pilatesco, per paura di sbagliare, di fare pipì fuori dal vaso, di venire querelati, magari. E non si fa mai pulizia delle nostra sporcizia, perchè non la si distingue più dalla pulizia: perché, se non c’è più modo di scegliere tra la merda e l’oro, o si corre il rischio di mettersi al collo un monile escrementizio o si rinuncia ad indossare gioielli. Ecco che, in una maniera del tutto inaspettata, ci troviamo a vivere nell’universo paralizzato di Montale, in cui, impossibilitati a conoscere una verità, non ci rimane che esprimere al negativo le nostre ambizioni di giustizia, di felicità, di onestà. Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, oggi possiamo dire. E, mentre noi ci ripieghiamo in noi stessi, definitivamente esuli dal nostro protagonismo civile e sociale, i maiali prosperano nel loro limbo limaccioso. Eppure, basterebbe così poco: un pochino di verità.