Quella cucina di Bergamo tra pesce e cibi di magro

All’assiomatica ineluttabilità del “facta lex, inventa fraus” pare non riescano a sottrarsi neppure le sacrali direttive della Chiesa. Ne è impareggiabile attestazione il singolarmente ottemperante regime quaresimale cui nel tredicesimo secolo, secondo le cronache di Salimbene da Parma, si atteneva il Patriarca di Aquileia. Il mercoledì delle ceneri l’alto prelato usava celebrare l’avvio del percorso penitenziale facendosi imbandire un banchetto di ben quaranta portate – tutte rigorosamente di magro. L’ineffabile presule procedeva poi a depennare dal pantagruelico menù una vivanda al giorno, giungendo in tal modo a santificare la vigilia della Pasqua con una claustrale refezione consistente in un’unica pietanza.

Se lo spirito del precetto di continenza alimentare durante i tempi di espiazione risulta di inossidabile chiarezza, la lettera della regola ha invece subito profonde mutazioni nel corso del tempo. La dieta paleocristiana di magro rispondeva infatti a canoni che oggi sarebbero classificati come strettamente vegani, dato che da essa era bandito non solo ogni cibo di origine animale, ma addirittura il pesce. Il consumo di quest’ultimo – destinato a divenire indiscusso emblema della cucina quaresimale – fu consentito a partire dal VII secolo, mentre uova e latticini vennero sdoganati solo nel 1365 dal concilio di Angers. E non è troppo distante dal vero chi insinua che una delle chiavi di successo della riforma luterana fu rappresentata dalla soppressione dell’obbligo di astensione dalle carni, a quell’epoca vigente almeno per un terzo dell’anno, particolarmente inviso alle voraci popolazioni di ceppo germanico.

È dunque assodato che la suddivisione dell’anno religioso in tempi “di grasso” e “di magro” abbia dato origine a due distinti filoni alimentari, nettamente scissi per natura delle proteine e dei grassi utilizzati. Per quasi quindici secoli alla cucina della carne e del lardo si è così alternata una cucina ittica e dell’olio, con una cadenza puntualmente scandita dalle partizioni del calendario liturgico.
All’interno di questo sistema di riferimenti, desta stupore che, in una parcella di cristianità di stretta osservanza quale il distretto di Bergamo, la tradizione gastronomica locale assegni al pesce una collocazione tutto sommato marginale. Scorrendo l’esauriente ricettario bergamasco compilato da Silvia Tropea Montagnosi per le edizioni Bolis, si riscontra ad esempio che, delle 333 pietanze illustrate, soltanto una quindicina – tra le quali più d’una di evidente origine allogena – recano una chiara impronta ittica. La cucina di magro risulta semmai più compiutamente rappresentata nella gran copia di preparazioni di impianto distintamente vegetariano – dalle zuppe montane di erbe spontanee ai capù magher, da bardéle e foiade condite di soli burro e cacio alle innumerevoli declinazioni della polenta.

Eppure molteplici riscontri indicano con univocità che in più di una fase storica il pesce – e segnatamente quello d’acqua dolce – abbia rappresentato una risorsa tutt’altro che secondaria nel sistema alimentare dei nostri antenati. Già in età medioevale gli statuti della nostra città disciplinavano il commercio delle derrate ittiche con un grado di dettaglio che ne sottendeva lo status di prodotto di largo consumo. La compravendita doveva essere anzitutto tassativamente concentrata presso l’area a ciò deputata nell’antica Piazza di San Vincenzo, prospiciente il Fontanone, per consentire ai Giudici delle Vettovaglie di esercitare con sollecitudine i prescritti controlli sul rispetto delle normative sanitarie. I prezzi erano inoltre assoggettati ad un regime amministrato – denominato calmedrio – che regolava le quotazioni dei generi di prima necessità, tra cui anche grani e carni. I diritti di pesca nelle acque del contado erano infine contingentati così da assicurare al capoluogo approvvigionamenti quanto più regolari.

V’è peraltro evidenza che a quei tempi i pescatori bergamaschi stentassero a stare al passo con la sostenuta domanda urbana. Le autorità municipali dovettero quindi far a diverse riprese ricorso anche a fornitori forestieri, come attestato dal contratto con un pescatore di Olginate – tale Pietro Testori – stipulato nell’aprile del 1553. Questi si impegnava per un anno a recare in città prefissati quantitativi di pesce (trenta pesi il venerdì, quindici le vigilie delle festività di precetto e venticinque ogni giorno di qua-resima) da vendersi a tariffe convenute nell’accordo, con l’avvertenza che non si trat-tasse di pescato “di fossa, ma di buoni laghi, & Adda”.

Dalle rilevazioni del calmedrio riportate nell’Effemeride di Donato Calvi, si ricava comunque che nel XVI secolo i prezzi per unità di peso delle derrate ittiche andassero da due – per le varietà a più buon mercato quali barbi, cavedani e lucci – a tre volte – per i generi più prelibati quali trote, tinche e persici – il costo della più dispendiosa tra le carni, quella di vitello. Da ciò traspare che il pesce non fosse certo cibo per tutte le tasche: il suo consumo era semmai appannaggio dei ceti cittadini più abbienti. Nel contado ci si doveva invece contentare – si fa per dire – di gamberi, bisséte (le piccole anguille di roggia) e rane, di cui allora abbondavano i corsi d’acqua della campagna.

E siccome, a prestar fede a Gabriele Rosa, l’aristocrazia bergamasca di quell’epoca usava soggiornare assai più lungamente nei poderi in villa che nelle dimore urbane, non sorprende affatto che il pescato di fosso finì per spopolare anche nella cucina no-biliare e borghese. Su di esso fa infatti perno la seicentesca suppa quaresimata del Cocho Bergamasco, nel cui retrospettivo brodo, dalla medievaleggiante tendenza agrodolce, finiscono a mollo anche le lumache. Gamberi e rane conferiscono inoltre nerbo al fumetto dell’ottocentesca versione di magro della minestra di pasta alla bergamasca proposta dall’anonimo estensore de “Il cuoco economico moderno”, e ani-mano diverse tra le ricette che al tramonto del secolo romantico il concittadino Giuseppe Riva dedicò ai tempi di astensione dalle carni nel suo pur esterofilo “Trattato di cucina semplice”. Non ve ne sarà forse a sufficienza per cavarne un menù per il mercoledì delle ceneri degno del Patriarca di Aquileia, ma certo neppure per decreta-re che dall’associazione alla cucina di pesce del gastrotoponimo “alla bergamasca” debba giocoforza promanare l’ambiguo sentore dell’ossimoro.


La patata di Martinengo “diventa” anche digitale

Patat di Martinengo e Viola del benessereE’ una piccola produzione di nicchia, di grande qualità e legata a un preciso territorio della provincia bergamasca, ma grazie alle potenzialità della rete è facilmente reperibile da tutti. La pregiata Patata di Martinengo infatti non conosce confini e sta raggiungendo ogni parte d’Italia. Le richieste arrivano tramite web, grazie al canale di e-commerce avviato dall’Azienda agricola Gatti di Martinengo.

“Poiché grazie al nostro sito Internet ci pervenivano molte richieste anche da fuori provincia spiega Franco Gatti, titolare dell’azienda con le cugine Maria Grazia e Gabriella – abbiamo deciso di sperimentare questa modalità di vendita, sfruttando le nuove tecnologie informatiche. I risultati non sono tardati ad arrivare. Abbiamo mandato le nostre patate praticamente in tutte le regioni, anche in Sicilia e Sardegna. C’è grande interesse per la Patata di Martinengo con il marchio DE.CO. (Denominazione Comunale)   ma anche per la Viola del benessere, che con il suo colore particolare suscita molta curiosità”.

Expo è ormai imminente e il mondo agricolo si sta attivando per farsi conoscere e presentarsi con tutte le sue eccellenze, anche di nicchia, ai numerosi visitatori che arriveranno nel nostro Paese.

La Patata di Martinengo, dopo essere stata dimentica per molto tempo, sta ora vivendo un momento di forte rilancio. Attualmente sono 5 le aziende che la coltivano con una produzione annua di circa 2.500 quintali.

Abbiamo iniziato alcuni anni fa riproporre questa varietà di patata strettamente legata alla realtà del comune dove risediamo – precisa Gatti – e subito abbiamo riscosso non solo il consenso dei consumatori ma anche del mondo dell’enogastronomia, che l’ha eletta da subito protagonista tra i fornelli, favorendone la conoscenza. L’avvio del canale e-commerce ha rappresentato un ulteriore tassello del progetto messo in campo dalla nostra azienda per ampliare il nostro panorama produttivo”.

Da recenti dati del Censis si evince che la spesa alimentare sulla Rete cresce in controtendenza alla crisi che ha provocato un drastico crollo nei consumi. Un trend in costante ascesa, anche in prospettiva, se si considera che quasi un terzo del totale di chi sceglie la Rete per comperare prodotti alimentari (2,4 milioni di persone) ha un’età compresa tra i 18 e i 34 anni.

La vendita tramite Internet non è ancora molto diffusa tra le imprese agricole – sottolinea Coldiretti Bergamo – ma è certamente un’opportunità interessante da esplorare, in quanto permette a chi vende di raggiungere nuovi mercati e a chi compra di gustare a casa le tante specialità dei vari territori italiani senza doversi spostare”.

Nonostante la vendita di alimentari sul web presenti ancora alcuni elementi di perplessità, come la preoccupazione per la sicurezza di effettuare pagamenti su Internet, fino alla conservabilità dei alimenti in vendita e ai timori di vedersi recapitare prodotti con caratteristiche diverse da quelli scelti (problema facilmente superabile con l’invio di campioni prova), le opportunità sono molto interessanti.

“Internet con tutte le sue applicazioni – conclude Coldiretti Bergamo – si sta rivelando utilissimo. A reinterpretare l’agricoltura tradizionale nell’era digitale sono soprattutto i giovani, che grazie alle loro conoscenze informatiche, ma anche alla diffusione di nuovi strumenti come smartphone e tablet, stanno dando vita a una filiera corta “telematica”. Con Expo alle porte ci auguriamo che grazie a questa nuova tendenza si possa creare un legame anche con i tanti visitatori che dopo essere stati all’Esposizione Universale torneranno nei proprio luoghi di residenza con la possibilità però di mantenere un filo diretto con il territorio che li ha ospitati. Proprio con questa finalità abbiamo creato il portale www.bergamoexpo.it che oltre alle Patate di Martinengo promuove altre prelibatezze della nostra agricoltura e l’ospitalità agrituristica”.

 

 

 

 


Sagre, la Regione contro la concorrenza sleale

Sagre3Torna alla ribalta il tema delle sagre. In Regione Lombardia, il consigliere del Nuovo Centrodestra, Mauro Piazza, ha presentato nei giorni scorsi una risoluzione destinata a tutelare gli esercizi di vicinato, il mondo della ristorazione ma anche le tipicità alimentari, durante le numerose sagre e fiere che vengono organizzate sul territorio lombardo. “A questo argomento, avevo lavorato come consigliere – annota l’assessore alla Mobilità, il bergamasco Alessandro Sorte -. Ora la risoluzione è approdata in Consiglio e dovrà rispondere alla duplice esigenza di impedire la concorrenza sleale verso il mondo della ristorazione ma, allo stesso tempo, favorire concretamente le eccellenze alimentari dei nostri territori durante fiere e sagre”.

La risoluzione numero 28, nella premessa informa che “le manifestazioni a carattere temporaneo quali sagre, fiere e feste, devono rappresentare un’occasione di aggregazione e di socialità e non un modo surrettizio per realizzare una pura attività commerciale, svolta senza adempiere agli obblighi previsti dalle norme che regolano il commercio in sede fissa o ambulante e, dunque, operando di fatto in regime di concorrenza sleale”.

La risoluzione impegna la Regione, tra l’altro, a “evitare forme di concorrenza sleale, attuate in modo surrettizio e aggirando gli obblighi previsti dalla normativa, in riferimento alla somministrazione temporanea di alimenti e bevande in occasione di sagre e fiere, previo confronto con i soggetti più rappresentativi coinvolti, tra cui l’Anci, associazioni di categoria, Camere di Commercio, Pro Loco e Associazioni di consumatori”. Ma contemporaneamente dovrà favorire iniziative come “sagre nelle quali la somministrazione di cibi e bevande ha prevalente finalità di valorizzazione dei prodotti tipici e tradizionali del territorio, in considerazione del fatto che la nostra cultura del cibo è anche fonte di attrazione di flussi turistici, e non ha finalità meramente commerciali e di lucro”. La risoluzione si conclude proponendo ai Comuni di regolamentare la materia, compreso un calendario delle iniziative ed eventuali sanzioni per chi non rispettasse le indicazioni.


Bergamo carnivora, quando il pesce era solo cibo da dame

Bloch Pieter_AertsenIl grande medievalista Fernand Braudel l’ha marchiata come l’età dell’Europa carnivora. Ed invero i due secoli intercorsi tra la metà del trecento e quella del cinquecento rappresentano per i partigiani dell’alimentazione vegetariana uno dei picchi storici di oscurantismo. Autorevoli studi attestano infatti che durante tale lasso di tempo i consumi annui pro capite di carne, pur con ampi scarti su base di ceto, fluttuassero dai 30/40kg delle regioni mediterranee sino al quintale abbondante delle lande del nord. Livelli considerevolmente superiori a quelli di ogni altra epoca trascorsa, e ragguardevoli anche se raffrontati agli 80kg dei nostri giorni – specie allorché si tenga conto che il rigido regime di magro allora vigente un giorno su tre oggi è solo uno sbiadito ricordo.

Per uno dei beffardi paradossi che sovente determinano il corso delle vicende umane, le radici di così protratte condizioni di opulenza alimentare – un “periodo di vita individuale felice”, sempre secondo Braudel – affondano in una delle più tragiche calamità della storia. Fu infatti la spaventosa epidemia di peste nera che tra il 1347 ed il 1353 falcidiò il continente, spazzando via oltre un terzo della popolazione europea, a gettare le basi della susseguente fase di prosperità. Alle prese con un mondo di punto in bianco spopolato, i sopravvissuti al contagio si ritrovarono in dote risorse nutrizionali ampiamente eccedenti i loro fabbisogni. Ed il crollo della domanda di cereali determinato dalla profonda recessione demografica indusse i proprietari terrieri a riconvertire in maggese buona parte degli arativi, liberando così vasti appezzamenti per il pascolo. Nei nuovi prati stabili dell’area padana iniziò dunque a prender piede l’allevamento bovino, sino a quel momento sostanzialmente negletto. Non è pertanto casuale che, a margine di un’abbondanza di carni senza precedenti, giusto in quegli anni vedessero la luce gli storici caci vaccini di pianura, tra i quali avevano distinzione il Parmesano ed il Lodigiano.

Le arti culinarie presero celermente atto del mutato quadro di disponibilità alimentari. Se i ricettari del duecento e del trecento facevano per molte preparazioni generico riferimento alla carne, senza curarsi di precisare da quale bestia questa dovesse provenire, a partire dal XV secolo la letteratura gastronomica iniziò a dedicare specifica attenzione alle peculiarità delle singole specie e dei diversi tagli. Nell’inarrestabile crescendo di popolarità delle proteine animali, le classi più altolocate finirono addirittura per lasciarsi contagiare dal popolaresco trasporto per il quinto quarto. Sulle tavole nobiliari fecero così comparsa eccentriche portate di frattaglie, con punte di audacia quali bulbi oculari d’agnello e palato bovino, che nelle epoche pregresse erano inderogabilmente riservate al consumo plebeo.

Da più di un indizio si desume che in questo impeto continentale di frenesia carnivora Bergamo fosse seconda solo a pochi altri centri. Tra i plurimi riscontri spicca l’ordinanza emanata nel 1562 dal vescovo Federico Cornaro il quale, per prevenire le inottemperanze al regime quaresimale di magro, decretò che nel periodo intercorrente tra il mercoledì delle ceneri ed il sabato santo non più di tre beccai in città fossero autorizzati a tener aperta bottega. Per venir serviti i compratori dovevano peraltro essere muniti di una speciale autorizzazione, rilasciata dalle autorità ecclesiastiche solo dietro presentazione di adeguata documentazione medica. L’articolazione del disposto e la severità delle pene (scomunica, ammenda e punizioni corporali) la dicono lunga su quanto ricorrenti dovessero essere presso i nostri avi le trasgressioni all’astinenza precettiva dalle carni.

Non meno emblematica è la lista delle imbandigioni per lo sposalizio di due rampolli della borghesia mercantile bergamasca – Girolamo Rota e Dorotea Alessandri – celebrato nel febbraio del 1523. Il banchetto nuziale si apri con un servizio di credenza – ai nostri giorni un buffet freddo – assai più succinto di quello che un’occasione di tale importanza avrebbe di norma comportato. Vennero infatti serviti solamente zenzero candito, pignoccate con saponea (confetti allo zenzero), cavi di latte – antenati del mascarpone – e torta bianca (un timballo a base di formaggio fresco). Un così stringato preambolo era apparentemente inteso a non guastare l’appetito per la pantagruelica sarabanda di carni che di lì a poco avrebbe avuto corso, aperta da quaglie e pernici assieme a piccioni lessi ed allo spiedo. E poi fagiani, pavoni, anatre ed oche nella loro livrea – i volatili, secondo l’uso del tempo, erano scuoiati, arrostiti ed infine ricomposti nel loro piumaggio in modo da serbare sembianze da vivi. Quindi capponi bolliti, arrosto ed in limonia – un intingolo medievale a base di succo di agrumi e latte di mandorle. Ed ancora, inframmezzati da un imprecisato pasticcio che sarebbe comunque azzardato congetturare vegetariano, arrosti di lepri e di conigli a propria volta rivestiti del loro manto, seguiti da petto di vitello in salsa.

Approssimandosi ormai l’epilogo del banchetto, gli impavidi cucinieri dovettero pensare che nulla più convenientemente di un’ultima tornata di arrosti potesse accomodare lo stomaco dei commensali. Ecco dunque che dagli spiedi vennero recati sulle mense porchette, capretti e lombi di vitello. Per soprammercato anche le portate deputate a guidare il disimpegno dall’abbuffata si trovarono impresso l’onnipresente marchio della carne: furono infatti servite gelatine di manzo, di vitello e di cappone. E finalmente Dio volle che giungesse il liberatorio turno di torte, pere cotte, confetti e marzapani.

Superfluo rimarcare che in seno alla ciclopica lista delle vivande del pesce non comparisse neppure l’ombra, ancorché nei convivi più formali dell’epoca quest’ultimo fosse di norma alternato agli altri cibi. In realtà in calce al resoconto si fa incidentale cenno a carpioni ed anguille, temoli e trote, persici e bose. Per singolare combinazione i manicaretti ittici rimasero tuttavia esclusivo privilegio delle dame, tenute quel dì all’osservanza del regime di magro cadendo l’indomani la tutt’altro che imperdibile festività di Sant’Agata.


Quando Bergamo era terra di ulivi. Anche Petrarca se ne fece inviare uno

Immagine mostra: Roma in tavola nel MedioevoRiferiscono i biografi di Francesco Petrarca che nell’aprile del 1357 il poeta, indossate le inusuali vesti del giardiniere, trapiantò nel verziere della Basilica di Sant’Ambrogio un ulivo che si era fatto inviare dalla finitima Bergamo. Poco sorprende che l’audace tentativo di acclimatazione dell’arboscello alle brume milanesi non fosse coronato da fausto esito. L’umanista ritentò l’esperimento un paio d’anni più tardi, nel glaciale marzo del ’59, ma anche stavolta la pianticella rinsecchì nel volgere di qualche settimana. “Sono fermamente convinto che codesta terra sia ostile a quest’albero”  – concluse scorato il dafneo cantore, irriso dal rigoglioso verdeggiare dell’oleacea sui colli appena al di là dell’Adda.

La Milano dei cimenti botanici petrarcheschi non doveva differire molto da quella magnificata una dozzina di lustri prima nel De magnalibus Mediolani di Bonvesin de la Riva. Ad onor del vero il panegirico del Magister di Porta Ticinese andrebbe sfrondato da qualche iperbole di troppo, frutto della già all’epoca proverbiale inclinazione meneghina alla spacconeria. La megalopoli da duecentomila abitanti di cui scrive Bonvesin in realtà albergava, a prestar fede all’autorevole storico Jacques Le Goff, non più di ottantamila anime. Ed il cronista medievale l’aveva probabilmente sparata grossa anche nel computo di macellerie e forni del pane – enumerati in oltre quattrocento per ambo le categorie – se è vero che oggi ne bastano meno di un terzo per sfamare più di milione e trecentomila bocche. E’ comunque indiscutibile che proprio in quei decenni la roccaforte dei Visconti avesse imboccato una spedita ascesa verso la supremazia sul quadrante nord-occidentale della Penisola. “Terrestrium decus urbium” – l’aveva incoronata non senza calcolo politico il Petrarca, parafrasando fedelmente l’epifrasi bonvesiniana di “più splendida tra tutte le città del mondo”.

Nel corso della quasi decennale permanenza a Milano il poeta ebbe ricorrenti contatti con Bergamo ed il suo contado, freschi di assoggettamento alla serpe del blasone visconteo. Tra il 1357 ed il 1359 sono documentati almeno tre suoi soggiorni presso la rocca di Pagazzano, all’epoca circondata da secolari foreste che gli dovevano ricordare la silva ingens dell’Appennino parmense nei dintorni dell’amata Selvapiana. Durante l’ultima di queste villeggiature il cantore rese visita anche al capoluogo, su invito di un fervente ammiratore che vi risedeva. Le cronache narrano che al suo arrivo alle porte del centro abitato il Petrarca fosse accolto da una grande folla, tra cui spiccavano il governatore della provincia ed i podestà del comune. Per l’occasione fu anche imbandita una tavola degna di un re, ignorando forse che il frugalissimo ospite aborrisse i convivi troppo fastosi e le vivande elaborate.

Nonostante la benevola gaffe del nostri antenati, è comunque assai verosimile che la Bergamo di quei giorni non fosse affatto dispiaciuta al padre dell’umanesimo, antesignano tra gli estimatori del decoro urbano. Da ormai più di vent’anni le autorità municipali avevano infatti bandito dalla cerchia delle mura le torme di porci – al tempo abituali ospiti di ogni agglomerato – di cui il vate mal sopportava “la turpe vista e l’ingrato suono” (l’avanguardista Milano avrebbe adottato un analogo provvedimento solo due secoli più tardi). Con ampio anticipo su ogni altro comune Italiano di pari rango, nella nostra città era altresì elevato divieto di gettare lordure in strada dalle case e dalle logge, tutte le vie erano lastricate e le cloache fluivano ordinatamente nel sottosuolo.
Gli ulivi di cui il poeta aveva trapiantato i virgulti costituivano una nota tutt’altro che occasionale del paesaggio bergamasco dell’epoca. In particolare le alture tra Ponte San Pietro ed il capoluogo, secondo la descrizione che nel XII secolo ne forniva Mosé del Brolo, ne erano coperte  per estesi tratti, assai fitti tra Mozzo e Longuelo. Anche l’antica toponomastica di Città Alta comprendeva almeno un paio di riferimenti a poggi minori indicati come uliveto, segnatamente in Borgo Canale e nei pressi di Rosate. Per quanto a quei tempi tra i grassi alimentari primeggiasse incontrastato il lardo, l’imposizione ecclesiastica di un draconiano regime di magro per circa un terzo dell’anno assegnava un ruolo di rilievo anche agli oli vegetali. Tra questi quello di oliva si distingueva quale articolo di gran lusso, negoziato ad esorbitanti multipli di prezzo (sei volte tanto, secondo quanto rilevava qualche secolo più tardi Donato Calvi nell’Effemeride) dei più diffusi succedanei – l’olio di noci e quello di lino.
La diffusione della nobile pianta nel nostro circondario, consolidatasi nell’alto medioevo, si dimostrò ben altro che effimera. Ancora un secolo e mezzo fa il botanico Lorenzo Rota, nel suo Prospetto della flora della provincia di Bergamo, annotava che l’ulivo“percorre vigorosissimo la sponda bergamasca del Sebino, e s’avanza per ben quindici miglia verso Bergamo sulle colline di Gorlago e di Scanzo abbellendo di sua mansueta verdura la Valle Caleppio, e ricompare sull’amena costiera che sovrasta all’Adda tra Foppenico e Vercurago”. Ma proprio in quei decenni il diplomatico britannico John Bowring riferiva in una relazione sull’economia lombardo-veneta che sui nostri colli gli uliveti erano in via di espianto per essere rimpiazzati da più remunerative piantagioni di gelso, su impulso delle spietate leggi di mercato dettate dall’incipiente rivoluzione industriale. E rimorde davvero che ai nostri giorni solo pochi ettari di terreno restino ormai appannaggio della progenie dell’arboscello che, strappato ai feraci poggi di Bergamo, in spregio alle premure petrarchesche si lasciò morire di struggimento tra le fredde caligini dell’altera Milano.