Zogno e le castagne, un mese di iniziative con “Sapori e Cultura”

Si apre venerdì 4 novembre l’ottava edizione di Sapori e Cultura, l’iniziativa gastronomico-culturale che sino alla fine del mese fa scoprire il patrimonio museale e paesaggistico di Zogno, i suoi prodotti tipici e la tradizione enogastronomica locale, con un filo conduttore: la castagna. In programma incontri sulla storia, l’alimentazione, la natura in autunno, iniziative per i bambini, escursioni, concorsi, menù a tema e vere e proprie feste di piazza.

La presentazione è fissata alle 20.30 al Museo della Valle di Zogno con la presenza dello speaker radiofonico Teo Mangione.

IL PROGRAMMA

Sabato 5
ore 15 – BIBLIOTECA

Storie tra castagne e profumi d’autunno, rivisitazione per bambini della leggenda dei billigòcc

Domenica 6
ore 14 – PIAZZA MARTINA

Visita guidata a una selva di castagni, caldarroste e intrattenimento in selva

Venerdì 11
ore 20.30 – MUSEO DELLA VALLE

Serata culturale “La natura brembana nell’obbiettivo di Baldovino Midali”

Domenica 13
dalle ore 10 alle 18  – CASTEGNONE

Festa dei biligòcc nella contrada di Castegnone a Poscante. Bus navetta gratuito dal campo sportivo di Poscante

ore 14 – PIAZZA MARTINA

Alla scoperta della via delle castagne. Camminata con accompagnatrice di media montagna fino ai secadur di Castegnone

Venerdì 18
ore 20.30 – MUSEO DELLA VALLE

Serata culturale “Anche una castagna al giorno toglie il medico di torno?” con il biologo nutrizionista Paolo Paganelli

Domenica 20
ore 14.30 – PIAZZA MARTINA

Mini corso di cucina per la preparazione di confetture e creme alle castagne

Domenica 27
ore 10-18 – VIALE MARTIRI DELLA LIBERTÀ

CastagnAMO, mercatino e degustazione di prodotti locali. Caldarroste e vinbrulé, premiazioni concorsi, gonfiabili per bambini

Alla rassegna sono legati anche due concorsi per appassionati: uno fotografico sul tema cibi e cultura del territorio e uno di torte alle castagne 

E per chi vuole sedersi comodamente a tavola e assaggiare le proposte della ristorazione, fino al 30 novembre, in 12 locali è disponibile un menù a tema sulla castagna al prezzo fisso di 25 euro, comprese bevande e coperto. Chi sceglie lo speciale menù, potrà inoltre visitare a prezzo scontato (1,60 euro) il bel Museo della Valle.

I ristoranti che partecipano sono: Baita dei Saperi e dei Sapori, Antica trattoria Breve respiro, Casa Baggins, Casa Martina, Da Gianni, Da Tranquillo, Royal Wine ristorante bar, Trattoria del Maglio, La Staletta, Millenium pizzeria, Numero due e La Torre.

Per tutti i dettagli: www.saporiecultura.org


Monasterolo, è tempo di bollito misto

bollito_mistoDall’11 al 13 novembre, nella tensostruttura riscaldata del campo sportivo di Monasterolo del Castello, in riva al Lago d’Endine, si terrà la Terza Sagra del Bollito. Tre giorni, con il via alle 19, in cui il famoso piatto della tradizione contadina tornerà protagonista, grazie a tagli di manzo, salame, lingua e gallina accompagnati da stuzzicanti salse. Le proposte culinarie della Sagra continuano con la Trippa e prelibatezze autunnali. Le serate di venerdi e sabato saranno accompagnate da gruppi rock e folk, mentre la domenica mattina la Fiera Agricola e la Mostra del Bestiame organizzeranno attività e spettacoli per bimbi e non. La cucina aprirà per pranzo fino alle 17.
Da 16 anni L’Associazione Porchet Fest, organizzatrice della Sagra del Bollito Misto e della PorchetFest, promuove eventi con l’unico obiettivo di donare il ricavato in beneficenza. Per informazioni e prenotazioni chiamare 340-0701780.


La castagna del bastian contrario

A dar retta all’impareggiabile Teofilo Folengo, quelli che nel XVI secolo la montagna di Clusone spediva in mezzo mondo erano uomini “bassi, grassi e grossi di sedere”.

Una così poco altera complessione, a giudizio del poeta, era da attribuirsi alla dieta quasi monofagica dei valligiani: panizza – la polentina di panìco che godette di universale diffusione sino all’introduzione del mais – e, soprattutto, castagne a volontà. Oltre che per le generose proporzioni, il posteriore dei nostri montanari doveva con certezza distinguersi, per dirla con Curzio Malaparte, in virtù di una non comune loquacità.

Secondo la medicina prescientifica il frutto del castagno, tra le molteplici pecche dietetiche di cui era tacciato, annoverava difatti quella di indurre una tutt’altro che commendevole ventosità intestinale. Come se non bastasse, all’ingiustamente vituperata derrata erano attribuite, al pari che alla rapa ed ai legumi più umili, deprecabili proprietà afrodisiache, che si riteneva acuissero la proverbiale lascivia degli zotici. Più recenti ed attendibili studi hanno acclarato come il regime forzatamente vegetariano di cui scriveva il Merlin Cocai fosse piuttosto all’origine di quel gozzo che per secoli ha marchiato la caricaturale iconografia del bergamasco.

In spregio all’avversione di clinici e naturalisti, la preminenza della castagna nel sistema alimentare dei nostri antenati si è storicamente affermata su basi affatto trasversali, oltrepassando i confini topografici dei distretti montani ed il limitare sociale delle classi meno abbienti. È ad esempio assodato che nel corso dell’alto medioevo la diffusione di quello che era chiamato l’albero del pane si spinse sino al cuore della pianura padana, dato che estese aree a castagneto erano censite nei pressi di centri come Spirano, Cologno al Serio e Capriate d’Adda.

Alla fine del XIII secolo Bonvesin de la Riva certificava altresì come la cibaria avesse acquisito il rango di genere di prima necessità anche negli agglomerati urbani lombardi, giacché se ne approvvigionava in gran copia la stessa Milano. L’iperbolico magister di Porta Ticinese distingueva al più tra la varietà di minor pregio definita “popolare”, relegata ad un ruolo intermedio tra la nutrizione animale e quella umana, ed i più aristocratici marroni riservati ai palati dei ceti altolocati.

Proprio perché prevalentemente legate alle consuetudini degli strati sociali più umili, le tecniche di trasformazione agroalimentare della castagna e le modalità del suo utilizzo in cucina serbano tratti singolarmente arcaicizzanti. Valga il caso dei biligòcc, il cui procedimento di elaborazione è a tutt’oggi identico a quello descritto nel IV secolo dall’agronomo latino Rutilio Palladio. Nelle Prealpi lombarde ed in Valtellina si prepara inoltre una minestra di castagne e riso denominata mach, il cui vincolo di discendenza dal celebre maccus dell’antica Roma – una passatina di fave ancor ai nostri giorni in voga nel mezzogiorno – non necessita certo di delucidazioni. Colpisce semmai che in Valgerola, sul versante settentrionale delle Orobie, la vivanda venga accomodata con l’utilizzo del panìco in luogo del riso, riproponendo così in un’unica portata l’accoppiata di derrate montane richiamata nel Baldus di Folengo.

Se nelle vallate alpine la cucina della castagna riserva il sorprendente incontro con alcuni pronipoti della gastronomia latina, nel Sannio – storica propaggine longobarda nell’Appennino Campano – conduce invece al non meno stupefacente rinvenimento di un lontano cugino dei ravioli di casa nostra. Si tratta del caozoncello, un tortello dolce ripieno della polpa lessata dell’achenio, la cui preparazione è finalizzata in frittura. Per quanto arduo sia ricostruire la filiera delle relazioni di apparentamento, è sbalorditivo che ad una sessantina di chilometri dal Vesuvio sopravviva un’enclave presso la quale imperturbabilmente si consumano gli alter ego meridionali di casoncelli e cassoeula – localmente denominata abbullit d’porc.

Questa rassegna di bizzarrie si chiude con i dettagli di una delle antiche e suppergiù goliardiche tenzoni tra miserabili di cui è zeppa la storia. Soprattutto nelle lande a sud del Po, mazzamarroni era l’epiteto con il quale venivano dileggiati i montanari, che controbattevano apostrofando come mangiarape gli zotici dimoranti a quote più basse. E d’altronde già nel I secolo d.c. Plinio il Vecchio sottolineava come l’elettiva dimora della rapa fosse tra le brume delle piane alluvionali. È bene tuttavia precisare che dalle nostre parti il discrimine tra mangiamarroni e cagarape sarebbe risultato del tutto incomprensibile. Non solo per parecchi secoli si sono colte castagne sin sulle sponde del Fosso Bergamasco, ma le migliori rape del circondario sono da tempo immemore quelle coltivate sui declivi di Orezzo e di Bossico. Castagne in pianura e rape in montagna: come disconoscere che Bergamo sia patria dei più irriducibili tra i bastian contrari?


Il più antico manicaretto della storia? Polenta e osei

polenta-e-uccelli-antica-osteria-il-forno-brembillaNarra Plutarco che lo spartano Pausania, comandante in capo della coalizione greca che nel 479 a.c. sconfisse i Medi a Platea, dopo il fausto epilogo della battaglia si fece imbandire negli acquartieramenti nemici un lauto banchetto alla moda dei vinti. “Per Ercole – sbottò il condottiero, stupefatto dall’opulenza dei manicaretti – questi Persiani devono proprio essere degli incorreggibili ingordi se, già disponendo di tutto questo ben di Dio, è venuta loro fame anche della nostra polenta!”.

Non sorprende affatto che il generale lacedemone, originario per giunta del centro culinariamente più retrogrado di tutta l’Ellade, fosse rimasto a bocca spalancata dinnanzi alle succulente vivande servite nell’epula. Ancorché avvolta per lo più nel mistero, quella persiana è difatti stata la più alta tra le civiltà gastronomiche dell’antichità. Del resto traspare da più fonti che i greci guardassero con malcelata ammirazione alla cultura materiale degli storici rivali. L’ateniese Senofonte, ad esempio, annotava come i figli dell’impero Achemenide si astenessero dallo scatarrare, soffiarsi il naso per terra e prodursi pubblicamente in flatulenze. Abitudini che, vien da presumere, a quei tempi dovessero essere tutt’altro che desuete presso i concittadini dell’autorevole storico. Erodoto riferiva altresì che fosse costume del jet set di Persepoli e di Susa celebrare il genetliaco offrendo ai convitati un cammello arrostito tutto intero. Per quanto kitsch possa apparire la portata, è indiscutibile che da quelle parti già ai tempi di Ciro il Grande le cucine nobiliari fossero assai ben attrezzate.

Facezie a parte, è assodato che molte delle vivande-cardine della gastronomia europea moderna e contemporanea, tra cui alcuni capisaldi della tanto celebrata dieta mediterranea, rechino chiaramente impresso il marchio dell’antica Persia. E l’elenco si apre nulladimeno che con la pasta. Giunta in Europa nel cuore del medio evo grazie alla mediazione di arabi ed ebrei, la versatile vivanda ha assai probabilmente visto la luce nell’altopiano iranico o nel bacino mesopotamico. Le principali voci utilizzate nel lessico moresco e giudaico per designare l’alimento – reshteh ed itrya – sono infatti di diretta derivazione persiano-aramaica. D’altronde, come evidenziato nello scorso numero di Affari di Gola, pare che persino il casoncello bergamasco sia legato da vincoli di remota parentela ai kushkusnai dell’impero Sasanide.

La feconda vena degli arcaici cucinieri dell’Asia centrale nel dominio di quelli che sono oggi definiti primi piatti è confermata da un’altra invenzione destinata a lasciare un profondo segno nelle vicende del cibo: quella del risotto. È noto che la coltivazione del riso si sia storicamente diffusa dall’estremo oriente, prendendo piede in Persia ai tempi della dinastia Achemenide. Ed è con certezza sulle sponde meridionali del mar Caspio che si è realizzata la cruciale trasfigurazione culinaria del cereale. Qui la graminacea è in effetti passata dall’accomodamento minimalista ancor oggi prevalente in Indocina – semplicemente lessata senza alcun condimento – alle elaborazioni riccamente ammannite della gastronomia persiana, successivamente riprese in occidente su impulso arabo e salutate da secolare successo.

È del tutto perspicuo che una tanto cospicua dotazione di competenze tecniche non possa certo essere germinata dal nulla. Recenti rinvenimenti hanno restituito evidenza a quella che l’archeologo Jean Bottero ha a buon titolo definito la prima grande cucina del passato remoto, cui la cultura gastronomica persiana ha generosamente attinto. Si tratta della civiltà alimentare mesopotamica, il cui inimmaginabile grado di raffinatezza e perfezione tecnica è attestato da alcuni ricettari in lingua accadica risalenti addirittura al 1700 a.c.. È risaputo che le popolazioni di stanza tra Tigri ed Eufrate intrattennero relazioni ed interscambi privilegiati – ancorché a tratti inevitabilmente burrascosi – con gli agguerriti vicini d’oriente. E nel 539 a.c. Babilonia divenne addirittura una satrapia persiana, per successivamente restarlo, salvo brevi interruzioni, lungo l’arco di oltre un millennio.

Tra le antichissime ricette mesopotaniche a noi pervenute spicca quella di una vivanda che rivela sorprendenti analogie con la polenta e osei della nostra tradizione. Il procedimento per la sua preparazione prevedeva che degli uccelletti, con il corredo dei loro ventrigli, passassero per un’elaborata cottura in due fasi: dapprima saltati velocemente in una padella di metallo, quindi stufati a lungo in una casseruola di terracotta con l’aggiunta di erbe aromatiche, porro ed aglio su una base liquida di acqua e latte (ancora ai nostri giorni talune versioni azzardano il complemento, esecrato dai puristi, della panna). Così approntata, la cacciagione minuta veniva distribuita con la sua salsa nell’incavo di una pagnotta impastata con farina, porro, aglio ed un po’ di grasso di cottura dei volatili. Una volta farcito, il timballo veniva richiuso da un opercolo ricavato panificando la medesima massa dalla quale era stata ottenuta la base.

È impossibile non restare sbigottiti dinnanzi all’ingegnosità di questa portata, vecchia quasi di quaranta secoli. E sarebbe ingeneroso rimarcare che agli uccelletti assai meglio convenga, in luogo dell’arcaico accomodamento in crosta di pane, un morbido giaciglio di polenta. È nondimeno scherzosamente suggestivo congetturare che l’arcigno Pausania non si ingannasse di troppo quando insinuava che l’imperatore Serse I ed il suo luogotenente Mardonio, nella seconda campagna persiana in Ellade, fossero davvero mossi dalla curiosità verso l’umile eppur leggendaria farinata greco-romana. Passi per la pastasciutta e per il risotto, ma è incontrovertibile che almeno la polenta sia affare nostro sin dalla notte dei tempi.


Val Gandino, un mese dedicato al mais Spinato e ai prodotti tipici

mais-spinato-di-gandino-giorni-del-melgotto-1In Val Gandino prendono il via sabato 17 settembre “I Giorni del Melgotto”, manifestazione nata nel 2008 dal progetto di salvaguardia, caratterizzazione e valorizzazione della varietà locale di mais Spinato di Gandino che porta in piazza il binomio cultura & coltura.

L’iniziativa, che si concluderà sabato 15 ottobre, è caratterizzata da convegni, mostre, degustazioni con l’obiettivo di valorizzare e mantenere vive le tradizioni folkloristiche legate alla cultura popolare e contadina, come ad esempio la scartocciatura delle pannocchie in piazza abbinata ad eventi di divulgazione e approfondimenti tecnico-scientifici e socio-culturali legati al mondo dell’agroalimentare, della salute e dello sviluppo sostenibile.

Il Mais Spinato si sposerà con i formaggi di Cirano, il cinghiale di Peia, i funghi di Casnigo, i fagioli di Clusven e insoliti abbinamenti come quelli di “Whisky, Grappa, Rum, Gin” a Gandino. A Leffe si parlerà di innovazione mentre a Cazzano Sant’Andrea si tornerà a scuola sui campi del bio-intensivo.

Ci saranno inoltre momenti di riflessione con esperti del settore che parleranno non solo di cibo e gastronomia, affrontando il tema del progetto di estensione della De.Co ai formaggi della Val Gandino, ma anche di turismo e territorio con il tema dell’ospitalità diffusa. Ci si concentrerà poi su imprenditoria e nuove generazioni.

Nel primo fine settimana gli appuntamenti golosi sono a Cirano di Gandino, sabato 17 settembre a partire dalle 19, con la cena in strada che propone l’abbinamento tra polenta taragna di mais Spinato e funghi (a cura della Consulta di Cirano, costo di 12 euro) e alla sagra del cinghiale di Peia, in programma sabato e domenica.

I ristoranti aderenti alla manifestazione proporranno per le giornate del melgotto menù a tema a base di mais spinato di Gandino.

>>Il programma completo


Stabello, la Festa della Taragna è solidale con le popolazioni terremotate

Taglia il traguardo dei 24 anni la Festa della Taragna di Stabello, piccola frazione di Zogno, e a giudicare dal passaparola sui social media (più di 100mila visualizzazioni su Facebook) farà ancora il pieno di presenze. È infatti un appuntamento “cult” della stagione, capace di richiamare intere comitive di buongustai non solo dall’intera Bergamasca, ma anche dalle province vicine.

L’evento è distribuito in due fine settimana. Si comincia venerdì 16 settembre, sabato 17 e domenica 18 e si prosegue nel weekend successivo, dal 23 al 25, sotto la tensostruttura allestita nel campo sportivo parrocchiale, dalle 18.30. Il ricavato della manifestazione viene destinato ad opere per la comunità, ma quest’anno il pensiero degli organizzatori va anche alle popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto dello scorso agosto. Per ogni taragna venduta, infatti, 50 centesimi saranno devoluti alla Caritas bergamasca per un progetto di ricostruzione.

Un motivo in più per non farsi sfuggire la regina della festa, la gialla polenta arricchita con formaggio Branzi, burro e salvia, da accompagnare a due classici come le carni di cinghiale e capriolo. Ma ci sono anche primi piatti e grigliate con spiedini, cotechini e bistecche di cavallo.

Il successo dell’evento è dato dalla tipicità dei piatti ma anche dal grande entusiasmo delle decine di volontari impegnati nel far funzionare ogni aspetto dell’organizzazione. Tra loro molti giovani, decisi a portare avanti la tradizione.

Il programma è arricchito da spettacoli, musica e intrattenimento. Per evitare ingorghi e disagi nel piccolo centro, nei giorni della festa viene istituito il senso unico: le auto possono arrivare a Stabello salendo da Zogno e ritornare sulla provinciale seguendo la strada in direzione di Sedrina.


Alimentari Turani, quando dietro al banco vince la tradizione

Ci sono attività che portano con sé la storia di un paese e di intere generazioni di famiglie. Attività che non conta l’insegna, tanto si va da tizio o da caio e tutti sanno chi sono. Sono il baluardo di una tradizione che resiste alle sfide del tempo e risponde alle lusinghe dei centri commerciali a suon di sorrisi, confidenze e servizio.

L’alimentari-salumeria Turani, a Valbrembo, risponde alla perfezione a questo ritratto. È l’unica rimasta delle cinque botteghe storiche del paese. Si è tramandata per tre generazioni e ancora oggi si trova in via Roma, dove è nata settant’anni fa. La sua storia inizia nel 1920 quando Battista Turani e la moglie Celeste Magni aprono una piccola macelleria. Con gli anni arrivano i figli, che, una volta cresciuti, si uniscono ai genitori nella gestione dell’attività e nel 1957 danno vita alla società Fratelli Turani. Germano e Mina si occupano della salumeria-alimentari, Marino e Maria della macelleria e Claudio dell’allevamento di bovini e suini. Sono «anni di sacrifici e di lavoro in cui si faceva tanta fatica». Ma, in compenso, ci sono tanta passione e buona volontà, e quindi si va avanti.

foto storica salumeria Turani - ValbremboNel tempo l’attività di famiglia si divide. A Claudio e Marino va la gestione della macelleria, Germano rimane alla conduzione della salumeria, che fa anche da vendita di pane, frutta e verdura, insieme alla moglie Rosalia Battaglia. La coppia ha due figlie. La maggiore, Marina, si sposa e va a vivere in Germania, mentre Serena, a metà degli Anni 90, dopo aver terminato gli studi da analista contabile, decide di seguire la tradizione e di lavorare nell’attività di famiglia.

È lei, oggi, a raccontare questi settant’anni di lavoro e dedizione. «Ricordo la mia infanzia con mia sorella Marina, tra scaffali e bancone, seduta in vetrina a guardare i miei genitori servire pazientemente i clienti. Lavoravano sempre, anche la domenica. Un ciclo continuo. Allora tutti i prodotti erano rigorosamente sciolti, dalla pasta allo zucchero, al caffè, all’olio. Si pesavano su una bilancia e si facevano i calcoli a mano. Era un altro tipo di lavoro rispetto a quello che si pratica oggi».

Questi vent’anni in negozio insieme ai miei genitori – commenta ancora Serena – sono stati anni di confronti e di fatiche, ma anche di tanti momenti di gioia. Tra noi c’è sempre stato, oltre al naturale rapporto affettivo, anche un solido rapporto lavorativo. Loro sono stati i miei maestri, mi hanno insegnato i segreti per curare la longevità di una attività. Ammiro la semplicità, la generosità, l’onestà e la grande ironia di mio padre e la professionalità, il rispetto e la dedizione di mia madre». Quella di Serena è una dedica d’amore e di ringraziamento soprattutto al papà per quello che ha fatto per la famiglia e il paese.

Oggi la guida della bottega è passata a lei. Germano fa da coadiuvante ma Serena ammette che «è ancora l’anima del negozio e va benissimo così. È un uomo diretto e scherzoso. E poi è una persona di cuore, non sa dire di no. Il negozio è la sua vita. Senza morirebbe». Insieme lavorano tra tradizione e rinnovamento. E anche i tre nipoti appena possono vanno in negozio per dare una mano. Serena ha portato tra gli scaffali alcune novità: ha rinnovato il locale, ammodernato gli arredi, acquistato un nuovo banco frigorifero e cambiato alcuni prodotti, sempre mantenendo la qualità e prezzi giusti, perché «per andare avanti e per poter reggere il confronto con la grande distribuzione bisogna avere prodotti buoni e prezzi concorrenziali».

Alcune cose sono rimaste dei punti fermi e sono il vanto del negozio: i salami stagionati in cantina e la famosa pancetta nostrana di Germano – che sono delle vere specialità a Valbrembo e che lui offre ai clienti durante l’attesa – nonché l’atmosfera familiare. «Con i clienti c’è un buon rapporto. Quando mio papà consegna la spesa si ferma spesso a bere un caffè e fare due chiacchiere e quando viene a mancare un nostro cliente facciamo di tutto per essere vicini ai familiari. È bene riconoscerlo: una parte importante del successo del nostro negozio è merito proprio dei nostri clienti, che ci hanno permesso di lavorare, di mantenere viva la nostro attività grazie alla loro fedeltà, ai loro consigli e al buon rapporto che si è mantenuto negli anni». «Il mio desiderio? Poter lavorare con i miei il più a lungo possibile – confida Serena – cercando di migliorare ulteriormente il servizio verso i miei clienti».


Parre, sapori tipici in abito tradizionale

parre - sapori e tradizioni - 2

Quanto a riscoperta e valorizzazione delle tradizioni, in primis quelle gastronomiche, Parre può fare scuola, come raccontano la cinquantenaria sagra degli
Scarpinocc, quella dei Capù e la più recente degli Gnocc in còla, e come ha dimostrato anche il secondo posto al premio Dattini di Assisi, dedicato alle Pro Loco e alla loro attività di promozione dei territori, ricevuto nell’ottobre scorso.

Sabato 25 e domenica 26 giugno tocca a “Sapori e Tradizioni”, manifestazione organizzata dalla Pro Loco con il patrocinio del Comune, che fa fare al paese un tuffo nel passato. Tra le vie e i cortili più caratteristici di “Parre Sopra” si svilupperà infatti un percorso storico-culturale lungo il quale gli abitanti in abbigliamento tradizionale mostreranno i lavori di una volta, offrendo una rivisitazione di come appariva la vita quotidiana cento anni fa.

Scultori del legno, mercatino di hobbisti e artigiani, spettacoli folcloristici dei gruppi locali di Parre e dell’alta Valseriana, giri in pony e dimostrazioni di ferratura dei cavalli. Per i più piccoli ci saranno laboratori e workshop di cucina per imparare la ricetta di Scarpinocc e Capù, laboratori di impagliamento e intreccio di gerle e cestini.

Spazio anche alla vendita di prodotti tipici bergamaschi come salumi, formaggi, mais spinato e tutti i prodotti inseriti nel progetto “Sapori Seriani e Scalvini” di PromoSerio, l’agenzia di promozione territoriale della valle. Si potranno assaggiare e acquistare anche birre artigianali dei micro birrifici della provincia di Bergamo e nei ristoranti locali gustare i tipici Scarpinocc e gli altri piatti della cucina bergamasca.

Sarà anche l’occasione per conoscere la storia e l’arte del paese attraverso visite guidate ai monumenti e alle chiese di Parre e con diverse mostre: una sulle miniere, la mineralogia e la speleologia delle montagne circostanti e una sul pastoralismo e la transumanza, attività tipiche degli abitanti di Parre fino a poco tempo fa.

In particolare, la mostra “Cargà Mut”, gentilmente prestata dal Festival del Pastoralismo di Bergamo, illustra attraverso 32 pannelli l’attività dell’alpeggio e quindi dell’allevamento di montagna nella sua dimensione produttiva e in quella culturale e simbolica. Otto le sezioni dell’esposizione: un’introduzione sulla terminologia e dati statistici essenziali, una parte sull’organizzazione dell’alpeggio, sull’oro delle Orobie (il formaggio), la vita in alpeggio, suoni e tradizioni, i segni del sacro, i bergamini, i pastori di ovini.

L’inaugurazione avverrà sabato alle ore 17 con i formaggi del progetto “ValOrobie, alpeggi da vivere!”. Interverrà il professor Michele Corti presidente del festival del Pastoralismo di Bergamo e docente di Zootecnia montana. La mostra sarà visitabile poi dal 27 giugno al 10 luglio dalle ore 14 alle 18 e dalle 20 alle 21.30 nella sala consigliare al Centro Diurno in via Duca d’Aosta.

Sabato sera alle ore 21 è in programma il concerto della banda di Parre sul piazzale del Comune, mentre domenica si terranno alle 18 il concerto della junior band, sempre sul piazzale del Comune, e alle ore 21 il concerto degli ottoni della Scala di Milano, al PalaDonBosco dell’oratorio in via Duca d’Aosta.

 


Ebbene sì, siamo polentoni ma anche mangiamaccheroni

BlochCapita sovente che lungo i secoli una vivanda, pur mantenendosi pressoché inalterata nella sua morfologia, finisca per variare di denominazione, o che altresì la medesima voce culinaria passi di epoca in epoca a designare pietanze differenti. La pizza napoletana di cui nel cinquecento Bartolomeo Scappi forniva la ricetta ha per esempio ben poco a che vedere con il disco di pasta di pane spennellato di salsa di pomodoro – ai tempi dell’impareggiabile cuciniere pontificio peraltro ancora sconosciuta – che negli ultimi cento anni ha conquistato un successo planetario.  Si trattava piuttosto di una torta – invero piuttosto greve ai palati contemporanei – a base di frutta passa, mandorle e pinoli.

La più emblematica tra tutte queste trasmigrazioni gastronomico-lessicali è forse quella che ha interessato il maccherone. E’ ben noto che il vocabolo sia da un paio di secoli associato ad un celebre cannello di pasta, eletto a vessillo della cucina partenopea. Ma nei trattati di cucina del quattro/cinquecento, redatti entro gli elitari confini della gastronomia aristocratica, il termine individuava invece i formati che oggi si definirebbero spaghetti o fettuccine. E non sussiste dubbio che la denominazione dell’alimento e l’ispirazione che ne dettò l’ideazione fossero stati attinti da un’ancor più antica minestra asciutta della cucina popolaresca. Ad attestarlo è la testimonianza di una vera e propria autorità in materia – ed altrimenti non potrebbe essere, dato che si parla del massimo esponente del movimento poetico maccheronico del XVI secolo.

Chiosando Teofilo Folengo, il maccherone nelle sue vesti primitive era infatti uno gnocco impastato con sole farina ed acqua, con l’opzionale aggiunta di pangrattato. A rimarcarne i natali plebei, il letterato precisava si trattasse di un cibo grassum – in quanto grondante di burro fuso e generosamente asperso di cacio grattato -, rude et rusticanum. Della pietanza il Merlin Cocai ha persino consegnato ai posteri un’eloquente raffigurazione: una xilografia a corredo delle edizioni cinquecentesche delle Maccheronee ritrae invero il poeta nell’atto di essere imboccato da Zana – una delle strampalate muse dell’opera – con un panciuto boccone di pasta infilzato su uno stecco.

Fu sempre l’eccentrico cantore mantovano a certificare l’identità padana della vivanda, evidenziando gli stretti vincoli che la legavano al più iconico dei cibi del settentrione. Nel trattare del maccus, che dell’arcaico gnocco rappresentava tanto l’irrefutabile radice lessicale quanto la materia prima originaria, Folengo constatava che ai suoi giorni questo fosse ormai una farinata di semola di cereali, e chiaramente non più una pappa a base di fave alla moda degli antichi romani. Tra polenta tardo medievale e maccherone dei primordi corre dunque un distinguibile fil rouge..

Non sorprende che l’antico formato di pasta abbia lasciato profonde tracce nella tradizione culinaria bergamasca, sempre restia a dismettere gli usi del passato remoto. Nella media e nell’alta valle Seriana si preparano ancor oggi gli gnoch in còla, attenendosi pressoché letteralmente al procedimento codificato dal Merlin Cocai. Una singolare reinterpretazione dell’alimento figura inoltre all’alba dell’ottocento ne La nuovissima cucina economica di Vincenzo Agnoletti, celebre per aver ricoperto il ruolo di personal chef di Maria Luigia di Parma. E’ pur vero che i mondiotti alla bergamasca dell’illustre cuoco romano rechino chiaramente impresso, prevedendo l’utilizzo della pâte à choux nell’impasto e della besciamella nel condimento, l’inconfondibile marchio della cucina borghese d’oltralpe – ed oggi verrebbero più propriamente chiamati gnocchi alla parigina. Ciò nondimeno la ricetta non manca di segnalare quanto profondamente radicato fosse nel circondario orobico questo genere di pietanza.

Preme infine ripercorrere i rimbalzi tra differenti genie compiuti attraverso i secoli dall’epiteto di mangiamaccheroni, della cui ricostruzione siamo debitori al grande Emilio Sereni. E’ anzitutto assodato che, a partire dal XVIII secolo, il nomignolo sia di esclusiva spettanza dei napoletani. Ma in una commedia del cinquecento – La vedova (1569) di Giambattista Cini – è altresì un gentiluomo partenopeo a dare del manciamaccaroni ad un soldato siciliano, venendo da quest’ultimo contraccambiato con il titolo di manciafogghia. Ed in effetti proprio in Trinacria ebbe inizio, all’alba del basso medioevo, la produzione industriale di paste alimentari, quando invece Napoli andava famosa per le sue verdure. Grazie a Teofilo Folengo sappiamo comunque che le prime orme di un divoratore di maccheroni siano state quelle lasciate, ancor più anticamente che in Sicilia, da qualche nostro avo sul ferace suolo della valle Padana. Polentoni, certo, ma al tempo stesso pure mangiamaccheroni.


Erbe di montagna e formaggi tipici, in Val Brembana nove giorni a tutto gusto

Erbe del CasaroLa settima edizione di Erbe del Casaro, che coinvolge 11 comuni dell’Altobrembo (Averara, Cassiglio, Cusio, Mezzoldo, Olmo al Brembo, Ornica, Piazza Brembana, Piazzatorre, Piazzolo, Santa Brigida e Valtorta) torna da sabato 28 maggio a domenica 5 giugno. La rassegna, come ogni anno, mette in mostra le ricchezze della Valle, frutto di cultura, saperi e tradizioni delle sue genti attraverso un ricco programma di iniziative per adulti, bambini e famiglie con l’obiettivo di valorizzare erbe spontanee, formaggi brembani e vini della Bergamasca.

Il calendario prevede eventi per tutti i gusti: appuntamenti culinari, corsi di cucina, degustazioni, percorsi enogastronomici, esposizioni artistiche, escursioni, conferenze, visite in aziende agricole e molto altro ancora. Erbe del Casaro è un vero e proprio evento diffuso in quanto accompagna il turista alla scoperta del territorio e dei paesi in cui è organizzata, dando risalto a località e scorci di particolare interesse e fuori dalle solite rotte turistiche. Erbe del Casaro_1 Nel corso della rassegna i ristoranti locali propongono menù a prezzi convenzionati a base di erbe spontanee e formaggi brembani e i bar promuovono gli “Aperitivi del Casaro” abbinando all’aperitivo tre tipi di formaggi e stuzzichini a base di erbe in modo da portare sulla tavola i sapori della tradizione e della cultura della Valle Brembana. Primizie primaverili, prodotti caseari e iniziative di alta qualità: undici paesi, un unico grande territorio da scoprire!

Ecco gli appuntamenti della sesta edizione

– Sabato 28 maggio: “Le buone Erbe Spontanee”, le Donne di Montagna di Ornica e Slow Food Valli Orobiche guideranno un’escursione alla scoperta delle erbe spontanee nei prati del caratteristico borgo

– Domenica 29 maggio: “Dal Campo alla Tavola”, appuntamenti alla scoperta dei prodotti del territorio e dei loro sapori

– Giovedì 2 giugno: “Alla scoperta di Antichi Sapori”, un percorso che guiderà alla scoperta dei sapori tradizionali dell’Alta Val Brembana

– Sabato 4 giugno: “Formaggi di… vini”, un percorso gastronomico che accosterà le prelibatezze casearie della Valle Brembana ai Vini bergamaschi

– Domenica 5 giugno: “Benessere in Natura”: erbe spontanee e benessere, un accostamento perfetto a stretto contatto con la natura.

Info: www.erbedelcasaro.it