C’era una volta il mescündit

Tra le vivande bergamasche a serio rischio di estinzione, quelle che si annoverano con maggior struggimento sono senza dubbio le minestre montane a base di erbe silvestri. Da un lato viaröl, mescündit e zuppa dei prati di Parre configurano probabilmente l’unica cifra gastronomica certa del territorio di Bergamo (sulla matrice autoctona di altre cibarie tipiche si può disputare all’infinito), dall’altro il loro salvataggio rappresenta un caso quasi disperato, dato che la perizia necessaria ad assicurare l’approvvigionamento delle materie prime per la loro preparazione è ormai quasi del tutto estinta.

Se viaröl e mescündit dovevano evidenziare, almeno alle origini, una chiara caratterizzazione monovarietale (le voci in vernacolo indicano rispettivamente le essenze spontanee note come borsa di pastore e bistorta), la zuppa dei prati di Parre – detta anche zuppa delle venti erbe – possiede da sempre un chiaro afflato miscellaneo, che nel tempo si è trasmesso alle consorelle. E così tra i germogli utilizzati si annoverano anche quelli di acetosa, achillea, aglio orsino, barba di becco, licnide, menta, malva, nontiscordardimè, ortica, parietaria, primula, salvia dei prati, silene rigonfia e tiglio. Il modesto apporto nutrizionale degli erbaggi viene irrobustito con l’aggiunta ad ogni porzione di minestra di una fetta di polenta cosparsa di cacio di monte grattato, ed arricchendo il brodo con uova sbattute e burro. Il mescündit mostra altresì tratti di più rustica opulenza, prevedendo il concorso tra gli ingredienti di pasta di salame e costine di maiale.

Per quanto di inequivocabili radici montane, è attestato che almeno il viaröl fece breccia anche nella cucina del capoluogo. Il suo nome compare infatti in un elenco settecentesco di approvvigionamenti del collegio Mariano di Bergamo, lasciando intendere che venisse acquistato già pronto al consumo assieme alle uova da incorporare al momento del servizio. E quanto grato sarebbe ritrovarlo, in luogo magari del profluvio di polenta taragna che assai meno giova alla salute delle coronarie quanto alla preservazione della nostra identità gastronomica, anche nella lista delle vivande di qualche locanda.

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